«Roma», «Romina», «Rominalis», «Romus», «Romulus» 

Lasciato l’aeroporto di Otopeni e caricate le valigie, in macchina lungo il vialone che porta alla Capitale, chiedevo all’autista quale il significato dci nome: «Bucuresti», Quel bravo uomo, ammesso che i tassisti di tutto il mondo han la stessa grinta e la stessa cultura locale, ridendo, rispondeva: «Bucuresti da Bucur il pastore mitico» e soddisfatto il Rumeno, soddisfatto anche l’Italiano che si accontentava della risposta non potendosene aspettare altra e diversa. 

Questo il caso di città che prendeva nome dall’eroe eponimo come Atene da Atena in Grecia, Alessandria da Alessandro in Egitto, Palinuro da Palinuro e Gaeta da Gaeta in Italia. 

La curiosità e l’insoddisfazione, madre e matrice l’una e l’altra di conoscenza e scienza, mi spingono a rivisitare la leggenda della fondazione di Roma tanto importante per i Romani esquilini e inquilini dell’Urbe che da quella data: «Ab Urbe Condita» contavano gli anni, i lustri e i secoli. 

Si legge, e questo corre sulle labbra dell’inclito e in bocca al volgo, che Romolo, fratello gemello di Romo, segnasse col vomere dell’aratro tirato da vacca all’interno e da toro all’esterno il solco della cinta muraria della nuova città che nessuno doveva scavalcare per nessun motivo e per nessuna ragione. Romo, il fratello maggiore concepito dopo ma nato prima, per matta voglia o dispettoso gusto scansando i varchi fatti da Romolo nel solco per far le quattro porte, ubbidendo al sacerdote che gli gridava: .Porta!, .Porta!., scavalcava il sacro solco, Romolo, il fratello minore concepito prima ma nato dopo, ucciso il fratello, veniva acclamato primo re della città chiamata Roma dal suo nome. 

«Rom+a», «Rom+ina», «Rom+in+alis», «Rom+us», «Rom+ulus»; cinque nomi con la stessa base ma con suffiziali diversi debbono indicare cinque cose tra loro semanticamente collegate. 

Roma e Bucuresti: due città capitali di due nazioni neolatine con nome avuto dal rispettivo eroe eponimo. Il tarlo del dubbio cominciando a ronzare decidevo di liberarmi del tarlo sempre più insistente. 

La leggenda anche se bella resta leggenda e nulla ci dice del rapporto tra nomi e realtà lasciandoci perplessi: «Roma» da Romolo o Romolo da «Roma» potrebbe sembrare uno scherzo e non lo è. 

I Filologi, gli Storici, i Numismatici, gli Antiquari sul problema han detto, han scritto, hanno sussurrato quanto potevano, ma nessuno d’essi capace di sciogliere il dubbio e di risolvere il problema. 

Quelle menti dotte, anzi dottissime, han scritto, han detto, hanno sussurrato perché lo credevano: «Roma» significar: 1) «Amor»; 2) «Valentia»; 3) «Fiume»; 4) «Forza»; 5) «Poppa». 

Logicamente, delle cinque soluzioni una la vera o nessuna la vera; se di esse vera una o vera nessuna, sarà compito della «Taratalla» dimostrarlo applicando alla questione la .Metodologia Sperimentale, già utile in altre ricerche e più difficili. 

La Filologia Sperimentale apre la discussione movendo dalla prima soluzione: «Amor» anagramma di «Roma». 

A prima vista, l’anagramma seduce e inganna ma la soluzione inaccettabile per chi incapace di tramutare gli Aborigeni Latini abitatori del Colle Capitolio in cruciverbisti «ante tempus, che invece di montar a difesa della Città Quadrata: «Romanus sedendo vincit»1, se ne stavano in panciolle occupati a stilar anagrammi. Gli Aborigini Latini e i Quiriti lor non lontani nipoti sono diversi dai «Graeculi» che aborrendo le armi e preferendo la cultura, nel Museo d’Alessandria e dintorni, stilavano dotti e, per Giove!, raffinati epigrammi e anagrammi. 

