Singulare prudentiae specimen 

 Un premio Scala per la narrativa, un premio Calliope per la poesia, ambiti riconoscimenti per la pittura e la fotografia, una intensa collaborazione a riviste e periodici, fanno di Romano Cammarata un protagonista del mondo artistico e culturale italiano. 

Un fatto per molti aspetti eccezionale, se si pensa che Romano Cammarata è anche un alto ed efficiente Dirigente dello Stato, il supremo moderatore, presso il Ministero della P.I., della Direz. Gen.le classica, scientifica e magistrale: un settore particolarmente rilevante della cultura e della scuola del nostro Paese. 

Il rapporto fra illetterato, l’artista, il pubblicista, da una parte, e il ruolo estremamente impegnativo del Dirigente, dall’altra, lungi dal far registrare, come pur si potrebbe essere indotti ad opinare, iati e dicotomie, è invece perfetto, incredibilmente armonico e come tale produttivo di risultati non comuni che rappresentano – ed è questo l’aspetto che più vorrei sottolineare – un fatto nuovo nella storia della P. I. che è oggetto di particolare interesse dentro e fuori le mura della nostra “Minerva”. I due momenti, meglio le due dimensioni dell’uomo, fanno registrare esemplari connotati della stessa spiccata personalità che si illuminano e si integrano a vicenda. 

Ma non basta: l’avvertito bisogno di evadere dal chiuso del Ministero di Viale Trastevere, per raggiungere le varie regioni d’Italia, allo scopo di potere ascoltare, in maniera non mediata, la voce degli operatori della scuola, dei presidi, dei docenti, degli stessi studenti talvolta, per sentire il polso, per percepire le pulsioni di una istituzione (che spesso solo la dedizione e la passione dei suoi protagonisti salva dalle secche), l’esigenza di volersi rendere conto de visu di Situazioni spesso diversificate, questo bisogno di scendere in campo per conversare con animo sincero, scevro da pregiudizi e da stereotipati “tòpoi”, la piena disponibilità a recepire istanze da parte della scuola militante e a intrecciare con essa, anche in sede epistolare, scambi di vedute, fanno di R. Cammarata un Dirigente di tipo nuovo, una specie di magistratus novus atque mirificus, proprio perché singularis. Un ruolo certamente non facile, soprattutto in un momento di incertezze, di stasi, di lunghe e snervanti attese che contrassegna il mondo della scuola, a dispetto della conclamata volontà politica di riforme radicali o parziali, ma un modo di assolvere responsabilmente ad una funzione quant’altro mai complessa e delicata, spinto dalla forza impellente di un imperativo categorico, volto ad esorcizzare l’immagine di una Amministrazione centrale ferma, bloccata, passiva, mummificata, quasi, da un immobilismo di cui non è certamente responsabile e che essa vive con fastidio, con legittima insofferenza, sentendosi il tenninale di tensioni e di scontenti, che salgono dal mondo vivo della società e della scuola. 

E quel che sorprende in questi contatti con R. Cammarata è l’atteggiamento di ascolto rispettoso, paziente, inteso ad offrire la sua proposta che, si badi, non è mai impositiva, ma di dialogo: testimonianza di questo suo modo di essere, la recente lettera ai presidi e ai docenti interessati sull’insegnamento delle discipline classiche. 

Io debbo confessare che, nella mia ormai lunga milizia di ispettore centrale, non ricordo Direttori Generali che, in occasione di Convegni culturali o di Seminari di aggiornamento, abbiano partecipato con più vivo interesse di lui, vivendo le varie problematiche anche con una costante presenza fisica per tutto l’arco dei lavori, tirando alla fine le fila di lunghi e spesso divaricanti dibattiti, con competenza, con estremo equilibrio, con indiscussa sagacia. 

Questa figura di Direttore Generale, per così dire “itinerante” e per molti aspetti davvero “inedita”, risponde, oltre che ad un’ottica moderna del ruolo direttivo, ad un intimo bisogno dello spirito, portato non ad esaurirsi in comode crociere attorno al proprio ufficio o attorno alla propria scrivania, ma a dialogare, a conversare, a cogliere l’ansia dell’inter1ocutore ed insieme a dar voce al proprio “io”, sensibilissimo ai richiami del mondo circostante. Questo modo di vivere la sua alta funzione non è perciò un fatto formale, esteriore, finalizzato a certo esibizionismo di gusto scenico: è una viva, profonda esigenza del suo spirito che, se non realizzata, lo farebbe sentire, se non un frustrato, certamente un dimidiatus! 

E la stessa esigenza è alla base della sua attività di narratore e di poeta. Senza entrare in questo specifico campo, io vorrei soltanto sottolineare come il narrare, il poetare, rispondano ad una precisa tipologia umana, portata alla ricerca di uno strumento particolare per esprimere meglio, in maniera più compiuta, immediata ed incisiva, inquietudini, speranze e – perché no – un gran bisogno di certezze, in un’ottica che, nella sua sostanziale laicità, converge naturaliter verso le vette di un Cristianesimo avvertito non come qualcosa di estrinseco, di rituale, di moralistico, ma come una realtà di liberazione, di alleanze, di comprensione, di comunione, di amicizia! 

Narrare, perciò, e poetare per dare voce al proprio “io’, per dare un senso, un colore alla vita: e la partecipazione è alta ed intensa, coinvolgente tutta l’esistenza, come quella che è intesa a riscoprire l’interiorità, non come fuga, bensì come luogo in cui contemplare e collegare insieme le due dimensioni di cui è intessuta la nostra vicenda storica: l’uomo e il mondo. 

Chi come me, a parte la pagina scritta, a tutti accessibile, ha il privilegio di una continua frequentazione dell’Uomo, avverte che l’opera di Romano Cammarata, narratore e poeta, è lievitata, da quello stesso leit-motiv che pervade le più belle pagine delle “Meditazioni” di un Marco Aurelio, nelle quali tutto ruota intorno ad un aetemum intemum che è il motore di una continua rigenerazione, di un vero e proprio rinascere, che l’Imperatore-filosofo esprime con un verbo greco di particolare efficacia “ava~l(òvat” (VII, 2). 

Un colloquio, dunque, quello del nostro Autore, con se stesso, vissuto come mezzo per la ricerca di una perfezione più alta, un colloquio che, lungi dall’essere, come dicevo isolamento dal mondo, si appalesa come lo strumento in virtù del quale l’uomo-cittadino collauda la virtus e, una volta fortificato, intende, senza iattanza, adoperarla per l’umanità, in un generoso ed operante ottimismo: una connotazione precisa della sua Weltanschauung che non mi pare lo collochi, come pure da qualcuno è stato detto, nella scia del suo illustre conterraneo: Luigi Pirandello. 

