Per una storia della letteratura siciliana

Una letteratura siciliana vale a dire una storia letteraria che ha il suo fulcro narrativo-critico in una singola regione del nostro paese, stimola e nello stesso tempo esige un doppio ordine di giustificazioni, in quanto, se da una parte non è superfluo proporre una riflessione sul perché di una nuova storia letteraria, a fronte di un panorama editoriale, scolastico e non, che di testi, nei quali con dignità e rigore culturale si affrontano le grandi tematiche della letteratura nazionale, ne offre tanti, dall’altra occorre ritrovare e chiarire a se stessi e ai lettori le ragioni di questa scelta prospettica, per la quale la problematica storico-letteraria viene affrontata nell’ottica specifica di una singola regione. 

Cominciamo col dire che forse la risposta alla prima implicita domanda potrebbe anche essere costituita dalla seconda domanda, nel senso che la novità della prospettiva di studio e di ricerca che è stata in questo caso privilegiata, potrebbe anche essere sufficiente ad identificare una motivazione per la proposizione di una nuova storia letteraria. 

Ma non possiamo fare a meno di proporre qualche riflessione: in primo luogo la stessa ricchezza articolata del panorama editoriale per quanto concerne le storie della letteratura italiana significa che discorsi unici e definitivi non sono proponi bili: potrà apparire paradossale, ma il fatto che ci siano molte storie letterarie significa implicitamente che di storie letterarie se ne possono scrivere tante, se ne possono scrivere ancora, senza che nessuna di essa abbia sapore di ridondanza, scada nel superfluo, si squalifichi come inutile doppione culturale. L’importante, naturalmente, è che ciascuna di queste storie letterarie si caratterizzi in nome della originalità dell’ approccio, della peculiarità dello sviluppo espositivo, della specificità dei risultati critici che si preoccupa di proporre. 

Vorrà dire, a questo punto, che il repertorio, se cosi possiamo chiamarlo, delle storie letterarie, assumerà il significato di un repertorio intellettuale, di una rassegna culturale non più soltanto delle proposte cognitive in relazione a fenomeni e personaggi della vicenda letteraria nazionale, ma anche in ordine alla presenza e incidenza di questi fenomeni e personaggi nella vicenda quotidiana della nostra nazione. 

E se facciamo riferimento appunto al rapporto fra accadi menti storico-letterari e accadimenti quotidiani del sociale, ci risulterà anche più lineare e comprensibile il ragionamento in relazione alla specificità di una storia letteraria siciliana. 

È appena il caso di sottolineare, infatti, che, quanto più fortemente apparirà sottolineato il rapporto fra la dimensione letteraria e lo svolgersi della quotidianità, tanto più dovremo sforzarci di cogliere i rapporti fra la generale valenza letteraria o storico di un avvenimento, di un personaggio e il contesto storico-sociale della terra che lo ha visto accadere, se si trattava di un episodio, che lo ha visto nascere e poi agire, se si trattava di un personaggio. 

Certamente Gorgia da Leontini sta nella storia della filosofia e, in prospettiva più specifica, in quella della retorica, per il suo essere portatore di uno specifico culturale, quello della raffinatezza ed eleganza formale dell’ eloquio, quello della potenza di convincimento che attraverso quell’eloquio raffinato si dispiegava. 

Ma bisognerà anche ammettere che quella complessa ed articolata serie di capacità/potenzialità si dispiegò, non certo casualmente, nel contesto politico e culturale della Sicilia: non a caso nel 427 a. c., quando gli abitanti di Leontini vollero chiedere l’aiuto di Atene contro Siracusa, proprio a lui si rivolsero, con un atto di fiducia che trovava le sue radici da una parte nella fama già diffusa del rètore, e dall’altra nell’istintiva convinzione che la comune origine siciliana avrebbe indotto il parlatore illustre a spendere i tesori del suo eloquio per la sua terra. 

Vuol dire che la dimensione territoriale, la prospettiva regionale, si giustifica in funzione di tutta una serie di legami, più diretti e immediati, che certamente esistono fra l’autore, fra il protagonista della vicenda letteraria, e il contesto storico-culturale nel quale si è svolta la sua vicenda umana e nel quale si articola la sua presenza culturale. 

Ma mi sia consentito di fare una riflessione particolare per quanto concerne lo specifico di questa storia letteraria, che si offre alla nostra attenzione di lettori come storia della letteratura siciliana. E dico una riflessione particolare, in quanto credo che non si possa prescindere da una considerazione relativa allo spessore vincolante che la sicilianità, se così posso esprimermi, assume nei confronti di chi ha avuto i natali e ha trascorso la sua vicenda esistenziale, in questa terra, che il sole riscalda, che il vulcano incendia, che il mare blandisce e nello stesso tempo schiaffeggia, che i profumi di tante coltivazioni ardenti di calore e sangue fanno vibrare sottilmente, di questa terra nella quale gli uomini non sembrano sempre voler riconoscere se stessi e la propria dignità, nella quale non sempre la dimensione umana della persona, pur sentita, pur vissuta, pur esaltata, viene accettata e riconosciuta nella pienezza della sua superiore dignità. 

Se posso abbandonarmi per un attimo al gusto del paradosso, alla tentazione di una provocazione, vorrei dire che uno scrittore siciliano, e s’intende siciliano per sangue, cultura, dolore, sofferenza, speranza e morte, uno scrittore siciliano sarà pure ad un certo punto scrittore italiano, nella prospettiva di una dimensione nazionale della vicenda storica, ma rimane pur sempre scrittore siciliano, perché le stimmate sofferte della sua condizione esistenziale di partenza difficilmente si cancellano. 

Il che non significa, si badi bene, che la catalogazione di uno scrittore nato in Sicilia nella dimensione della letteratura italiana sia da respingere o da mettere almeno in discussione: quello che qui si vuol dire è che si ha voglia di essere letterariamente italiani, ma si rimane comunque e sempre, almeno letterariamente, siciliani. 