La Filologia Sperimentale fa notare: i «toponimi» pur potendo per capriccio o per voglia essere anagrammati, restano sempre «toponimi» e nulla e nessuno riesce a mutarli tanto essi vischiosi e insopprimibili2. 

L’anagramma non avendo nulla con la leggenda di Roma, nulla ha a che fare con l’indagine e per questo esso accantonato. 

La Filologia Sperimentale rivisita la seconda soluzione: «Valentia»: il nome arcano dell’Urbe; arcano il nome era e arcano il nome resta, ma se esso porta e sopporta il nome antico di Roma, non avendo esso nessun rapporto con il «toponimo» e con la leggenda dell’Urbe, esso resti nelle menti dei dotti ma lo si cancelli da chi ha in mente un solo obbiettivo: scoprire se il nome «Roma» ha qualcosa che lo ricolleghi alla leggenda e alla fondazione della Città. Sulla città di Roma, da tempo fondata e minacciosa sulla riva sinistra del biondo Tevere: «in ripa Romana», calavano le Forze combinate Etrusche dalle città della Dodecapoli e Roma cadeva sotto il dominio etrusco e dei Lucumoni Tarquini. 

Gli Etruschi facevano entrare l’Urbe nella storia; gli Etruschi davano a Roma il meglio delle loro conquiste e per gli Etruschi Roma si avviava verso il suo glorioso destino. Che gli Etruschi chiamassero la città conquistata: «Roma» da «Rumon»: «fiume» intendendo con quel nome dire: «la Città del Fiume« è cosa lecita, logica e fattibile se è diritto del conquistatore lasciare traccia di sé nei territori e nelle città conquistate, ma anche ai conquistatori non è permesso mutare i «toponimi» che resistono, che sopravvivono a tutti gli sforzi fatti per cancellarli dai documenti e dalle menti delle genti. 

I Romani si ribellavano al dominio straniero e cacciati gli Etruschi si riprendevano la Città e dando forma al nuovo regime politico ridavano a «Roma» il suo nome nel vero e antico significato. 

Dal meridione avanzavano i Greci armati di cultura, non di armi e la loro invasione era peggiore e più penetrante di una conquista armata. I Greci nei loro scritti parlavano della leggenda di «Roma», ma anche quegli eruditi facevano uno sbaglio: essi non collegavano il ‘nome «Roma» con la leggenda; non facendone un «toponimo», per nobilitarlo lo collegavano con la voce greca: «rhome»: «forza» e così contenti essi, contenti quanti, e sono una lunga schiera in infinita pompa, oggigiorno ripetono «Roma: Forza», con un colpo solo tradendo linguistica e leggenda. 

A far saltare l’ipotesi greca basta osservare: il «toponimo» aborigeno perché dovuto agli Aborigeni Latini abitatori antichi di quei famosi e fatali Colli prima che vi calassero gli Etruschi e ancor prima che vi salissero i Greci. 

Dimostrate false e inaccettabili le quattro soluzioni avanzate a spiegar il nome -Roma», resta da esaminare la quinta e ultima: «Roma=Poppa» per vedere se l’uguaglianza regge o non regge. 

«Ruma» o «Rouma=Poppa» si fonda sull’autorità di Festo che al nome collega: «dea Romina, ‘:ficus Ruminalis•. La Filologia Sperimentale che non tiene affatto conto del -principio d’autorità., non s’inchinerebbe davanti a Festo se non vedesse concorrere a sostener Festo l’orografia e la linguistica assistite dalla leggenda. Il Colle Capitolio che ancora porta le tombe degli Aborigeni abitatori del Colle fatale, a quei tempi, staccato da tutti gli altri Col, li intorno, si offriva agli occhi come una -Poppa., prima che la mano dell’uomo ne guastasse aspetto e forma. 