A me sembra che l’analogia col grande agrigentino può essere data solo dal fatto che entrambi, figli di una terra che fu teatro fra i più interessanti della grande civiltà mediterranea, e centro di commercio spirituale fra i popoli, hanno saputo fare, talvolta, di certa “sicilianità” una chiave di interpretazione dell’universo umano. 

Un viaggio, come dunque si vede, nel gran mare dell’essere quello del nostro Cammarata, il quale, nonostante il buio della notte, nonostante gli imperversanti marosi e lo sferzare dei venti di tramontana, non smarrisce la bussola, riuscendo sempre ad ancorare la sua navicella a quei lidi, prima intravisti e poi fermamente tenuti, che sono i fascinosi approdi illuminati dalla superiore luce del giusto, dell’onesto, della libertà, dell’umana dignità. 

Di qui la presenza di un’etica civile e sociale profonda, saldamente radicata nell’uomo e nello scrittore: ed io mi chiedo, in proposito, se il dramma di un Agostino Bertoni, il protagonista di “Violenza oh cara” non sia un grido in faccia a certa società di oggi, – fonte spesso di violenza occulta o palese – proprio nel segno della libertà e della dignità dell’uomo e del cittadino, in nome di quella solidarietà, pronta ad essere da più parti sbandierata, ma altrettanto farisaicamente disattesa e tradita! 

Di qui il bisogno di rifondare, da parte del nostro Autore, la sua fiducia nell’uomo, di qui il suo patto con l’esistenza, proprio a dispetto di quella violenza che, più di quanto non appaia, costituisce quasi sempre il tessuto connettivo della storia e contro la quale è possibile lottare con successo se ognuno di noi sa portare alla ribalta del vivere quotidiano con costanza, con coerenza, senza tentennamenti, le innate e latenti capacità reattive: una lezione, perciò, in sostanza, un vero e proprio messaggio a tutti, ma in particolare alle giovani generazioni. 

Ora se questo è il senso della pagina di Romano Cammarata, si comprende benissimo come il colloquio con se stesso, su cui ho ritenuto di dover mettere l’accento, scaturisca dalla convinzione che solo nell’interno, in interiore homine, per usare l’espressione di Agostino, è la sorgente più vera e più pura, che può riprendere e zampillare purché l’uomo la cerchi e la scavi. E come diceva il vecchio filosofo Epitteto, solo che tu lo voglia, troverai sempre un’ora di calma per farlo! E non è fuor di luogo richiamare in proposito anche una pagina delle ”Tusculane”, in cui Cicerone afferma che la massima forza morale è data dal colloquio che si svolge nell’interno del nostro cuore. Proprio da questo continuo ascolto vien fuori quel larghissimo senso dell’umano, fatto di misura e di signorile compostezza, che contrassegna Romano Cammarata come uomo e come dirigente: è il frutto, molto raro nella nostra convulsa e spesso alienante società, di una humanitas saggiamente dosata fra “‘3″toç ‘tCOPl1’tlKOç” e “pioç 1tpUK’ttKOç” e che lo autorizza, riecheggiando Menandro, a ripetere col poeta latino: Homo sum, nihil humani a me alienum puto. 

Amante della riservatezza e della modestia, cultore dell’amicizia, espressione di una cultura per nulla aduggiata da conformismo o inquinata da estremismi ideologici, Romano Cammarata, quale Direttore Generale dell’istruz. classica scientifica e magistrale è un sicuro punto di riferimento per equilibrio e senso di responsabilità, sempre pronto a convogliare, sulla giusta rotta, ottiche non sempre ortodosse, come quando, ad esempio, invita a riflettere su certe strumentalizzazioni o pretestuose discussioni (valga per tutti la presunta antinomia fra le due culture), non esitando ad evidenziare i rischi di un sapere scientifico troppo spesso presentato come alternativo a quello umanistico. 

Ma qui si è voluto dare solo un limitato specimen di quella prudentia, nella più pregnante accezione latina, di cui l’uomo è depositario ed insieme generoso dispensatore. 

Giovanni Vanella

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 59-62. 




Un melanconico ottimismo 

Una “svolta” nella produzione letteraria di Romano Cammarata segna il breve romanzo Violenza, oh cara, apparso nel 1986. Dalle pagine autobiografiche Dal buio della notte, dalla raccolta poetica Per dare colore al tempo, trascrizione lirica del primo libro, egli approda, così, alla narrativa. 

La vicenda è collocata in una città anonima: Agostino Bertoni, un onesto pensionato, benché innocente, viene coinvolto in una vicenda giudiziaria, perché assurdamente accusato di essere stato complice di un sequestro di persona. Convinto di subire una violenza dalla giustizia (oltre a quella già subita dalla vita, con la morte della moglie che lo ha costretto a vivere in solitudine, con la compagnia di una cagnetta bastarda) rifiuta di difendersi e di collaborare col giudice che lo accusa; a costui, anzi, chiede di provare la sua innocenza. (Alla violenza del destino, che gli ha tolto la moglie, egli non ha saputo ribellarsi, si ribella, ora, alla violenza degli uomini, a suo modo.) 

Nella narrazione si inseriscono, intanto, vari personaggi; i quali, attraverso un inquieto, imprevedibile dipanarsi di eventi, tutti legati alla violenza, contribuiscono a sciogliere l’intreccio dell’azione con una soluzione inattesa. 

La trama del libro, quindi, è innestata sul motivo della “violenza” che si insinua in modo imprevedibile nelle cose degli uomini, e agisce su di esse, manovrandole e pilotandole oltre la difension di senni umani: sicché tutti i personaggi del romanzo sono costretti a subirne le conseguenze, da cui altrettanto impreviste, spuntano grossi risvolti positivi: è un incessante alternarsi di sfiducia, e fiducia, col susseguirsi di eventi lieti, che alla fine rendono più accettabile la violenza stessa, cara, che sia o che sembri tale. 

