SABINA CARUSO, Sale cinematografiche a Palermo. dalle origini al 1953. Campo, Alcamo, 2007.

I luoghi di uno spettacolo che fiorì a Palermo nella prima metà del ‘900 

Questo libro, oltre che studio storico-architettonico delle sale destinate a cinema, dalle origini a metà degli anni ’50 del ‘900, sembra dare l’idea di un documentario-manifesto per rilanciare, con la rievocazione degli anni d’oro del cinema, l’interesse per questa forma di spettacolo. Il cinema, infatti, ha esordito a Palermo in un momento in cui la città viveva un periodo felice, grazie alla forza trainante della dinastia FIorio che, coinvolgendo l’imprenditoria locale e straniera, aveva risollevato le sorti dell’intera isola, facendo del suo capoluogo una capitale dal respiro rrlltteleuropeo: Floriopoli. 

L’atmosfera brillante della Belle Époque favorì più che altrove il veloce attecchimento del cinematografo, che entrò nelle abitudini dei palermitani modificandone gli stili di vita. Il fenomeno si protrasse anche dopo il declino dei Florio e la grave crisi economica, sociale e culturale che investì la Sicilia a ridosso del primo conflitto mondiale. 

L’evoluzione di una tipologia architettonica per i cinematografi, messa a punto nel 1913-1925, rispecchia il perdurante entusiasmo di quegli anni alimentato da una committenza privata lungimirante (Biondo, Finocchiaro, Utveggio, Bonci, Mangano, per citare i più rappresentativi) che seppe intuire la forza di espansione di questo mezzo di comunicazione e vi investì risorse per assecondare le istanze di un pubblico sempre più esigente e numeroso. 

I progetti per le sale cinematografiche vennero affidati alle firme più prestigiose dell’ epoca, a cominciare da Ernesto Basile che, col Kursaal Biondo, cominciò ad allontanarsi dallo schema del teatro ottocentesco, ponendo le premesse di una ricerca tipologica atta a connotare questi edifici sia strutturalmente sia per il linguaggio architettonico. 

Passare in rassegna attraverso documenti fotografici i vari locali dall’origine sin quando televisione e discoteche ne hanno contratto la frequentazione assume un doppio significato: da una parte far rivivere le immagini di quella che può definirsi un’epopea che ha caratterizzato la nostra storia urbana; dall’altra indurre riflessioni sulla necessità di recuperare quel che resta di un patrimonio storico-culturale che rischia di disperdersi per incuria o disinteresse. Ne ricordiamo i nomi più rilevanti: 

Gran Salone Biondo – Teatro Olympia – Kursaal Biondo – Cinema Excelsior, – Palazzo-Cinematografo Utveggio – Palazzo- Cinema Massimo – Palazzo Finocchiaro – Supercinema – Cinema «II Modernissimo» – Cinema Imperia – Cine- teatro Diana – Cinema Orfeo – Cineteatro Dante – Ci ne-teatro Colajanni – Cinema-teatro Arena Trianon – Cineteatro San Lorenzo – Cinema Gaudium – Cinema Astoria. 

Oltre il profilo architettonico, lo studio ha contestualizzato la società dell’ epoca e i suoi rituali mondani, di cui il cinematografo divenne il luogo più rappresentativo. 

E opportune ci sono parse le rievocazioni di vari interventi nella produzione cinematografica di alcuni gestori e architetti, come Paolo Bonci e Raffaello Lucarelli. 

Per completare il quadro, ricordiamo le principali sale di spettacolo. 

Agria Bellina

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 57-58.




 Giuseppe Palmeri, Giornali di Palermo. Settimanali d’opinione dal dopoguerra agli anni ’80, Ila Palma, Palermo. 