Se la -diva Romina.: -Rom+ina. era la dea delle poppe e dell’allattamento alla quale le mamme romane alzavano preghiere e levavano voti per aver le poppe di latte gonfie da porgere ai pargoletti lor figli: i magnanimi nipoti di Romolo; se il ‘:ficus Rominalis.: -Rom+ina+lis’ era il fico all’ombra del quale le mamme romane cercavano rimedio alle proprie poppe aride e secche, come n.egare che -Roma> significava: ‘poppa. se questo significato lo si ritrova palese e chiaro nella leggenda? 

I due Gemelli: Romo e Romolo: -Romus·: .Rom+us. e -Romulus.: .Rom+ulus., figli di colpa grave, vennero lasciati in balìa delle acque allora bionde del Tevere perché in esse morissero travolti dalla corrente e dai forti vortici. Il dio Tiberino salvava i due bambini e spingeva a riva la cesta nella quale Romo e Romolo vagivano. Il pastor Faustolo li salvava e li affidava alla moglie Acca Larenzia perché li ristorasse con il latte dei suoi seni. La donna, ,vulgato cO/pore·, aveva soprannome: ,Lupa. e dai nomi di -Romo·: .Poppante. e di ·Romolo: Poppantello. e dalla .Lupa. nasceva la leggenda della -Lupa che allattava i due Trovatelli., come fa la Lupa conservata nel Museo cittadino di Alba Julia nella Romania. Così avvenne che ,Roma. non ebbe nome dal mitico fondatore ma Essa dava il nome al suo fondatore. 

Resta la leggenda ma spiegata; resta il nome di ,Roma>: ,Poppa.: restano i nomi di Roma e di Romolo: i due gemelli poppanti; resta il ricordo di ‘Romina. dea dell’allattamento e di -Rominale., il fico dell’allattamento dal latte denso e vischioso all’ombra del quale le mamme romane, a miracolo ottenuto, saziavano la fam ~ dei loro ·Romiio e delle loro -Romule·. 

Resta Roma e l’antica sede dell’-immobile CapiL;lii saxum. (3) e la sede cristiana dell’-immobilis Petri Petra. (4) continua dal suo inesausto seno a porgere all’umanità il perpetuo flusso della civiltà e del progresso perché questo volle il .FatuTTl’ (5) romano, perché questo si volle dalla cristiana .Providentia. (6). 

[Origen). 

– -Petro primum Dominus super quem aedlfteavit Ecclesiam et unde unitatis originem insntuit et ostendit, potestatem istam dedit ut inde solveretur (in coelis) quid nle solvisset. (Cypr. ,_Epp. 73) (Sugg. Don Lorenzo Rossetti, parroco in Canale Monterano). 

 

Chi traduce e intende Fatum: destino, fuorviato in questa lettura dalla cultura greca surretizialmente infilata dai «Graeculi» nella cultura romana, non può intendere la sostanza della cultura romana tanto distante dalla greca quanto Roma distava da Atene. 