C’è da fare ancora qualche considerazione, doverosa per uno come me che la cultura la vive, la sente, e, se mi è consentito dirlo, la soffre nella prospettiva della dimensione anche scolastica del problema, sulla collocazione appunto didattica di un discorso culturale del genere. 

Intanto comincerei con l’osservare che non è fuor di luogo, anche indipendentemente dalla mia esperienza ministeriale, preoccuparsi del rapporto che fra una produzione editoriale del tipo e del genere di quella che stiamo qui presentando, e l’attività didattica, deve esistere. 

Voglio dire che un testo di storia letteraria, quale che sia l’articolazione delle finalità e degli obiettivi immediati per i quali esso viene proposto, vuoi nell’ottica creati va dell’ Au tore, vuoi nell’ ottica disseminativa dell’editore, non può mai essere considerato privo di ricadute in senso didattico, perché, anche se esso non fosse immaginabile in quanto suscettibile di specifico impegno nel contesto dell’attività didattica quotidiana, esso concederà comunque alla formazione dei docenti e determinerà comunque, a breve o a medio termine, ricadute formative sugli studenti, ai quali auspicabilmente i docenti si presentano sempre più preparati, sempre più aggiornati. 

Io sono convinto che il discorso della letteratura regionale abbia una valenza di forte incidenza formativa, in quanto consente di cogliere – con particolare immediatezza – i nessi che caratterizzano la trama dei rapporti tra prodotto letterario e condizione ambientale nella quale la vicenda umana dell’autore si svolge. 

E non è certamente da temere che un’attenzione regionalistica alla problematica 

letteraria possa scadere in forme di settorialismi demotivanti o assumere aspetti di separatismo culturale altrettanto preoccupanti. In realtà l’attenzione alla dimensione regionale, se opportunamente adoperata come premessa per comprendere in che modo quella produzione regionale si scomponga e si sciolga nella superiore unità culturale della letteratura nazionale, servirà a determinare visioni unitarie nel senso più autentico della parola, cementate dalla chiara conoscenza di nessi e rapporti di fondo, non costruita su surrettizi accostamenti ed accorpamenti fra realtà che sono diverse e che non hanno da temere dalla loro diversità, che ne costituisce l’elemento caratterizzante nell’ambito di una superiore unità garantita dal carattere genetico nazionale. 

E vorrei anche dire che non si deve ritenere che un siffatto processo autenticamente formativo si metta in movimento soltanto o in particolare per gli studenti appartenenti alla regione alla quale la trattazione storico-letteraria si riferisce: è chiaro che, anzi, la penetrazione dei complessi fenomeni locali sarà ricca e articolata anche per chi dalla specifica realtà territoriale è lontano fisicamente. 

Ben venga dunque questa Storia della letteratura siciliana di Salvatore Vecchio, una storia costruita con competenza e passione, una storia nella quale la fondatezza dei procedimenti critici attraverso i quali essa è stata articolata egregiamente si coniuga con la ricchezza dei materiali e dei documenti attraverso i quali essa si snoda. 

Non mi pare questa la sede per analizzare la struttura compositiva di una storia della letteratura siciliana, ma mi pare indispensabile almeno sottolineare alcune caratteristiche che mi appaiono particolarmente felici di questa struttura. 

Mi riferisco alla ricca ed articolata presenza dei documenti letterari diretti: in un’epoca nella quale acquista sempre più spazio e merita sempre più attenzione una didattica testuale, non avrebbe senso una trattazione di storia letteraria che si rifugiasse soltanto nella prospettiva indiretta della notizia, pur seria, complessa, puntuale, documentata, senza svilupparsi con rigore di puntigliosa ricostruzione dall’interno, intorno ai testi che della storia letteraria sono sangue e linfa vitale. 

E mi riferisco anche alla presentazione comunque sempre puntuale, specifica, rigorosa delle opere che, anche quando, per ovvie ragioni di equilibrio dell’opera, i testi non possono essere presenti al di là di un certo spazio, sono comunque illustrate ampiamente, con ricchezza di particolari e puntualità di informazione complessiva. 

Forse potremmo apporre come ideale e simbolico messaggio di sintetica presentazione di questa opera i versi di Omero, che anche in essa si leggono, quei versi nei quali si parla della Sicilia. 

Forse potremmo dire che nelle pagine di questa storia letteraria incontro ti verranno le belle spiagge della Trinacria isola, dove pasce il gregge del Sol… 

Ai lettori fortunati che in queste pagine riusciranno a ritrovare gli itinerari ideali di un percorso fra gli uomini ai quali la terra di Sicilia diede i natali e che alla terra di Sicilia restituirono grati tributi di alta poesia, l’augurio affettuoso di buon viaggio da parte di chi, come me, il viaggio l’ha fatto tante volte, in termini di amore, in termini di nostalgia, in termini di speranza. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 6-9.




 Editi e inediti 

[…] Giorno dopo giorno passano i mesi, ma la ferita non accenna a cicatrizzarsi, anzi diventa sempre più dolorosa. 

Il medico si limita a dire che tutto procede bene, che la ferita è “torpida” e che occorre tempo. Quanto tempo? Al diavolo, se può saperlo. E poi che gliene importa? A volte ho l’impressione che mi abbia mollato e non trovi il coraggio di dirmelo. Né io ho il coraggio di affrontarlo e dirgli quel che penso. 

Intanto un dolore nuovo, continuo, teso, nemico, ha invaso dall’occhio alla mascella tutta la parte sinistra della testa. Vi è penetrato profondamente, trivellandola. Ho la sensazione che stringendo forte i denti si attutisca, e così prendo l’abitudine di tenere le mascelle serrate. 

Mando giù un calmante ogni quattro ore, sicché le mie giornate sono adesso scandite in sei vigilie (e sono sempre io a essere di turno) dalle compresse di sedativo. 

Mi si spiega che si tratta del nervo trigemino, irritato dalle cure radianti. Fingo di accettare la spiegazione. 

Vado avanti così, con l’impressione di scalare una montagna sempre più ripida, eppure con una pazienza nuova che non è rassegnazione. Forse è curiosità di sapere come va a finire. Comincio a sdoppiarmi, a sentirmi spettatore, a fare filosofia, a concepire dialoghi sul mondo extraterreno. 