Il racconto è, dunque, una variata e talvolta allucinante meditazione sulla collocazione esistenziale dell’uomo, esposto ai colpi della violenza, ma serpeggia nelle pieghe della narrazione un’intima sofferenza, sfuggente e inquietante, che consente tuttavia di cogliere bene il giudizio dell’autore, sospeso fra pessimismo e ottimismo, perché questi atteggiamenti, eterni in quanto appartengono all’uomo, coesistono nel libro, senza che l’uno prevalga sull’altro, determinando sfiducie e fiducia; sicché anche il “lieto fine” è avvolto da una malinconia – appena un’ombra – : quella “felicità”, raggiunta dopo tante dolorose esperienze, ha in fondo la sua radice nella “violenza”, che può sempre riprendersi quello che, attraverso l’intrecciarsi di tanti avvenimenti, ha elargito. 

Le meditazioni di Agostino, dopo la raggiunta “felicità”, sono illuminanti: «… oggi comincia un giorno nuovo; quello tanto atteso; nascono altri interessi intessuti di motivi profondi. 

Ma non può non ricordare gli avvenimenti che, indirettamente, ora, gli consentono di recuperare la vita, la gioia di vivere. 

Eppure sono stati avvenimenti che avevano tutti la radice della violenza: il suo arresto, e il carcere; Carlo con le sue tristi e dolorose esperienze che lo avevano fatto criminale; l’uccisione della guardia, marito di Sofia, caduto per compiere il proprio dovere. 

Ognuno di quegli episodi, per un misterioso gioco del destino, per un intrecciarsi di segreti disegni, si era congiunto con gli altri…»l. 

La “filosofia” di Agostino non è problematica: egli parla a se stesso con confidente abbandono e si esprime con brevi riflessioni, con semplicità tranquilla, quasi rassegnato all’ordine immutabile dell’esistenza, che egli accetta per quello che essa è, ma che pure guarda con anima poetica, per concludere che in fondo “tutto questo è bello”. 

In tutto il racconto si coglie l’intricarsi del rapporto tra l’autore-narratore-personaggio, ma talvolta il rapporto si pone in maniera gerarchica, nel senso che l’autore prevale, come quando, nel carcere Agostino è colto da un sonno ristoratore, che “arriva ad acquietare quel fiume di pensieri, di meditazioni”, per riportarlo, mediante il rifluire dei sogni, “in un mondo innocente, lontano, intimistico, di ragazzo che amava la solitudine, in continuo rapporto-dialogo con la natura, le cose”. In quella circostanza l’autore si stacca, quasi con delicatezza, dal suo personaggio per annotare: «Un sorriso lieve si è posato sulle labbra dell’uomo che dorme in una cella di isolamento di un carcere sprofondato nel buio della notte e del tempo»2. 

Oppure, quando, a fissare la monotonia logorante dei giorni trascorsi in cella, l’autore interviene direttamente nella narrazione, sostituendosi al personaggio: « Il tempo passa, i giorni si succedono ai giorni e tutti figli dello stesso padre, con gli stessi caratteri scontati, tanto che si poteva scommettere sul giorno dopo e sugli altri ancora»3. 

Altre volte la presenza dell’autore si avverte in maniera meno evidente, come quando si sofferma o indugia su notazioni naturalistiche che, improvvise, qua e là, affiorano per dare alla narrazione il tocco lieve di un colore, o per insinuare un attimo di pace o di “straniamento”; «… il cielo sereno, limpido e luminoso che prometteva una giornata di sole, i cui primi raggi, ancora obliqui al di là delle case di fronte, indoravano le cime di alcuni abeti cresciuti alti in una villa vicina». «La primavera era inoltrata e la natura splendeva partecipando alla nuova stagione, ammantandosi di verde e di luce». «Allora il cielo sembrava vicino, sulla collina, nel silenzio bello della natura. Il vento, col cambiare d’umore recava ora la resina pungente dei pini, ora la salsedine del mare vicino … Ma allora in quel cielo azzurro oltre le nuvole bianche c’era Dio e a casa, vicino al mandorlo, l’amore della mamma». « Il riquadro del cielo è l’unico contatto con la natura, anche se il cielo sembra tanto alto e lontano. Almeno lo si può guardare a piacimento e perdersi a seguire le nuvole che mutano forma, libere come sono di sentire il vento “. « … corre ad aprire i battenti del balcone sul quale brilla il sole 

e dove i pochi vasi di geranio hanno ripreso i colori»4. 

L’autore si identifica e si diversifica al tempo stesso dal personaggio; in fondo, però, a dare respiro e colore alla pagina è sempre quell’inconfessato bisogno di Cammarata di ritornare alla terra e alle acque, ai venti e ai profumi della sua Sicilia. Ma nella conclusione del libro la presenza dell’autore è senza dubbio più scoperta perché in quelle ultime parole (“tutto questo è bello”) c’è lo stesso approdo delle altre due opere, sempre con quella melanconica consapevolezza del provvisorio, del transitorio, con lo stesso invito a continuare, a vivere, sia che siamo oppressi dal dolore e sia che siamo vittime della violenza5. 

L’avvio della vicenda farebbe pensare a Kafka (Il processo); ma si tratta di un riferimento del tutto esteriore, senza alcun riscontro effettivo, in quanto l”‘ideologia” sottesa al romanzo di Cammarata è tramata da una inespressa fiducia, che, senza essere rigorosamente ancorata ad una concezione metafisica, opera e agisce nella vita umana, con la stessa forma del suo antagonista, la violenza; sicché il mondo di Agostino è un mondo in cui splende sempre la luce: un pezzo di cielo si apre anche sullo squallore del carcere; e la sua solitudine non è mai angosciosa o desolata, ma è riscaldata dal calore della memoria del passato: la casa, l’amore della mamma, il cielo azzurro, il mandorlo fiorito, immagini salde e reali che legano il personaggio-autore alla “sua” terra, da cui non si sente “sradicato”. E l’attesa di qualche cosa che deve accadere non resta mai delusa, perché c’è sempre quel “varco” montaliano che riesce a stabilire, nella imprevedibile trama dei gesti e delle vicende umane, una comunicazione con la vita. 

Nel libro autobiografico Dal buio della notte il “varco”, attraverso cui Andrea riemerge alla vita dalle sofferenze del male, è l’amore per il prossimo; nella raccolta poetica Per dare colore al tempo il protagonista del male di vivere approda all’isola della poesia, con la voglia di resistere, di continuare; nel romanzo Agostino, senza essere mai abbandonato dalla sua coscienza critica, pur nella condizione di passività, scelta come estremo rimedio contro le “ragioni” del mondo, che con i suoi ingranaggi stritola ed umilia l’uomo onesto e dignitoso, trova la via d’uscita attraverso il “varco” dei vari risvolti positivi, che, anche se scaturiscono dalla violenza, sono stati sempre intravisti dalla coscienza critica del personaggio, che rafforza la sua fiducia nelle qualità positive dell’uomo, facendo appello alle potenti risorse spirituali che ciascuno porta in sé. 