Davide Nardoni

1. Varro, De Re Rust, 1, 2, 3. 
– Tit. Liv., Ab Urbe Condit., II, 12; XXII, 39. 
2. In Brasile: .Maracana., .Taubatb, .Iguazù., etc., sono toponimi indi che i Portoghesi non sono riusciti sradicare, che la moderna cultura e i «mass-media» non sono riusciti a cancellare dalle menti e dalle lingue. 
– L’imperator Adriano fondava .Aelia Capitolma» sul sito della distrutta Jebùs, Salem, 
Jerusalèm: città trinonima ma il nome scompariva e lo ricorda solo lo Storico che lo toglie dal mucchio delle fossilizzate parole per ridargli un passaturo sospiro di vita. 
3. Verg., Aen., IX, 448. 
4.Latuit aliquid Petrum aedlfteandae Ecclesiae Petram diclum, claves regni coelorum consecutum et solvendi et alligandi in coelis et in terris potestatem? (Tertul., De praescript., 22). 
– ‘Magno illi Ecclesiae fundamento et Petrae solidissimae super quam christus fundavit Ecclesiam. 
5. Fatum· da -far. è la -parola. della Divinità Somma invisibile, inconoscibile, inconosciuta, senza tempio, senza simulacri a rappresentarLa, senza collegio di sacerdoti che sola organizza l’universo intero mondo secondo il piano arcano: arcana Fatorum che Giove e gli altri partecipi del Celeste Senato possono e debbono svelare agli uomini per segni: «signa», da interpretare. 
6. Nella Providentia cristiana, se c’è cristianesimo, c’è anche, almeno nella esterna scorza se non nella interna sostanza, dello Stoicismo, se è vero, come è vero, e chi può negarlo, che la mentalità greca ha tutto guasto per dar ragione al detto empirico: «Chi sa, fa; chi non sa, insegna!» che è più di un programma, che è più d’una rovina e d’una eterna sconfitta!

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 8-10.




«Poeti», «Poesia», «Poemi»

Il postino dell’Ostiense infilava nella cassetta delle lettere invito a chi invito non aspettava e con la borsa di grasso cuoio a spalla se n’andava ad infilare altri inviti nelle cassette delle case che fiancheggiano viale Aventino.

Dal Circo Massimo van le case in duplice fila fino a Piazza Albania sorvegliata da Alì Skandaru Berg, castriota eroe skipitaro che immobile di giorno, immobile di notte scavalla sul tozzo destriero che leva la testa ma non abbassa la coda come il prode cavaliere che leva la testa ma non abbassa la curva scimitarra: terrore dei Turchi seguaci del Profeta e degli Iman.

Quel postino traditor dei figli di Dio. amico di Satana e seguace delle sue pompe, non immaginava qual cumulo d’ansia cacciava con l’invito in chi invito non s’aspettava: tanta ansia nei precordi dell’uomo invitato a presentar libro di poesie nella Biblioteca Nazionale in Viale Castro Pretorio nell’Urbe Roma.

L’uomo invitato sentiva soddisfazione per il riconoscimento alla sua cultura e alla sua oratoria ma dal cervello gli stillava stillicidio di paura per la congenita sua incapacità ad intendere i poeti contemporanei, tanti dei moderni, tanti delle passate generazioni, ammirando il cardinal d’Este che non capiva l’Ariosto. L’uomo tra la soddisfazione: figlia della vanità, e la paura: figlia dell’ignoranza, vedeva i giorni trascorrere, sentiva passare le notti ma la tenebre non squarciava lume di speranza.

L’uomo ruminando al buio e masticando al chiaro, agitandosi all’interno e all’esterno battendosi a due mani il petto, o ad una mano l’anca come facevano gli eroi Achei sulla spiaggia del lido reteo, non vedeva luce capace di sfondare il muro della sua ignoranza. Nessuna speranza per chi con .folle ardire e temeraria audacia» non aveva prestato orecchio ai filosofi che la san lunga e lunga la dicono sulla filosofia; non aveva dato ascolto ai filologi che la san lunga e lunga la raccontano sulla filologia; non aveva piegato il capo davanti ai teologi che la san lunga e lunga la dicono sulla teologia.

L’uomo nella sua insipienza acerba aveva fatto suo il motto: «Nec unquam Philosophum audivit»! che Cneo Pompeo Trimalchione Mecenaziano voleva nella «nomenclatura» del suo funebre monumento1.

L’uomo non poeta: poeta si nasce, non si diventa poeta; il poeta non matura se tempo e paglia maturano solo le sorbe nelle ceste; di questo convinto, l’uomo a tutta. possa scansava la tentazione della poesia che novella Morgana gli faceva vedere l’inesistente per esistente come capitava a sant’Antonio che ne vedeva nel deserto delle sue tentazioni più di cento e mille.