Mi sorprendo a pensare con un certo distacco che attraverso il duro noviziato che sto scontando potrei approdare all’ignoto meglio di tanti altri. Se non altro, senza eccessivo rimpianto. Mi interesso di parapsicologia, preparo lo spirito a nuovi rapporti, a una nuova dimensione. Provo anche a immaginarmi scaraventato in una traiettoria verso un’altra galassia e la cosa non mi riesce difficile imbottito come sono di sedativi. 

Ho a disposizione molto tempo ma soprattutto le ore della notte, mentre attendo l’appuntamento con la bianca compressa per confondere la mente e cercare di ingannare il dolore. 

Ed è nella notte che si sviluppano forme di egoismo contorto di cui mi vergogno. Per non disturbare Francesca con i lamenti, mi rifugio in un’altra stanza dove me ne sto al buio. Subito dopo comincio a irritarmi con lei che dorme insensibile, penso io, alla mie insofferenze. 

L’oscurità e il dolore popolano di fantasmi la mia immaginazione. Nel vano recupero di memorie che si fanno sempre più lontane e avvizzite, anche le più care, che, sottili come vanno diventando, si inceneriscono rapidamente. Dov’è finita la forza che, sia pure malinconicamente, riuscivo a cavarne? Per questo, stordito, mi perdo come un automa dietro la prefigurazione di un avvenire che non mi appartiene. Non ci vorrà tanto tempo, infatti, che io non ci sarò più. Ma è già come se io non avessi più niente: non passato né futuro, non memorie né desideri, non rimpianti né attese, non gioie né dolore; soltanto prefigurazioni nelle quali posso sbizzarrirmi come e quanto mi pare. 

Dall’irritazione di credermi abbandonato a soffrire da solo, la notte (nonostante mi renda perfettamente conto che ciò è inevitabile se voglio che Francesca mi assista di giorno), all’ideazione di quale potrà essere l’esistenza di mia moglie senza di me, il passo è breve. 

E quel che il mio egoismo contrariato mi fa immaginare non è piacevole. La degradazione a cui progressivamente va soggetto il fisico, intacca anche il morale, in cui si aprono lunghe crepe pur se ancora non è lo sgretolarsi. Anzi, neppure io saprei dire se sto peggiorando più fisicamente che moralmente. 

Certo è che al calore dei buoni sentimenti, agli slanci di amore, tenerezza, generosità, bontà, abnegazione, fiducia, coraggio e così via, si alterna il gelo di sentimenti ignobili (dai quali, chi sa poi perché, finora mi ero illuso di essere immune), messi spietatamente a nudo da insopprimibili impulsi di ribellione alla sofferenza fisica. 

Così, giorno dopo giorno, vado scoprendo che nel mio animo c’è posto anche per il male. A cominciare da una oscura sensazione di rancore, di risentimento o di indifferenza verso tutti, anche verso chi non ha mai fatto cattiverie e per finire alla distorsione del senso di gratitudine, che comincio a considerare il più pesante dei sentimenti. Scopro che ci sono spazi per una personalità discontinua e vacillante. E in queste oscillazioni, veri e propri sbalzi dello stato d’animo, stento a ritrovare il punto di equilibrio. Mi pare di cominciare soltanto adesso a capire come un niente, che muta le circostanze interne, possa bastare a far cambiare i sentimenti. 

Adesso tocca anche a me sperimentare, sia pure per brevi momenti e con profonda umiliazione, cose che non avrei mai voluto conoscere. Salvo a rammaricarmene e ricredermi subito dopo. Per questo guardo con sospetto, prima che ogni altro, me stesso, e mi è difficile accettarmi. 

Nella calura della notte soffocante, le mie fantasie si gonfiano di pensieri torbidi. Mi sorprende che la forte dose di sedativi, dai quali purtroppo debbo dipendere, non agisca sino ad acquietare e intorpidire anche i sensi. Capita esattamente il contrario. La sensualità continua ad assillarmi e, paradossalmente, tanto più si esaspera e sembra voglia esplodere, quanto più il dolore si acuisce. Forse, ancora una volta, la causa di questo inestricabile groviglio va cercata nella vecchia storia del contrasto perenne tra Eros e Thanatos. Nello stesso tempo, d’altra parte, la difficoltà di ritrovare il controllo del mio corpo e il dominio delle passioni mi inasprisce perché mi fa misurare il vuoto che si va scavando nel mio mondo interiore. 

Nel buio, procedendo a tentoni, arrivo nella camera da letto. Qui rimango immobile fino a che gli occhi si abituano a vedere nell’oscurità che lentamente si attenua in penombra al fioco chiarore dell’esterno. 

Francesca dorme, sembra rilassata; ma dalla piega amara delle labbra e dalle sopracciglia aggrottate, che le danno un’aria corrucciata, traspare l’inquietudine che non la lascia neppure nel sonno. Mi sollevo a guardarla meglio, col cuore colmo di tenerezza che vuole ripagarla dell’ostilità di prima. Vorrei svegliarla carezzandola e rimanere con lei. Ma ci rinuncio. So che appena coricato, il martello pneumatico che mi sta in agguato nel cervello ricomincerà a sussultare e a farmi esplodere la testa. Adagio per non svegliarla, torno in salotto e mi lascio cadere su una poltrona. Accendo la lampada, ma la luce mi ferisce gli occhi. Spengo, preferisco il buio, anche perché niente mi distragga dall’ossessione segreta che tento invano di ignorare e contrastare. 

Come ogni notte, da un po’ di tempo a questa parte, lo spettacolo ha inizio. 

Non sorretto da una immaginazione ricca e vivace, esso si presenta subito per quello che è: una rappresentazione noiosa e superficiale che si svolge tutta in funzione del quadro finale, l’unico a eccitare e insieme a demolire la mia fantasia. Attendo il mattino con la sua luce liberatrice che fughi i fantasmi e rischiari finalmente le pieghe della mia psiche tormentata. 