Il rigore stilistico, a cui Cammarata ci ha abituato con le due opere precedenti, trova nel romanzo un’ulteriore conferma: il linguaggio semplice, scarno, lucido e nitido, da cui traspare la tensione intellettuale e morale dello scrittore, attento anche agli effetti di un’accorta punteggiatura, conferisce alla pagina una pulizia formale e sottende un significato profondo, straordinariamente intenso: il dramma dell’uomo sconfitto dai perversi meccanismi della realtà sociale, ma anche il suo anelito di speranza, di un ottimismo sano, capace di trovare nelle vicende della vita spazi sempre più ampi, dimensioni più durature e meno precarie. 

Altre caratteristiche emergono, però, dalla prosa del romanzo. Se le pagine dell’autobiografia (Dal buio della notte) si leggono tutto d’un fiato, come un diario, le pagine di Violenza, oh cara, precise, levigate, dal sapore talvolta realistico, o delicatamente liriche, rivelano non poche novità, che rinviano a frequentazioni di scrittori assai diversi, ma sempre impegnati sul versante formale e stilistico. Per prima cosa il ritmo della narrazione, che si attesta sulla cadenza, talvolta persino ossessiva, dei “ritorni verbali”, che si individuano nella coppia presente/futuro o presente/condizionale. Certo, il tempo presente domina l’azione del libro: l’ordine del vissuto e quello della parola scandiscono il medesimo ritmo; la vita, in fondo, è scrittura, e la «grammatica del vivere» (Svevo), diventa anche la grammatica del testo. 

La fissità rigida dei tempi storici (in particolare dell’imperfetto) è rispettata solo nelle prime pagine del libro e in quelle – brevi – che riproducono il “flusso della memoria”, e sono parti di racconto, operato dal personaggio-narratore, che parla o racconta o interpreta muovendo dal nunc: subito dopo, ricompare il tempo presente, con una persistente coerenza, nel “monologo interiore”, in cui Agostino si rifugia (ma Carlo, il giudice, e, in tono minore, un po’ tutti gli altri personaggi del romanzo), per esercitare al meglio le capacità di riflessione e di osservazione e per esplicare il massimo dell’immaginazione psicologica garantito dal massimo di verosimiglianza, la quale è verità fantastica – è bene avvertirlo -, lontano, quindi, dalla verità empirica e documentaria della cronaca6 . Proprio il “monologo interiore” immette il lettore, fin dalle prime pagine, nel pensiero del personaggio principale e di quelli secondari, i quali nello svolgimento ininterrotto del proprio pensiero allineano i dati della coscienza di quanto loro accade, attivamente o passivamente, come soggetto e come oggetto. 

Il ricorso, dunque, alla forma del “discorso vissuto” spiega l’uso dominante del tempo presente, che dà la connotazione del “non-essere” del futuro, ma spiega anche l’uso del passato, nei momenti in cui la memoria rifluisce al tempo andato7. E ciò rende anche ragione del modesto spazio riservato nel romanzo alle battute dialogiche: il dialogo, per lo più, tende a risolversi in monologo, in cui il personaggio, quasi collocato fuori della dinamica narrativa del racconto, segue il corso del proprio ragionare e riflettere, cioè dei suoi reali processi mentali attraverso l’invisibile intrico dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti8. 

Quale la collocazione storica del romanzo di Cammarata? Il lettore che si fermasse su alcuni elementi che, pur essendo i più appariscenti, sono senz’altro esteriori e poco determinanti per inquadrare l’autore in una precisa linea di tendenza, sarebbe senza dubbio indotto in errate valutazioni. 

Il “lieto fine” e la fluidità della narrazione potrebbero, infatti, indurre a definire il romanzo Violenza, oh cara, come un libro di stampo ottocentesco: ma un esame attento, o meno sbrigativo, della pagina e del libro complessivo non giustifica e non autorizza una siffatta definizione, Perché non poche sono le caratteristiche che conferiscono al libro un’indubbia attualità. L’architettura del romanzo, cioè l’organizzazione razionale degli eventi, colti nella loro successione logico-cronologica9 , l’ideologia sottesa ai fatti con la inquietudine per la condizione dell’uomo, legano intimamente il libro a problemi della realtà di oggi; ma è soprattutto lo stile, con le caratteristiche individuate e messe in risalto, che porta decisamente il romanzo di Cammarata fuori di certi schemi ottocenteschi. Senza dire che il continuo “interscambio” o intreccio di autore-narratore-personaggio, anche in quei momenti di sopra-impressione o gerarchia dell’autore sugli altri due, toglie alla realtà del libro i caratteri dell”‘oggettività” o della “rappresentazione scientifica”, per conferirle, invece, non solo quelli più propri e più personali dell’interiorità del singolo, della coscienza, soggetto-oggetto, che svela se stessa, ma anche i segni del desiderio del puro gusto del “raccontare”, di muoversi con originalità, appunto, nel mondo del linguaggio. 

Walter Tommasino

l. R. Cammarata, Violenza, oh cara, Caltanissetta-Roma, Sciascia Ed., 1986. pag. 192.
2. Op. cit., pag. 64. 
3. Op. cit., pag. 84. 
4. Op. cit., pagg. Il, 18, 61, 92, 174. 
5. Cfr. i nostri due interventi: Vivere attraverso il dolore, ovvero “Dal buio della notte”, in “Il Corriere del giorno”, 26-2-1984; La poesia di Romano Cammarata, tra sogno e realtà, in “Istruzione tecnica e professionale”, n. s., Roma, Palombi Ed., n. 84, 1985, pagg. 222-227.6. Per il “monologo interiore”, che i tedeschi chiamano erlebte Rede (“discorso vissuto”) e i francesi le style indirecte fibre, cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, pagg. 593-600: il volume, pubblicato postumo con presentazione di E. Montale, raccoglie le lezioni universitarie degli anni Sessanta (dal ’60-61 fino al ’65-66). Sul discorso critico che si è sviluppato sulla nascita in ltalia del romanzo antinaturalistico, cfr. anche, M. Guglieminetti, Strutture e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Milano, Silva, 1964, ora, in nuova edizione, col titolo lievemente diverso, Il romanzo del Novecento italiano. Strutture e sintassi, Roma, Editori Riuniti, 1986. 
7. L’autore introduce i monologhi con l’uso delle “virgolette”, come veri discorsi diretti che i personaggi stabiliscono con la propria interiorità; cfr. Op. cit., pagg. 11-12; 19-20; 39-46; 70-74; 91-92; 107-108; 186-187. 
8. Cfr. Op. cit., pagg. 28; 55-57; 75-76; 94-95; 98-106; 116-117; 129-130; 156-158; 176177. 
9. La separazione tra ordo artifteialis dell’intreccio e quello criticamente formalizzato dalla fabula consente di cogliere la dinamica del racconto. le intenzioni espressive del narratore, il suo modo di porsi nei confronti del lettore. Per un discorso critico più approfondito sulla narratologia si rinvia a T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino. Einaudi. 1968: C. Segre. Semiotica filologica, Torino. Einaudi, 1979: S. Chatman. Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche, 1981.