L’uomo si convinceva: chi indegno del nome di poeta, indegno di salire scalzo alla vetta del santo Parnaso, indegno di scandire scalzo la cima del sacro Elicona. Spuntava il giorno della conferenza: paura nei precordi di chi nell’ambascia della miseria si ripeteva le parole del Sulmonese che al figlio Ovidio in estro di versi e in fregola di poesia raccomandava:

«Meonides nullas Ipse reliquit opes»! 2

e quel padre non poteva prevedere che versi sciagurati avrebbero costretto quel Nasone di figlio ad esulare dall’Urbe amata all’odiata terra pontica, sulla costa «a lido» del Mar del Ponto che i Geti autoctoni chiamavano «Akshaèna», i commercianti greci d’lstria, di Tomis, di Callatis chiamavano «Axeinos», i Romeni d’oggi chiamano «Marea Neagra»3, per finirvi nella miseria della desolazione i giorni della sua abiezione.

Stringeva l’ora e l’uomo con la sua sposa, lasciate le remurie e l’antro di Caco ladrone, raggiungeva Castro Pretorio: la non agognata meta imposta. I due sposi sorreggendosi con regime di braccio e con parime di parole, superato il ponticello in ferro gettato sul cantiere della Metropolitana «A», raggiungevano la Biblioteca Nazionale e v’entravano con passi non diversi dai passi dei Marsigliesi chiamati dal banditore ad allungar sul pieghevole tavolo della ghigliottina capo e collo per aver la testa spiccata dal busto e per non vederla con sordo tonfo nella cesta di vimini.

Entravano i due nella sala: la moglie Ermelinda invocando la celeste Potenza perché illuminasse il marito; il marito Davide supplicando gli eterni Dei a scatenar dal cielo tremuoto in terra per toglierlo dall’impossibile «cul-de sac» fornito d’entrata non d’uscita.

Entravano i due nella sala stipata da gente di «prima» tutti poeti com’essi dichiaravano «ore rotundo», come essi s’inventavano «apertis verbis»; nella sala rei d’omissione quanti tacevano la colpa altrui per non arrossire della propria; sporco gioco giocato a carte coperte e con scoperte ipocrisie: pratica antica degli uomini sulla faccia della terra. Saliva l’uomo sul palco e, seduto in poltrona come su trono di spine, e teneva le mani in mano come il pescatore del mare Posillipo che a riva tiene le mani sotto le ascelle a ripararle dal freddo e non sa che pesci pigliare, egli pescatore di professione!

Chiudeva il penultimo oratore con pirotecnici globi di sfavillanti parole nobilitando «poeti», «poesie» e «poemi», con l’aureola coronando i morti e i vivi incoronando col nimbo quadrato, distribuendo a piene mani polvere di gloria a destra, a manea su tutti i poeti presenti, sui poeti assenti perehé tutti degni di gloria. Dalle infuocate parole che dritte e fitte tracimanavano da quella degna bocca, come potente schizza l’acqua dal conchiglione del Tritone in Piazza Barberini, venne all’uomo l’ispirazione da tanto invoeata a dimostrare vero l’adagio: «Un punto come, più di un punto!».

Sorrideva beato l’uomo a tanto bene e ammiccava alla moglie che non sapendo cosa fare di sé, non sapeva cosa pensare di chi nella disdetta continuava ad ammiccare accrescendone l’imbarazzo. S’alzava a parlare l’uomo e perentoria all’uditorio poneva la domanda: «Cosa significa la parola poeta?». Alla domanda impertinente perché irriverente, gagliarda la sala esplodeva in fragorosa risata ma nessuno rispondeva alla domanda perché tutti convinti di saperne il significato.

Paziente e non avvilito l’uomo che sapeva quello che voleva, ripeteva la domanda più impertinente perché più irriverente verso il dotto uditorio; non venne risata dalla sala ma nessuno si alzava a dar risposta. L’uomo riinsisteva nella domanda ma con identico risultato: silenzio da manca, da destra, dalla prima e dall’ultima fila delle poltrone.