(Dal buio della notte’, pagg. 23 – 27) 

[…] Tre mesi, novanta giorni, novanta notti da trascorrere in quell’ospedale che soltanto a vederne le mura mi ha sempre terrorizzato. E dopo? Quali altri ostacoli dovrò superare sulla via della sofferenza? Quali altre stazioni dovrò toccare? E l’ultima non sarà il calvario? 

Mi accompagna mio padre, venuto a trovarmi dalla Sicilia. È anziano. Da anni ha lasciato l’insegnamento. I nostri rapporti sono stati sempre essenziali. Di poche parole, non è mai stato espansivo con me, né io con lui. Ci siamo abituati a capirci senza parole, a interpretare i lunghi silenzi dei momenti importanti della nostra vita, sia nella gioia che nel dolore. 

È un antico rapporto iniziato tanti anni fa in Sardegna, quando, appassionato cacciatore, voleva che lo seguissi ancora bambino per boschi e monti selvaggi in lunghe e per me estenuanti battute di caccia. Erano occasioni esaltanti di sgroppate a cavallo verso nuovi orizzonti che facevano impazzire la mia fantasia, che arricchivano la mia vita interiore perché la maggior parte della giornata la trascorrevo solo e solo occasionalmente scambiavo con lui qualche parola. 

Ora, per la prima volta, lo vedo impacciato e, contrariamente alle nostre abitudini, cerca degli argomenti, ma non sa trovare le parole. 

E così, improvvisamente mi offre un sigaro. 

Lo guardo sorpreso. Anche da adulto, in ossequio a un suo desiderio-ordine, non avevo mai fumato in sua presenza, anche se lui era un inveterato fumatore. 

Accetto con un sorriso, mentre un pensiero deviante corre all’ultima sigaretta del condannato. Naturalmente non lascio trapelare questa idea: ho deciso che debbo vincere le tensioni interne che mi spingono ora alla ribellione ora allo sconforto. Adesso è necessario che riesca a dominare me stesso, o meglio la parte di me più giovane, debole, emotiva. 

Cerco di superare l’imbarazzo della situazione aggrappandomi al primo banale argomento a portata di mano, mentre mio padre, con cura meticolosa, si accende il mezzo toscano, aspirando rapide boccate, costringendosi così a un giustificato silenzio. , Armando editore, Roma, 1983. 

«Mi fa piacere fumarlo, – dico, accendendo a mia volta il sigaro – Molte volte il fumo aiuta ad alleviare tensioni, a reggere situazioni imbarazzanti, fa compagnia. Debbo confessarti che da poco tempo fumo la pipa, ma una, due volte al giorno dopo il pranzo e la cena ». 
«Io invece continuo a fumare tanto, come un turco ». 
Sorrido, continuando a camminare verso la macchina posteggiata lontano. 
«Chissà poi perché si dice fumare come un turco ». 

Ecco, ho trovato un diversivo e così la conversazione continua battendo a tappeto questo argomento, come si usa fare negli ozi dei circoli paesani. E così saltano fuori tutte le espressioni che riguardano i turchi: bestemmiare come un turco, giovani turchi, caffè alla turca, ecc. Ridiamo divertiti delle nostre chiacchiere veramente futili. Vorrei tirar di lungo con queste assurdità per evitare che il discorso cada su cose tristi. 

Mio padre non ce la fa più. Senza guardarmi domanda: «Sei preoccupato?». 

Cerco di tranquillizzarlo anche se in modo maldestro: «Non eccessivamente, confido in quest’altro intervento; insomma staremo a vedere». 
«Ho capito» taglia corto mio padre. 
Ma cosa hai capito, vorrei dirgli. La mia disperazione? Il mio desiderio di fermarmi qui in mezzo alla strada e
dire basta? Di urlarla questa parola, 
infischiandomene della gente. Vorrei soprattutto gettarmi tra le tue braccia per un bisogno di protezione, di calore, come fanno i bambini. Come mi accadeva anche negli anni più ingrati dell’adolescenza quando, pur vedendoti a volte come antagonista, m’era sempre necessario sentire la tua presenza che era sostegno e rassicurante certezza. So di essere, ora, alla ricerca di un rifugio provvisorio, di memorie lontane che mi aiutino a sopportare il presente. 

«Ricordi come ti seguivo volentieri quando mi svegliavi all’alba per andare a caccia? Ci vai sempre? ». 
«No, sono anni che non mi muovo più, che non sparo un colpo. Ma vedrai, appena guarirai, almeno una volta dovremmo ritornare sui monti che circondano il nostro paese in Sicilia, non fosse che per fare un po’ di moto». 

Non mi sento di disilluderlo. So bene che quelle passeggiate non si faranno mai, mi piace però che se ne parli, che ricordiamo assieme gli itinerari percorsi, che si ritorni assieme indietro negli anni certamente più spensierati e felici: la giumenta nervosa che ci trasportava, i cani irrequieti, la preparazione delle cartucce, il ritorno a casa all’imbrunire con la selvaggina. 

I ricordi scivolano dolcemente, quasi ovattati, e giungono con naturalezza, ma necessariamente a un’altra memoria cara, a una persona che da tempo ci ha lasciati, la mamma. Nessuno dei due credo ne avrebbe voluto parlare per non acuire quella pietosa rappresentazione. 

«Ricordi, babbo, l’ultimo Natale che ho trascorso a casa prima di partire per Roma per raggiungere il mio lavoro? E’ Stato l’ultimo Natale trascorso tutti assieme». 

Forse è la presenza di mio padre, parte di un tutto che mi è ancora assai caro, a riportarmi più insistente il ricordo della mamma. Ma nel ricordo non c’è, come dovrebbe esserci dopo tanto tempo, più dolcezza che nostalgia. È un sentimento struggente fatto di desiderio di pace, quiete, serenità. Per un momento non riesco a controllarmi: più che col babbo ho l’impressione di sfogarmi con me stesso, le parole hanno toni monocordi, incolori quando dico: 

«Sai, credo che possa anche essere misericordia la morte…». 

Mi fraintende: « Ma che vai dicendo! » reagisce, infatti, alzando la voce e guardandomi con espressione non so se più angosciata che irritata. 