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 63-68. 




Per dare colore al tempo 

 Ho conosciuto stasera il vuoto che invade le cose, il gesto che fruga i profili dell’ombra, ed insegue un nome smarrito nella memoria. 

Per questi versi ho conosciuto gli arpeggi delle dita che salgono lungo il fumo della nebbia e lo modellano in fianchi e volti, subito prossimi a disfarsi sotto la pur lieve carezza. 

Per questi versi mi sono fermato inquieto sul punto dove il tempo si rovescia e si insegue, sulla soglia esangue che divide il giorno dal giorno e lo ripete, nell’ora ferma in cui 


pendolo triste 
ancora si muove 
il vuoto trapezio. 


E il suo andare, ondeggiando per sempre, scolorisce ogni volta una speranza. 
Ho cercato – lo dico – nella trama dei versi il suono che vibra forte e canta a note piene i sensi e l’amore e richiede l’applauso. 
Ho trovato l’accordo sommesso che parla da amico, 


Parole povere 
sparse da mano distratta 
che dopo il largo gesto 
cade inerte sul fianco. 


E a poco a poco ho sentito il ritrarsi dentro l’anima, il deserto dei colloqui smorzati. Ho ritrovato le attese interrotte, gli slanci fermati dall’indifferenza, gli abbracci senza risposta. 


Dalla finestra che si apre 
tendo le mani…  

Ma la folla ignara occupa le strade e le ingolfa, s’interseca ad ogni incrocio, riprende ottusa la sua corsa. 
Qui non c’è chi racconti le sillabe che insinuano nella mente un trepido invito all’amore, non c’è chi ascolti la voce che misura la solitudine, povera eredità dell’uomo: 


niente 
è rimasto tra le mie braccia. 


E sull’anima la vita è passata senza un segno, come l’onda 


che non serba ricordi 
che scivola sul viscido scoglio. 


Questo canto ha saggiato le parole che legano gli uomini e le ha trovate senza suono. In esse ha scoperto l’arida struttura che si interpone tra il cuore e la voce e crea la regola che dà precaria consistenza ai rapporti tra gli uomini, li spartisce nei ruoli, li consuma nei riti: ma questi si sciolgono al tramonto, per lasciare ciascuno provvisorio com’era, con il peso del vuoto sopra il petto.  

E’ così: nessun altro gesto che è iscritto nel giorno dura quanto il tocco leggero che sfiora la fronte segnandola con il suo calore, né si prolunga, se non si strugge nelle 


notti accarezzate dagli accordi di chitarra, dai 
canti lenti degli uomini che nell’abbraccio del 
buio perdevano la potenza, preda dei soli 
sentimenti, e divenivano fantasmi buoni a 
rincorrere sogni. 

Questo canto ha la musica scabra del lamento sull’uomo dilapidato, seme gettato a mani prodighe in cento solchi e senza frutti, sull’uomo stordito ai crocicchi, dove la luce opulenta cancella le memorie. 
Erano giorni veri, cresciuti dove gli alberi mantengono le foglie anche d’inverno, quelli che insegnarono 


a respirare la vita goccia a goccia 
l’amore a spartire con l’odio 
che è amore di sensi oppressi. 


Qui torna la mente, appena la sera si disfa. È vero 

I ricordi 
come uccelli migratori 
tornano sempre all’origine. 


Anch’io ho smarrito oltre il mare la strada che porta alla patria, dove l’inverno ha la forza del vento di bora che fa lucide le file di scogli che ritagliano l’orizzonte. È anch’essa 


isola 
circondata d’ignoto. 

 

Assediata dal tempo mostra di lontano solo la punta bianca del campanile 
Questa musica ha il suono lento di un canto di luoghi lontani, che si inerpica per l’anima e la scuote senza occasione. 
Dice le sere sulla panca a fianco il focolare e i vecchi che sapevano i proverbi, 
e il vino caldo, dolce come i pomi vizzi, ancora rossi presso il balcone. 
Dice il caldo grande della valle 

dove d’estate, nelle campagne riarse, il riverbero 
delle stoppie brucia gli occhi e dove, sui campi 
scoscesi, si ergono ancora le bianche pietraie, 
i calcificati sacrari della fatica umana, nella 
dura scoperta di una terra avara. 

E ancora, se ti fermi un istante, lì, presso il muro a secco, dove ora si ammucchia la rovina, sorridendo – non a te, non a me – ad altro sguardo, muove il capo la fanciulla e sulle spalle le scendono i capelli. 

Ho approdato anch’io alla tua isola, Romano. Ho sentito anch’io la tristezza dolce dei 

suoni che sono lamenti 
lamenti che sono canti 


che accompagnano i carri che vanno in fila argentata per la strada 


fiancheggiata dai pioppi 
– dita 
che contano ottuse 
i giorni – 
e si perdono, svanendo, 
lungo il pendio del monte 
entro le case antiche. 

In questa isola qualcuno ha già tolto la chitarra appesa al chiodo e le strappa empirie di suoni. A lui la vita non ha bruciato il coraggio di sperare, egli ha ancora il domani nel cuore perché sa dare una carezza per solo amore. 

Sono i ragazzi che fanno vive le scuole dei paesi, e intrecciano voli nelle piazze con i motorini e le borse dipinte, sulla schiena. 
Ora anch’essi 

percorrono sentieri imprevedibili, che sono quelli 
del gelsomino, deifichi d’india e dei fiori lilla dei 
capperi, che tutti portano alle case antiche, 
lungo i -pendii dei monti. 