Il silenzio di tutti quei dotti patentati e spatentati costringeva l’oratore a spiegare l’etimo della parola «poeta» a chi credendo di possederlo si vergognava di dichiararsene ignorante, ma bolliva dalla curiosità di sentire la spiegazione di chi non si rendeva conto di star nell’antro di Polifemo.

All’oratore veniva aiuto dalla «Rhematologia.: la scienza delle parole. «Poeta», «poesia», «poemi»: tre parole volgari derivate da parole latine a loro volta derivate da altrettante parole greche: «poietés», «poiesis», «poiema» tra loro collegate dalla stessa radice che originava il verbo: «poiéo»,

La voce greca «poietès», parola composta dalla base verbale: «poi-o, dalla tematica: o-e’ e dal suffiziale: «-tès» dei «nomina agentis» ad indicare la professionalità dell’operatore che il latino indica col suffiziale «tor». Il bisturi della Filologia Sperimentale se ricavava la radicale del sostantivo: «poietès» non chiariva l’etimo. Non demordendo, essa operava sul verbo: «philéo»; dal verbo togliendo la desinenza: .«éo» otteneva la radice: «phil-»; alla radice aggiungendo la desinenza: «-os» otteneva l’aggettivo-sostantivo: «philos», dalla radice potendo costruire tutte le voci possibili.

Alla stessa maniera la Filologia Sperimentale operando sulla radice: «poi-» ad essa aggiungendo la desinenza: «-os» otteneva l’aggettivo: «poios» significante: «quale» per il quale «poiéo» significa «qualificare. e il sostantivo: «poietès» significa «qualificatore».

Fidia, l’esimio scultore, dal blocco di marmo traeva il simulacro di Athena e i Greci condannavano per empietà, «asebeia» l’artista che osava scrivere sullo scudo della dea eponima: «Pheidias epoiese», volendo dire che con la sua arte traendo dal marmo la dea, aveva ‘qualificato» il marmo che prima era solo materiale grezzo e senza forma.

Partendo dal nuovo etimo della voce «poietès», l’oratore dava voce, dava anima a nuova «poetica» che portava a diversa visione della poeticità e ad una differente valutazione dei poeti e teneva applaudita conferenza ma non si faceva illudere dagli applausi di chi, poeta patentato, non accusava la botta o non digeriva il colpo e tutti continuavano a sentirsi poeti e a smaniar poesia poco importando se «qualificavano», se non «qualificavano’ quel poco che c’è da ‘qualificare. da chi vive una vita che abbisogna non di «qualificatori» ma di anestesisti capaci di addormentare nelle fibbre quel poco spirito che ancora rugge in qualche cuore smarrito e che ancora canta in qualche petto sano.

Nell’antica Grecia «poietès» è l’artista di professione che con la sua arte «qualificava» la leggenda del popolo greco e le imprese compiute a vantaggio della gente greca e dell’umanità sparsa nelle terre dell’Ekumene e oltre. «Poietès» fu Omero che nell’Odissea «qualificava» la gente della razza mediterranea: capelli crespi e neri, occhi neri, colorito moro e oscura la carnagione, che al suo garbo e sgarbo andava per commerci o per diporto per le vie del mare fidando nelle navi, nelle carene, negli alberi, nelle vele, nei remi e nei timoni4 . «Poietès» fu Omero che nell’Iliade «qualificava» il popolo degli Achei: capelli biondi e fini, occhi chiari e colorito bianco in candida carnagione che dal settentrione scendevano a valanga nella vallata della Grecia mettendo tutto a soqquadro e a rovina di morte, essi che non conoscevano il mare e non sapevano navigare5 .