«Alla mamma, per esempio, ha evitato la pena di vedermi così malridotto». 

Per la gola secca stento a continuare. 

«Quanto a te, babbo, puoi immaginare cosa avrei fatto per non darti questi pensieri… ma ormai ho esaurito le ultime scorte di altruismo. Vedremo come si risolverà quest’intervento, Valdoni, si sa, è un mago… però, vorrei consumare subito, il più in fretta possibile, quel che mi resta di sofferenza e… chiudere, come dire, l’argomento. Non importa come, pur di trovare pace». 

Non mi lascia finire, questa volta. Si ferma un attimo per guardarmi. Voltandomi verso di lui e leggendo nel suo sguardo trepidazione, capisco che la tenerezza paterna, anche se mascherata non svanisce con l’allontanarsi dell’infanzia, non spetta a questa più che alle altre stagioni della vita. Mi afferra sottobraccio e riprende il cammino tenendomi più accosto a sé. 

Nel breve silenzio che regna distinguo nei rumori della strada il ritmo cadenzato dei nostri passi. 
«Devi convincerti, figlio mio – mi dice appena riesce a parlare senza che le parole gli tremino troppo – devi essere il primo a essere convinto che ce la farai. Non basta che sia io o gli altri a esserne sicuri. Tu devi essere, tu, il primo ad avere questa certezza: ficcatelo bene in testa… ». 
«Sì, d’accordo, ma…». 
«Non interrrompermi, per favore. So bene che le mie possono essere parole scontate, che ti sarai sentito ripetere molte altre volte da quando hai cominciato a star male. Eppure contengono una verità antica. Naturalmente, per convincerti di questo è indispensabile prima di tutto che tu voglia guarire. Una voglia che non potrai trovare, se non ti sarai liberato dalla paura, non dico completamente, che sarebbe irrazionale, ma in buona misura, almeno quanto basta per non arrenderti a ogni assalto emotivo. Non disperare mai: il mondo è degli ottimisti, i pessimisti non sono che spettatori ». 
«Sì, lo so; lo so anch’io » lo interrompo con voce soffocata. 
«E di un’altra cosa devi persuaderti – continua mio padre – che non tutto è dolore nella vita. Anche quando non ci fosse più niente da fare, e non è così. .. Esiste ancora la gioia di fare qualcosa per le persone care, innocenti. A questi valori bisogna mirare per averne forza spirituale, per sperare. Sì, abbandonarsi anche alla speranza e farcene travolgere sino a che diventi certezza e quindi dare senso alla vita». 

Non lo riconosco: dov’è l’uomo di poche parole? Ha parlato tutto d’un fiato. Lo guardo perplesso, senza rispondere. Allora lui, quasi in soggezione, come colto in fallo, si affretta a ribadire, a chiarire il suo concetto con una sicurezza che, per l’emozione, non è più quella di pochi attimi prima. 
«Voglio dire, Andrea, che soltanto così… con una gran forza morale noi possiamo uscire dal particolare e portare le nostre vicende su di un piano universale… solo così possiamo giudicarle e sopportarle non più da un punto di vista ristretto, ma in una prospettiva così aperta e così vasta da comprendere l’infinito campionario delle esperienze passate e presenti degli altri. Nessuno di noi appartiene completamente a se stesso… 

Naturalmente, non è che non senta !’imbarazzo di sapere che io… io che parlo qui, adesso, non sono l’ammalato. Non è facile parlare, farsi maestro. Tu immagini che spina ho nel cuore e allora mi domando: che cosa farei, se mi trovassi nelle tue condizioni? Ce la farei a non arrendermi, a non essere vigliacco? Perciò penso che la nostra credibilità di uomini risulti solo dalla prova personale che sappiamo dare ». 

Conclude dopo una pausa, chiedendomi quasi con umiltà: « Non credi anche tu che, tutto sommato, le cose siano da vedere in questo modo?». Una domanda in cui c’è tanta trepidazione affettuosa. 
«Sì, babbo, credo proprio di sì » rispondo con Un filo di voce. 

Parlare, sacrificando i suoi principi, che conosco bene, a un po’ di retorica, a qualche frase fatta per simulare una fiducia e una sicurezza che è ben lontano dal possedere, gli è costato un grande sforzo. Anche la sua commozione è evidente. Vedo, adesso, da adulto, un uomo a cui la perdita della compagna e ora la malattia del figlio hanno mutato in smarrita apprensione il lampo ardito e ironico dello sguardo. Mi accorgo che paradossalmente è lui stesso adesso a chiedermi aiuto, con le sue esortazioni a essere come vorrebbe che io fossi. 

Tocca dunque al figlio ora difendere il padre dalla commozione, e anche dal dolore che forse per un vecchio è meno sopportabile. 

Comincio col trovare la forza di non umiliarlo fingendo di non vedere i suoi occhi lucenti e il labbro che trema. 

Tra la folla ignara della nostra pena, camminiamo nell’aria trasparente del crepuscolo, ancora una volta insieme, consapevoli che ci stiamo inoltrando nel buio. 

(Id., pagg. 30 – 36) 

Trascorrono giorni di dolore lungo, violento, crudele, in cui lo spirito umiliato, confuso sembra voler cedere, e dalla nebbia che invade la mente si scioglie ancora un disperato desiderio del nulla. Ma il sangue giovane, ignaro nel suo pulsare, alla fine prevale e con mestizia considero che è anche difficile morire. 

Tolgo finalmente l’apparecchio dalla bocca e mi accorgo con terrore che quando provo a parlare emetto suoni inarticolati. Rivolgo anche un rassegnato pensiero a quel mio povero occhio che dopo le analisi sarà finito chissà dove. 

A tirarmi fuori da queste amare riflessioni giunge la notizia che gli esami istologici non hanno rivelato nulla di preoccupante. 

Ho, finalmente, le braccia libere e posso vedere il grosso lembo a forma di tubo che coltivo in petto. Lo guardo con amore, perché mi darà la possibilità di riavere un volto «umano». 