Flavio Quarantotto

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 53-57




Il rame e la vita

Le scelte materiche di un artista possono obbedire talvolta a ragioni che sono ben al di là e ben più in alto delle ragioni della tecnica creativa. Le scelte materiche possono anche attingere dimensioni di profondità concettuale, tale da trovare la radice dei propri processi di determinazione, in termini di logiche espressive, produttive, generative, sul piano delle stesse scelte motivazionali, esistenziali dell’individuo artista che, attraverso quelle scelte, estrinseca oggettivandoli i propri parametri interiori di attività e di giudizio. Le scelte materiche di un artista, in buona sostanza, sono riconducibili ad un rapporto tra la dimensione esistenziale dell’essere e la realtà talvolta dolente del divenire che quell’essere attraversa, risultandone condizionato e nello stesso tempo determinandolo e improntandolo. 

Non coglierebbe certamente il senso, lo spessore, la densità emotiva di questo rapporto chi immaginasse che l’orientamento materico di un artista, nel momento che precede la fase creativa, ma che talvolta con essa si identifica, sovrapponendosi, se non in termini temporali, almeno in termini di coincidenza emozionale, si sviluppasse attraverso un accostamento alla materia valutata e accettata in funzione della sua disponibilità estrinseca all’intervento creatore. L’itinerario di questa scelta-rapporto è ben diversamente ricostruibile, sempre che si voglia ricostruirlo in termini di penetrazione della diacronia storica dell’opera d’arte. 

Il cammino che porta l’artista all’approccio creativo con una determinata materia trascende la dimensione intrinseca della materia stessa, che non è più vista come supporto naturale, come elemento di estraneità, di alterità, rispetto allo slancio creatore che nell’artista palpita di una propria vitalità autonoma, che autonomamente va accolta, registrata, promossa, sviluppata, fino all’oggettivazione nel manufatto artistico. 

Di qui discende lo statuirsi di un processo biunivoco, per il quale la materia si offre all’artista e l’artista alla materia, nella prospettiva di un reciproco arricchimento/impoverimento, quasi spasmodico dono di se stessi all’altro, ad un altro che è l’individuo creatore ed è anche la “cosa” creata, per cui due avidità sembrano accoppiarsi con una fame dell’altro che può anche essere sentita nella prospettiva di una sessualità intellettuale, alla quale non è estranea né l’angoscia del desiderio, né l’appagamento del piacere raggiunto, goduto, sofferto. 

A questo punto si potrà anche immaginare e dire che ci sono materie che si offrono con maggiore sensualità all’artista rispetto ad altre che sembrano racchiudersi in una loro gelida frigidità, che l’artista riesce magari a violentare, plasmandole alla propria volontà, senza però che esse conoscano l’ansimare partecipato e partecipante del godimento comune. E questo ovviamente non soltanto in funzione della materia in sé, ma anche in relazione alla fame esistenziale dell’artista. 

La tela col suo distendersi aperta nel candore che sa di verginità preziosa e inutile nello stesso tempo, reagisce poco e male alla carezza/oltraggio del pennello o della spatola, per cui il dono del colore che è dono di sangue e di intelletto sembra ricevuto senza gratitudine, nella prospettiva di un omaggio dovuto, di un ossequio istintivo, quasi compenso/risarcimento per la perduta (ma non donata) verginità. 

Il marmo col suo incombere massiccio e greve, finché ovviamente levità non gli venga dallo scalpello che fruga, penetra e crea, sembra postulare un distacco, rispetto all’artista, sembra statuire una sorta di distanza di rispetto, che l’intervento creatore riesce a superare soltanto se ed in quanto la forza sua intrinseca sappia e possa domare, per così dire, il blocco, il masso, il nemico/estraneo di marmo. E le stesse reazioni del marmo all’intervento passionalmente violento della mano scalpellante dell’artista, restano in termini di rigidità, di freddezza, di estraneità, poiché si concretizzano in schegge dolenti e scabre, in blocchi che si staccano, in elementi di superfluità che vengono eliminati e che comunque conoscono una sorta di processo di rifiuto, di rigetto, di distruzione. 

Il bronzo nasce alla vita dell’arte passando attraverso un diaframma che si pone con secchezza ardente tra l’artista e il risultato della sua emozione creativa: penso al diaframma del fuoco della fusione, il cui peso nel processo creatore non saprei quantificare senza chiedermi dove finisca l’impegno dell’artista e dove cominci la forza di natura, che l’artista deve assoggettare alla sua volontà ma che attraverso i vincoli e i legami della tecnica, attraverso i limiti rappresentati dalla forza limpidamente eppur ottusamente costruttiva delle leggi della fisica, può anche rifiutarsi all’imperio emozionale del creatore. La lunga notte/lotta del Cellini, l’angoscia che avvelenava il suo gioioso anelito creativo, in attesa della riuscita della fusione, se da una parte segnano una delle pagine più brillanti della sua prosa autobiografica, dall’altra traducono in termini letterari un dramma artistico che trova la sua matrice proprio in quel fuoco/diaframma che separa l’artista dalla materia bronzo. 

Non diversa appare la situazione relazionale per quanto concerne la creta, che nella morbidezza della sua umida modellabilità contiene un germe di fragilità, che soltanto attraverso il passaggio del fuoco attinge una solidità che non è però resistenza né durata nell’assoluto del tempo e dello spazio. 

Resta il rame, che mi pare fra i materiali che si offrono alla scelta dell’artista quello che maggiormente coniuga la disponibilità con la “durata”, intesa non come durata intrinseca, come durata materica, bensì come durata della creazione, come durata delle forme che lo slancio emozionale dell’artista ha assunto per se stesso e per il mondo al quale egli parla. Sul rame la mano dell’artista interviene con la morbidezza della carezza appassionata, carezza non priva, quando la sensualità della creazione lo esiga, del necessario peso, della necessaria insistenza ai limiti della violenza dolce/forte, che la materia sembra non sgradire, talché la sua resistenza è fatta di cedevolezza, quella cedevolezza che genera il rilievo, il segno, la rotondità, l’espressività. 

Nel rame palpita la vita, splende la luce, vibra il calore, si dispiega il colore, attraverso il variegarsi della superficie che acquista toni caldi e pastosi, nelle zone in cui si distende maggiormente per creare il rilievo, accanto a toni volutamente più freddi negli angoli nei quali la bruschezza dei dislivelli genera zone d’ombra, oscurità di sentimento e senso. 