 

Giuseppe Palmeri nei Giornali di Palermo, tra un gelato di scorzonera e cannella sotto le Mura delle cattive, le stigghiole arrostite dello Spasimo e della Kalsa e i primuneddi salati, descrive in maniera puntuale gli odori ed i sapori della sua città, nel trentennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Partendo dalle bombe che hanno devastato Palermo nel 1943, passando poi al dopoguerra e all’autonomia siciliana e finendo con la rinascita della città ed il boom edilizio incondizionato, l’autore crea una breccia nella realtà politico-culturale del capoluogo siciliano. Interessante soprattutto il modo in cui Giuseppe Palmeri incrocia la descrizione dello stato in cui giace la Palermo del dopoguerra alla carta stampata locale del periodo; si sofferma soprattutto su I vespri d’Italia (1949-1963), Semaforo (1961-1964), La Rivolta (1965-1968), Il Domani (1957 1985) e Voce Nostra (1968-1980), emblemi di un giornalismo politico palermitano libero e spontaneo. La prosa di Palmeri è quindi una lettura educativa, oltre che piacevole, perché permette di capire, attraverso i suoi settimanali di opinione, una parte importante della storia della città di Palermo in un periodo in cui, secondo l’autore, si predilige «clientelismo, particolarismo e spreco di risorse». 

Agria Bettina

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 56-57.

 




Un poeta fertile e di rara sensibilità

Un poeta fertile e di rara sensibilità  

Giovanni Monti, con il suo A due voci, in poche pagine riesce ad emozionare ed a creare nello spirito del lettore un varco, quel «qualcosa» che fa riflettere sulla vita, sulla morte ed in generale sull’esistenza. 

Il testo è un’unica poesia, anzi un poemetto, di colloquio con il padre malato; un discorso silenzioso, impercettibile con cui sembrano darsi l’addio. 

Versi semplici sia nel linguaggio che nello stile ma che creano un contenuto ricco e denso di significati profondi, di emozioni contrastanti che lasciano un segno nel lettore. 

Poco altro resta da aggiungere sulla raffinata prosodia di Giovanni Monti, se non l’invito a leggere A due voci non solo con la mente ma soprattutto con il cuore ed a lasciar penetrare nel proprio spirito la dolcezza e insieme l’amarezza dei suoi versi. 

Bettina Agria

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 63




FILIPPO GIGANTI, Ritorno a Jaffna, collana di narrativa «Meridiana», Ila-Palma, Palermo 1993, pp. 352.

Ci sono tragedie che, volutamente, vengono ignorate e non fanno più notizia, non essendo collegate a quegli interessi di cui si fanno garanti, forse nel proprio interesse, le grandi potenze mondiali. Il genocidio operato da più di un quarto di secolo nei confronti della minoranza di etnia tamil, da parte del governo cingalese di Sri Lanka è una di queste tragedie. 

Con il romanzo Ritorno a Jaffna, Filippo Giganti ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dei Tamil che, in una penosa diaspora, hanno lasciano la loro «Isola splendente», cercando rifugio in altre parti del mondo. Innestandosi sulle vicende di alcuni componenti della comunità vivente a Palermo, l’autore, in prima persona, riesce a condurre per mano il lettore da questa terra di immigrazione a quella di origine con una prosa viva e scorrevole che illustra una vicenda carica di avventure, in cui decine di personaggi, ora abbozzati, ora a tutto tondo, scorrono davanti agli occhi del lettore evidenziando problemi personali e familiari, tradizioni e fede religiosa senza che tutto scada nella tentazione della ricerca folclorica. Questa «opera prima» di un apprezzato notaio di professione, che ha sempre coltivato l’esercizio letterario con particolare inclinazione, sorprende per la naturalezza con cui si passa da momenti di forte drammaticità a situazioni di struggente tenerezza, da descrizioni paesaggistiche a intimi approfondimenti. Quei lettori che hanno già dimestichezza con i Tamil, che lavorano nelle loro case o aziende potranno aprire nuovi orizzonti nel reciproco rapporto quotidiano, mentre gli altri, che forse mai ne hanno sentito parlare, potranno apprendere fatti e situazioni ai quali i brevi trafiletti di agenzia, che raramente appaiono sui nostri giornali, non rendono giustizia alcuna. 

Il romanzo è permeato da una costante vena di suspence che suscita tutta una serie di speranze destinate, in gran parte, a rimanere romanticamente inappagate, lasciando il desiderio di un ulteriore complemento, che ciascuno potrà integrare, interpretando a suo modo lo snodarsi degli eventi. E questo è forse il suo maggior pregio. 

Bettina Agria

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 62-63.