Per consentirmi di parlare e mangiare mi imbottiscono con garza la cavità orale mancante, ma questo è un male minore. 

Dopo parecchi giorni posso ricominciare a leggere e a scrivere; una sensibilità nuova, che però ritengo patologica, mi porta a comporre poesie, e ogni idea, ogni fatto, diventano occasioni per questo esercizio finora mai affrontato. Trovo che non c’è niente di meglio per tenere occupata la mente, per coltivare la speranza e risalire in superficie, confortato anche in questo dalla presenza continua di Francesca che in quei giorni ha trovato da dormire in una pensione nei pressi della clinica. 

Quante notti è rimasta accanto a me su una sedia, pronta a ogni mia necessità, quante volte alla incerta luce dell’alba l’ho trovata a dormire col capo reclinato sul mio petto, stringendomi la mano nell’attesa di un altro giorno. 

Povera Francesca, quante preoccupazioni, quanto dolore nella tua giovane esistenza, e io egoista che ho desiderato di andarmene, di lasciarti. 

Dormi, e forse il miracolo dell’incosciente sonno ti porta qualche mio bacio che tu ricambi con un sorriso alla mia mano che ti accarezza lieve. Per questo sfuggi il risveglio, sfuggi la realtà. Stringi nel sonno la mia mano, perché ti aiuti ad andare lontano, a portarmi in un luogo diverso e, libero da pesi, a volare con te nel sogno dove più non ci tocchi il male. 

Sogno anch’io i tuoi baci, le tue carezze, e quando mi sveglio ti trovo seduta accanto a me, a dirmi con la luce del giorno e del tuo viso che esiste un paradiso anche per me. 

La primavera è già inoltrata e sono sempre ad attendere, a vivere di ricordi, a trasferirmi idealmente nel mondo di fuori. Roma, la città che mi sembra di aver lasciato da chissà quanto tempo, torna di frequente nei miei pensieri. 

Sono i giorni del concorso ippico di piazza di Siena, e mi piace ricordare Villa Borghese, gli alti pini, il verde, la folla festosa, gli agili puledri, i cavalieri. Purtroppo il sogno dei ricordi si frantuma come uno specchio e mi ritrovo sempre nell’angusto cortile della vecchia clinica di Milano. Mi sento ugualmente pago e senza invidia; sotto la mia finestra, nel cortile, un cespo di rose ha messo i fiori e il verde pulito delle foglie, il colore dei petali portano anche a me una parte di primavera. 

La clinica, come ho detto, è ubicata in un vecchio edificio circondato da alti palazzi, e l’unica possibilità per « prendere l’aria “, secondo il gergo dei carcerati, è l’angusto cortile tra queste alte mura: un pozzo. E lì ci troviamo ogni giorno, appoggiati al muro a chiacchierare, qualcuno appartato in preda a malinconie e pensieri lontani. 

Un giorno, nuvolo e grigio, mi trovo solo in quel cortile. A un tratto il cielo si apre a un raggio di sole, che viene a scaldare la mia solitudine. Gli offro il volto ferito, deturpato, quasi felice di quella inattesa carezza. Per quanto tempo non so. Dopo, passato lo stordimento, provo la sensazione di avere rubato quel raggio di sole caduto distratto dal cielo fin giù nel cortile, perché con geloso egoismo l’ho tenuto nascosto, non l’ho diviso con gli altri compagni tenuti come me nel chiuso dolore. 

Per questo sento di dover chiedere loro scusa, raccontando del raggio di sole. 

Mi guardano con aria attonita, non capiscono questa mia preoccupazione, non intuiscono questo sentimento che invece a me dà la misura dell’umanità nuova che la sofferenza sta facendo crescere dentro di me. 

(Id., pagg. 74 – 77) 

[…] A quell’ora, nel parco, c’era poca gente: qualche vecchio signore, i netturbini che facevano le pulizie, qualche bimbo spinto in carrozzina dalla mamma o dal nonno. 

La primavera era inoltrata e la natura splendeva partecipando alla nuova stagione, ammantandosi di verde brillante e di luce. 

Fatta una breve passeggiata, si trovò seduto sulla solita panchina; si guardò attorno come se fosse la prima volta che si trovava in quel posto, poi sorrise ricordando le meditazioni del mattino e rendendosi conto che, come un automa, si era seduto su quella panchina, come ogni giorno, come sempre. 

Aprì il giornale, il solito giornale, ma lo aprì alla terza pagina perché il resto non lo interessava, si diceva. 

Lo soddisfaceva qualche informazione culturale, ma anche questa per abitudine, non più di tanto. 

Prima di immergersi nella lettura, la sua attenzione venne attirata dal trotterellare di un cane randagio che gli era passato vicino senza guardarlo. 

«Dove andrà», «così sicuro? – Si chiese – Sembra avere una meta precisa, eppure è un randagio, non ha un padrone, una casa, un punto di arrivo. Da dove viene e perché va così in fretta? Cosa pensa, quali programmi avrà per la giornata?». 

Queste considerazioni lo portano su un altro piano. «Quanti uomini come lui, come quel cane, possono essere definiti randagi, senza offesa, si intende: giusto per una classificazione». 

«Alcuni sono randagi perché non riescono a trovare un’occupazione, un lavoro fisso. Ci sono quelli che anche se trovano un lavoro sono insoddisfatti e preferiscono cambiare, girare. Ci sono i barboni degni del massimo rispetto, perché hanno fatto una scelta, intendiamoci, i barboni veri, classici, perché ci sono anche quelli fasulli che si introducono nella categoria, file di barboni di origine, per mimetizzare la loro condizione di semplici paria o mendicanti». 

«Poi, ci sono i randagi intellettuali che non sanno da dove partire e dove arrivare, pronti ad annusare e a nutrirsi di qualche cibo, in senso metaforico per capirci, a dormire sotto ogni ponte o meglio sotto ogni bandiera, che trotterellano senza meta e senza avere lontanamente la dignità del cane passato prima». 

«È gente che non sa rinunciare a nulla, neppure a un funerale, figuriamoci poi a un banchetto nuziale». 