In questa prospettiva spirituale le scelte materiche di Romano Cammarata, che ha, a lungo, privilegiato il rame sfogando su di esso una sua rabbiosa fame di vita, di certezze, di bisogni indistinti eppur sofferti, assumono il senso di una affermazione esistenziale, tesa a dire, attraverso le mani e il martello sul quale quelle mani cercavano e trovavano ritmi di vitalità anelante, quello che la parola si rifiutava di esprimere. 

La biografia interiore di un artista non può ignorare certi dati della vicenda umana, che se non condizionano l’evoluzione spirituale dell’uomo rappresentano comunque un elemento che interviene nella storia intima dell’essere. Taluni momenti di dolente realtà hanno segnato l’interiorità di Cammarata, che ne è uscito proiettato verso il mondo esterno, in un rapporto che è di continua presenza/testimonianza: una presenza che è fatta di multiformità di impegni, di varietà di interessi, di pluralità di moduli espressivi; una testimonianza che è fatta di unità e di costanza nel rapporto col mondo esterno/interno dei singoli e del tutto col quale Cammarata si rapporta. 

Ed ancora una volta il rame, come scelta materica nella prospettiva creativa, dice qualcosa di particolare, fornisce qualche ulteriore elemento di chiarificazione per una decodifica sincera e sicura dei messaggi che l’attività/produttività di Cammarata manda a chi voglia accoglierli con altrettanta disponibilità di testimonianza. Il rame dice il bisogno dell’artista che, uscendo da un mondo personale e oggettivo di dubbi, di incertezze, di terrori che sono fisici e poi morali proprio perché fisici, aveva bisogno di poggiare le sue mani su una materia che fosse insieme rigida e morbida, amica e nemica, amica da amare e nemica da domare. Il rame dice l’ansia di afferrare la vita, di possederla, di plasmarla, con un contatto diretto, non mediato, non strumentalizzato da diaframmi, non allontanato da passaggi intermedi. Il rame dice ancora la soddisfazione del risultato creativo che nasce e cresce nella immediatezza di un rapporto tra gli occhi e le mani dell’artista, in una tridimensionalità che non ha spigoli, non ha sbalzi, non ha contrappunti, non ha bianchi/neri, ha soltanto morbidezze, rotondità, levità. 

La prospettiva assai specifica ed individualizzata di questo rapporto tra materia e intervento creatore che Cammarata ha determinato con la scelta del rame si traduce in talune linee che costantemente caratterizzano la sua produzione. Si spiegano in questa ottica alcuni momenti/elementi della sua galleria ideale. Penso alla pienezza di talune figure femminili, alle cosce robuste ed esibite di taluni nudi che si materializzano in offerta impudente ma non impudica, al sesso che talvolta sembra isolarsi in certe prospettive di moraviana centralità. In queste linee calde e sensuali vibra una fame di vita che può e sa essere indifferentemente fame di terra e di cielo, fame di prosa e di poesia, fame di amore e di sesso, purché terra, cielo, prosa, poesia, sesso, amore nascano dalla vita e vita offrano a chi li accoglie con la serenità/duttilità che è indispensabile per l’uomo nel mondo: per intenderci, la serenità/duttilità del rame. 

Antonio Portolano

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 49-52.




 Un messaggio liberatorio 

Luigi Russo sosteneva che per conoscere un autore bisogna studiarne a fondo tutte le opere e non soltanto quelle esteticamente più valide o considerate emergenti. Il libro esprime l’animo e il pensiero dell’autore in un dato momento storico e psicologico, e, poiché intenzioni e reazioni sono sempre mutevoli, le singole opere non costituiscono alla fine che le facce di un prisma. L’unità, ovvero la personalità, l’universo e il messaggio dell’autore, va dunque ricercata nel “prisma”. È, cioè, l’insieme che definisce e identifica l’artista: se vogliamo davvero comprendere, ad esempio, il Manzoni, dobbiamo conoscere anche la Storia della colonna infame, il Discorso sul romanzo storico, e via dicendo. 

Romano Cammarata ha pubblicato a tutt’oggi due opere narrative e una raccolta di versi, che confesso di conoscere per estratti. Tuttavia ritengo già possibile individuare nelle sue pagine le coordinate di certe costanti interiori, un mondo. 

Si dirà: ma che cosa apparenta un diario come Dal buio della notte, che fu l’opera felicissima dell’esordio, con il romanzo Violenza, oh cara, che è del 1986? Apparentemente nulla. Il primo era la nuda e struggente cronaca d’un calvario ai margini della morte, il secondo è la fiction di una vita tranquilla che a un certo punto s’inceppa per dipanarsi poi, nuovamente, verso la normalità e il lieto fine. Eppure, il rapporto c’è: solo che nel primo libro traspare in filigrana e per antitesi (così come, per fare un esempio altissimo, nel pessimismo leopardiano è sotteso tutto l’incanto e l’ardore della giovinezza negata al destino); nel secondo l’identificazione interiore viene esplicitamente alla luce, perché l’autore agisce nella dimensione consueta dell’esistenza. Un’esistenza ovviamente avvertita, non più come un’eco remota, nella chiusa visione di chi dispera, ma come naturale sensazione di essere e di sentire, di poter formulare progetti, e magari soffrire, ma nella speranza. In questo senso, Violenza, oh cara può considerarsi, dunque, come ripresa e sviluppo d’una dinamica interiore dissepolta: una resurrezione in cui l’uomo, uscito dal pelago alla riva, apprezza il dono della vita, difende la propria dignità, solidarizza e cerca di ricostruirsi un destino. Del resto, non mancano altri punti di contatto tra i due romanzi. La comprensione e la pietà che affratellano l’autore ai malati dell’ospedale e che potevano apparire indotte dalla circostanza di trovarsi tutti nell’inferno del cancro, rivivono come essenze proprie dell’animo di Cammarata anche nel secondo libro. 

L’assurdo kafkiano che in Dal buio della notte piombava come un fulmine su una giovane esistenza, sradicandola senza ragione plausibile, torna in Violenza, oh cara sotto forma di una incredibile imputazione penale che infrange la continuità di una vita. Il resistere, con le armi del bisturi e della disperazione, alla violenza della malattia si fa rivolta della dignità contro la violenza del sistema giudiziario nell’opera più recente. Persino certe “ironie” si ripetono: dal tu degli infermieri all’epoca della malattia al tu dei secondini di adesso; dal pigiama dell’infermo alla casacca del detenuto; dall’isolamento dell’ospedale alla segregazione del carcere; dall’annientamento “biologico” dell’uomo a quello fisico e morale della prigionia. 