«Poeta» fu Vergilio, figlio di Vergiliomaro della tribù celtica degli «Andes» e di Magia Polla della gente Osca, che nell’Eneide cantava d’Enea, dei Troiani e dei Latini chiamati dal «fatum» a farsi collaboratori della fondazione del Popolo Romano: «Tantae molis erat Romanam condere gentem»6 .

«Poeta» fu Dante che in tre cantiche «qualificava. l’uomo cristiano, e gli uomini di tutti i tempi indicando la via da battere «per seguir virtute e conoscenza»7.

Questi i poeti dell’umanità a noi cari; degli altri san tanti a parlarne, a scriverne sicché a noi par cosa giusta lasciar campo e dar spazio ai valorosi critici per quelle loro cruscomatiche sanconie e sampiche battubade, se ancora valido il detto: «Ogni operaio degno della sua mercede»8.

Con la «taratalla» abbiamo gettato un altro seme dal nostro ventilabro e trepidi attendiamo che la nuova «poetica»9 metta radici, faccia tronco e metta rami e getti fiori e foglie stabilendo nuove regole e norme nuove che faccian distinguere la «pula» dalla «cama», la vecchia dal grano, la vera poesia dalla poesia spuria che come la moneta cattiva scaccia la buona, come l’erba palatana copre i muri e come la gramigna copre campi e prode: oggi celebra il suo trionfo ma sente sul collo l’alito caldo del vento Scirocco che solo secco deserto lascia dietro di sé: nunzio di aridità, messaggero di vicina morte.

Davide Nardoni

1. T. Petr. Arbitr., Satyricon, M. Hadrianidc, C. Blacv, Amsterdam, 1669, p. 273. da “Spiragli”, 1990, n. 2- Taratalle
2. Ovid, Trist., IV, 10, 22.
3. Che i Greci di Mileto approdando nella Gezia chiamassero quel mare: «Pontos Axeinos»; «Mare Inospitale» a significare la barbarie dci Geti, è stato sempre detto e vieppiù creduto da sofoni che convinti di sapere di greco, neppure immaginavano che i Greci che fondavano colonie: «apoikiai» a Tomis, Histria e Kallatis con «Axeinos» si illudevano di rendere il suono della voce getica: «Akshaéna»; «azzurro-cupo» con la quale i Geti chiamavano il loro mare che i Greci poi chiamavano: «Pémtos Éuxeirws», i Romani «Pontus Euxinus», i Romeni della: «Tara Romaneasca»; «Marea Neagra» e noi Italiani: «Mar negro». 
4Tre versi nel Canto Sesto dell’Odissea (VI, 229-231) confermati dai «murales» di Hagia Triada, Knossos e Festa in Creta e nell’isola di Thera, convincevano chi con gran sorpresa ammetteva il poema d’Odisseo: la saga del popolo Mediterraneo al culmine della sua civiltà. Nei «Nostov», il canto originario, il nucleo primigenio della grande saga; ad essi vennero aggiunte la «Telemachia» e la «Mnesterofonia» da chi lontano dalla verità credette bene di unire la saga marinara alla guerra di Troia combattuta e vinta da altro popolo di altra razza, di altra lingua, altra religione e diversa cultura, biondo di capelli, bianco colorito e candida carnagione.
5 Che i principi dei Panachei fossero biondi, calassero dal nord al sud, portassero con sé armi e guerra, ignorassero mare e correnti, stelle e vie del mare nessun lo nega, ma parimenti nessuno ha il «folle ardire e la temeraria audacia» di proclamare l’Iliade più giovane dell’Odissea, perché le due opere sono frutto di due diverse culture, di due popoli diversi, affermatesi in epoche successive.
6 Verg. Aen., I, 37.
7 Dante, Infern., XXVI, 120.
8 Luc. X, 7.
9 Concludendo: «poeta» = «qualificatore», «poesia» = «qualificazione», «poema» = il «prodotto della qualificazione», «poetica (techne)» = «l’arte del qualificare».

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 6-7