Un monastero ortodosso in Oriente e una toccante storia di solidarietà 

Un monastero ortodosso in Oriente e una toccante storia di solidarietà 

Seydnaya è una storia. Seydnaya è un luogo. Seydnaya è amicizia, misticità. Seydanya può essere la storia di chi cerca di capire chi è, chi vorrebbe essere. Il romanzo è ambientato in un monastero singolare che raccoglie donne di religiosità diversa: cristiane, musulmane, ebree vi pregano per la Vergine, perché credono nella sua maternità e credono che «dal Suo grembo passi ogni figlio come ogni speranza del mondo». 

Ci sono due protagonisti e attraverso i loro pensieri. le loro azioni, il loro passato, il lettore impara a conoscerli e ad affezionarsi ad entrambi, seppure così diversi tra loro. Solamente nell’ultima parte i due personaggi si incontrano e basta un solo sguardo per far nascere una profonda amicizia: «Restarono convinti per sempre che in quei primi attimi della loro conoscenza si fossero detti tutto l’essenziale; le parole che quel giorno seguirono furono semplice conversazione, mentre i molti discorsi degli anni successivi rappresentarono la conferma di ciò che avevano provato nell’attimo del loro incontro». 

Il monastero ortodosso tra la Siria e la Terra Santa diviene luogo d’incontro, fisico e spirituale, di questi due personaggi, Gérard e Kurt, e delle loro anime. Due caratteri diversi ma uniti dal destino. Gérard un borghese alla ricerca di un ultimo congiungimento con sua moglie Anna; Kurt un fotoreporter che insegue il successo, la foto perfetta. Entrambi finiscono per trovare a Seydnaya sé stessi e la loro amicizia. 

Pochissime parole sono spese dall’autore nella descrizione del paesaggio, poiché ciò che importa non è l’esteriore ma l’interiore, non l’apparire ma l’essere. Non è il viaggio, né sono le storie dei protagonisti a costituire il cuore del romanzo, quanto piuttosto le loro anime e la loro crescita spirituale. 

Fabrizio Molina usa termini semplici, consueti, ma finisce per strutturarli in discorsi complessi, profondi, che si addentrano nella ricerca dell’ essere. Questo linguaggio, unito all’arcano monastero, contribuisce a creare un’atmosfera mistica, in cui il lettore si trova immerso. Infine, vale sottolineare anche l’obiettivo umanitario prefisso alla diffusione del libro, il cui netto ricavo è destinato ai bambini di «Nessun luogo è lontano-Onlus», di cui l’autore fa parte e che, sin dal 1998, agisce in campo socio-culturale. 

Bellina Agrìa

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 60.




ANNA BELLINA ALESSANDRO, Caminu di la vita, Repertorio dialettale, Ila Palma, Palermo, 2009.

Immagini che rivivono dal passato col sapore della lingua tradizionale 

Anna Bellina Alessandro con il suo Caminu di la vita ci regala un’emozione, un bagliore che riesce a illuminarci, anche se in poche pagine, l’anima. 

Una raccolta di poesie scritte in un dialetto siciliano elegante, usato come lingua maestra per descrivere diversi aspetti della vita quotidiana. 

Particolarmente emozionante è la poesia A Palermu vecchia. In pochi versi l’autrice descrive la bellissima città ed uno dei suoi rituali: l’arrivo de lu gilataru e del suo A st’ura v’arrifriscanu con il quale, in pochi secondi, riesce a radunare una folla di picciutteddi. Sono versi che nella mente del lettore creano un flashback, un ritorno al passato, a quando si era bambini. Chi infatti da piccolo non ha avuto un gelataio preferito e chi non ha corso sudato sotto il sole, così come perfettamente descritto nella poesia, per accaparrarsi il gelato al primo rintocco della campanella? 

Anche La picciuttedda rivela, nel ritmo dei suoi versi, l’ animo sincero della scrittrice palermitana, un po’ come l’occhi ca sunnu lu specchiu di lu cori. In realtà, tutte le poesie sono interessanti, tutte emozionanti e tutte degne d’essere descritte: Miraggiu, Lu latru, Littra a Federicu II Imperaturi … 

Caminu di la vita è un’opera impegnativa come lingua e come tematica, ma semplice e travolgente nella lettura. 

Svelare più di questo non si può … Tocca adesso al lettore scoprire tutto il resto e le emozioni che il Caminu di la vita riesce a suscitare. 

Agria Bettina

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 65.