L’avvio del romanzo è perfetto, con quell’amarezza mitigata dal buon senso degli anni e quella discrezione che sarà d’ora in poi quasi il contrassegno dell’opera. L’inizio ricorda un po’ il film di De Sica “Umberto D. “: resistenza sbiadita del pensionato, la ripetitività dei giorni e dei gesti, la compagnia affettuosa di una cagnetta. Poi l’assurdo. Agostino Bertoni viene arrestato per una colpa non sua, inquisito, costretto in prigione. E qui l’autore introduce una sorta di “pirandellismo”, quello, per intenderci, del “Gioco delle parti”, ma non altrettanto freddo, sofisticato e astrattamente loico: il pirandellismo invece di chi soffre ingiustamente e oppone le proprie resistenze e ragioni. L’imputato decide di non difendersi: «Devi essere tu, giudice, a dimostrare la mia “innocenza”, visto che sei stato tu ad addossarmi una colpa». 

Questa pretesa, che mette l’inquisitore di fronte alle proprie responsabilità, non è una “trovata”. Agostino si attacca alla “forma” in nome della coerenza e della dignità offesa. E non collabora: perché la vita dev’essere in ogni istante autentica, vissuta nella verità, sottratta al sopruso e ad ogni tipo di compromesso. Questa consapevolezza spinge Agostino verso il giovane compagno di prigionia, Carlo, sbandata e insicura vittima dei tempi, e lo restituisce alla società e a se stesso, attraverso un’amicizia densa di comprensione. La violenza – egli dice – è nella natura, il mondo è perfido, ma l’uomo è un essere razionale e deve vivere, non soccombere agli istinti distruttivi. Anche la giustizia deve rientrare nell’alveo. Accanto, infatti, alla violenza inconsapevole esercitata dai genitori, a quella degli insegnanti, a quella della natura e del “destino”, c’è la violenza delle istituzioni e di quanti, come giudici, credendosi nel giusto, ligi al proprio dovere, cedono alla “sonnolenza della deformazione professionale e morale”, generando violenza. Invece, perché sia degna di se stessa e dei propri compiti, la Giustizia deve rispettare e comprendere, non soltanto inquisire. 

Violenza, oh cara diviene così un messaggio di liberazione, un invito a valorizzare i diritti civili e naturali dell’uomo al di fuori degli schemi imposti dall’alto e vissuti ipocritamente o in maniera distorta; una parabola della vita come intesa fra gli uomini, rapporto generazionale e fiducia. A quest’etica si ispirano le vicende narrate da Cammarata. È stato detto al riguardo che nel libro tutto è un po’ troppo facile, che psicologie e fatti, ambienti e conclusioni non sono come nella vita, ma come li vuole l’autore. Ciò è vero, ma solo se il romanzo si legge come una narrazione realistica. Violenza, oh cara è invece “apparentemente” reale, in effetti ha la corrività di un sogno, un sogno che proviene dall’intimo ed è proiezione e auspicio di una esistenza migliore, più soddisfacente. Quei detenuti tutt’altro che duri sono tali, non soltanto perché Cammarata – come già Don Lisander, se ci si consente il rinvio – non sa creare personaggi malvagi, ma perché i malvagi non rientrano nel messaggio o miraggio che il suo inconscio propone. Allo stesso modo, quel credere nella facoltà persuasiva delle parole o di certi atteggiamenti, o nell’eventualità che un giudice si tormenti davvero, pirandellianamente, intorno a un problema di coscienza, ovvero che una donna bella ed onesta e per di più giovane, desiderata con frenesia adolescenziale, corra fra le braccia di un uomo alle soglie della senilità e consenta beata di vivere con lui per tutti gli anni avvenire, sono quello che !’inconscio individuale e collettivo magari si attende, ma senza sperarci. Opera dunque di poesia, questo Violenza, oh cara, ma romantica e lievitata da un ottimismo di fondo che è una forza, come la fede, per chi ce l’ha. 

Prima di concludere, vorrei aggiungere una nota a proposito del rapporto Agostino-Sofia. Ma occorre qui un’acuta osservazione fatta da D. H. Lawrence nel primo capitolo dei suoi “Classici Americani”. L’artista, dice Lawrence, è un gran bugiardo, ma la sua arte vi dirà sempre la verità. Egli, di solito, decide di orientarsi verso una morale e di farne un racconto che, regolarmente, però, finisce per orientarsi verso tutt’altra morale: « Un po’ come Dostoiewskij, che si atteggia a Gesù e si rivela un piccolo mostro». In Violenza, oh cara, a dispetto della morale e di tutta l’etica di fondo, spunta un germoglio assolutamente inatteso: la sensualità dell’autore. 

Agostino, che già prima ha indugiato sul .ricordo delle sue consuetudini erotiche con Carmela, desidera Sofia. 11 che sarebbe normale, se sottinteso, considerata la sua buona fede nel voler fare del bene alla donna e alla sua bambina, accogliendole in casa. Ma Agostino desidera avidamente Sofia, e la descrizione delle attese, occhiate, fantasie, come dell’affinarsi delle sue arti che spiano e tendono agguati per far cadere la donna (la quale sintomaticamente cederà d’impulso proprio), occupa un capitolo a sé, rivelando la voluttuosa attenzione dell’autore all’argomento, l’erompere d’una consumata frenesia sensuale. 

In ogni caso non è Sofia il personaggio emblematico del libro, ma Carmela, la donna delle pulizie, « mezza campagnola e mezza cittadina “. Carmela è una creatura viva e una delle più vere di Cammarata. Essa si dà ad Agostino con una dedizione così spontanea da non sfiorare i margini del peccato; vive affettuosa nella penombra e veglia, amante e madre come la grande terra che accoglie nel suo amplesso il seme e il riposo degli uomini. Anche lei, naturalmente, ha i suoi problemi, ma è d’un candore che semplifica tutto con assennatezza; conosce i limiti della propria condizione e sa uscire di scena quando gli eventi prendono una certa piega. Un po’ Diodata e forse un po’ Molly Bloom, è l’anima speculare del libro, il senso di una poetica liberale che ha il coraggio, in tempi così sofisticati, di essere anche semplice. 

Ugo Morale

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 69-72.