«Sono pericolosi perché difficilmente sanno di essere randagi, anzi si illudono 

di avere un pedigree e anche un collare con nome e sigla. Si trovano nei ministeri, negli enti vari, specie quelli grassi, figuriamoci poi nei partiti e in parlamento». 

«Sì, si possono individuare, ma come? Questo è il punto: anzitutto, chi li individua? Mentre è facile, alla vista di un barbone che dorme su una panchina o sotto un ponte, dire che quello è un uomo randagio; e questo credo possa dirlo chiunque». 

«Ma quando, mettiamo, si tratta di individuare un politico, un ministro, ecco, un ministro, come randagio, bisogna avere l’autorità intellettuale e morale per definirlo tale e questa indicazione quanti possono farla con autorevolezza? Perché in tal caso si deve poter disporre, a propria volta, di un pedigree presentabile come un passaporto, altrimenti è tale la forza del politico o amministratore randagio che si corre il rischio di trovarsi a dormire con i barboni sotto un ponte». 

(Violenza, oh cara”, pagg. 18-20) 

Appena i due sono usciti, l’avvocato scoppia in una risata che lascia attonito Agostino. 

«Mi scusi se rido, ma è buffo, tutto buffo. Mi dica in poche parole chi è lei, che cosa fa, come vive, come si trova qui. Si, lo so perché è qui; a 

“Sciascia editore. Caltanissetta-Roma, 1986. me può dire tutto, capisce, come a un confessore. È colpevole o innocente?» 

Agostino, senza scoprirsi di tanto, ma provando simpatia per quel giovane occhialuto, per quella risata che ha capito, anche se sulle prime lo aveva sconcertato, si mette a parlare, a rispondere con chiarezza e linearità alle domande dell’avvocato – che lo ascolta con attenzione, per concludere infine, con l’aria più convinta possibile, che è innocente. 

«Ma perché assume questa linea di condotta? » 

«Ma mi sembra di essere stato chiaro. Vede, io sono solo al mondo, forse anche mi annoiavo, e adesso sono diventato curioso, anche se mi costa giorni, mesi di libertà; voglio stare alla finestra, fare l’osservatore di un evento che probabilmente è comune a tanti altri poveri diavoli, e vedere come va a finire. Perché una fine dovrà pur esserci, una via di uscita dignitosa per il singolo, per l’uomo e anche per la giustizia, per il Sistema, non crede? » 

«Sì comprendo, o meglio riesco a comprenderla, ma si renderà conto che tutto ciò è fuori da ogni regola; c’è l’accusa che tenta di incastrarti e c’è chi si difende e controbatte tutte le accuse cercando di dimostrare !’infondatezza, l’inconsistenza ecc., perché il sistema ha previsto tre tipi di soluzione: o l’assoluzione o la condanna o l’insufficienza di prove. Non è lei il primo, è già accaduto e accade continuamente; quindi lei si deve difendere ed io sono disposto ad assisterla, a prendere a cuore il suo caso; mi è anche simpatico e non vorrei consigliarla a persistere in questo suo atteggiamento. Tra l’altro, il magistrato che conduce l’inchiesta è tra i più preparati, molto coscienzioso e serio; come si suol dire è in buone mani. E allora?» 

«Avvocato, noi viviamo in una società distorta, inquinata, che ha perduto la saggezza, ed è distratta. È un mondo pazzo quello che sta lì fuori, e io, con il mio modo di vivere, avevo sempre cercato di estranearmene, illudendomi di essere padrone della mia esistenza, dei miei gesti, dei miei pensieri. Ma questo non è stato sufficiente; sono stato ghermito, coinvolto brutalmente, offeso nella mia dignità di uomo, e ora sono convinto che debbo recuperarla e che, se posso dimostrare a me stesso la mia coerenza, anche pagando, questo è il momento di farlo». 

«Le ripeto, ora sono curioso. Vuole per favore condividere con me questa curiosità, che è lotta per un principio giusto? Vedrà, non dico che ci divertiremo, ma faremo un’esperienza interessante, unica. Ci sta? Non credo di chiederle qualcosa che vada contro l’etica professionale. Mi comprende? Mi aiuta?» 

L’avvocato ha ascoltato questo torrente di parole, di considerazioni, e ora sta lì a guardarlo, serio, attraverso gli occhiali che sembrano essersi appannati. 

Dopo un attimo, che ad Agostino sembra lunghissimo, dice: 
«Bene, la seguo, la seguirò sino in fondo, anche se non so ancora quello che debbo fare o dire. Però accetto questa sua linea, stavo per dire, difensiva. Mi ha convinto». E sorride. 

«Mio padre, che ora è in pensione, l’abbraccerebbe. Quante volte ci siamo scontrati per il suo modo di pensare, per quel suo concetto della dignità, per quel non voler scendere a compromessi, ed erigersi a giudice egli stesso. Ma si sa, è mio padre, e come sempre avviene è difficile comprendere i propri genitori». 

«Noi figli, per la generazione che ci separa, per il tipo di rapporto che esiste, difficilmente riusciamo a comprenderli, e poi, come mi sta accadendo ora, un estraneo mi parla, mi dice le stesse cose e subito lo capisco, ne accetto le idee». 

«Credo che stasera farò felice mio padre, perché lo saluterò con più rispetto e credo che sarò più in grado di comprenderlo, di ascoltarlo. Grazie per questa lezione». 

«Facciamo entrare quei signori che ormai saranno impazienti; vediamo che succederà»; e con un’altra risata l’avvocato si avvicina alla porta, bussa e al piantone dice di chiamare il giudice. 

(Id. pagg. 54-57) 

Tornato in cella, nella sua cella, Agostino ha ritrovato quasi con piacere le sue poche cose e il libro lasciato aperto: sente il bisogno di sdraiarsi, di mettersi nella sua solita posizione di meditazione, con le mani incrociate sotto la nuca. 

Quella era una posizione consueta, una abitudine che aveva acquisito da ragazzo quando, stanco delle scorribande nei boschi saliva fino alla sommità di una collina che, vicino casa, dominava il largo orizzonte. 

Se ne stava, allora, sdraiato sull’erba con le mani incrociate sotto la nuca a guardare il cielo e le nuvole che mosse dal vento cambiavano continuamente forma e le rondini che veloci gli sfrecciavano vicine stridendo. 

Allora il cielo sembrava vicino, sulla collina, nel silenzio bello della natura. 

Il vento, col cambiare d’umore, recava ora la resina pungente dei pini, ora la salsedine del mare vicino. 

Volgendo lo sguardo erano suoi i boschi folti di pini e di grosse querce intessute di rovi. 

Andava a ritroso a ritrovare quella sua primavera, e i suoi ricordi si fermavano al mandorlo che per lui, ragazzo, era un fantastico rifugio ai suoi sogni, ma anche una torre aerea, un rifugio dopo ogni scappata per sfuggire a meritati scapaccioni. 

Ma allora in quel cielo azzurro oltre le nuvole bianche c’era Dio e la casa, vicino al mandorlo, l’amore della mamma. 

Agostino si sveglia bruscamente da questo sogno e il soffitto grigio e la lampada che pencola triste lo riportano alla realtà che sta vivendo, che deve affrontare. 

Ripensa all’incontro col giudice, con l’avvocato. Finalmente avrà notizie di Eva; è il suo primo pensiero; per il resto non si preoccupa, anzi è soddisfatto del proprio comportamento della decisione presa, della dignità dimostrata. È sicuro che se avesse chiesto comprensione, che se avesse spiegato, chiarito il perché di quei soldi, se si fosse arrampicato a dimostrare la sua buona fede, l’unico risultato che avrebbe ottenuto sarebbe stato quello di avere la commiserazione del giudice, la sua incredulità per quanto raccontato e avrebbe fatto sicuramente la figura di chi colpevole cerca disperatamente una via alla libertà e, nel suo caso, una via poco credibile. 

Pensa invece alla figura che ha fatto, al giudice che si trova di fronte a una situazione a dir poco singolare. Ma quanto singolare? Non sarà stato certamente il primo a rifiutare di difendersi. E poi, perché parlare di rifiuto? 

«Non ho detto che sono colpevole, ho affermato invece la mia innocenza e quindi mi sono difeso con questa semplice, ma piena parola. Chissà se mi concederanno la libertà, sia pure provvisoria; da come il giudice ha reagito non posso nutrire molte speranze. L’avvocato ha chiesto la fine del mio isolamento, il giudice ha accolto la richiesta e ciò significa che dovrò stare con altri; che sarò in compagnia. Sarà una compagnia forzata, non scelta, e non avrò più la mia intimità. Questo fatto mi turba; è vero che l’isolamento è considerato una pena, una condizione di rigore, ma a me non dispiace. Almeno qui posso rimanere in compagnia dei miei libri, dei miei pensieri, del mio silenzio, non essere costretto a parlare, ad agire con gli altri e come gli altri». 

«Per favore, adesso non complicarti la vita, hai fatto una scelta, vuoi fare una esperienza e ora, da uomo coerente, vai fino in fondo, sì, fino in fondo». 

Il torpore del sonno lo prende piano piano, mentre ancora pensa, mentre pensa a quel giovane avvocato, ai sentimenti che ha suscitato in lui, e al padre che, forse in quel momento, starà ascoltando dal figlio la sua storia, la storia di un uomo che proprio quel giorno si è sentito nuovamente vivo. 

Finalmente il sonno ristoratore arriva ad acquietare quel fiume di pensieri, di meditazioni. 

Lo coglie nella posizione di prima e questo rende propizio il rifluire di sogni che, per una sorta di contrappasso, lo riportano sempre in un mondo innocente, lontano, intimistico, di ragazzo che amava la solitudine, in continuo rapporto-dialogo con la natura, le cose. 

E così, come alla moviola, si rivede seduto sull’orlo di un torrente avaro di acque che scorre tra folti oleandri, in contemplazione, quasi a bere quella natura che lo circonda, mentre alle sue spalle una collina trapunta di mandorli, ulivi e vigneti riflette il sole che tramonta. 

Poi c’è il suo andare solitario fino a ritrovare le grosse querce messe lì, come tanti giganti, sulle rive del torrente, e più giù, dopo una curva, l’incontro con dei cipressi neri e dignitosi che sembrano fare la guardia a una chiesetta sbrecciata, piena di silenzio. 

Salutati i cipressi, si accosta alla porta chiusa e si inginocchia per una preghiera. 

La sua attenzione viene ad un tratto attirata da alcuni merli che funerei, litigiosi e arroganti, saltellano sul sagrato erboso. Il sogno continua e i passi leggeri lo riportano lungo il torrente, tra le acque che scuriscono con la sera e i ranocchi che saltellano tra un sasso e l’altro, disturbati nel loro ozio. 

Un sorriso lieve si è posato sulle labbra dell’uomo che dorme in una cella di isolamento di un carcere sprofondato nel buio della notte e del tempo. (Id. pagg. 61-64) 

«Ma torniamo alla violenza, esaminiamo questo mostro da vicino. La chiamo mostro, ma forse non dovrei perché la violenza è nella natura umana, è la filigrana della intelligenza e la puoi scorgere controluce». 

«Come in una banconota: vedi i disegni, i colori, le cifre; poi, se la guardi in controluce, vedi qualcos’altro che connota e convalida la qualità». 

«Così è per noi. Sin dalla nascita subiamo ogni sorta di violenza; la prima, forse, è quella del parto. Cosa sappiamo dei traumi che subiamo e che magari ci portiamo poi nella vita?». 

«Anche un certo modo di educare può essere violenza; pensa a quanti adulti, siano genitori o insegnanti, che assolutamente impreparati, impongono ai bambini, ai giovani, senza nulla conoscere della psicologia, le loro regole, i loro principi, le loro pseudo conoscenze educative, e non sono attenti alle reazioni che possono provocare e alle distorsioni che con l’età matura divengono rancore, disinganno e anche violenza. 

Ci sono poi le istituzioni, la società, la politica con le loro pressioni e responsabilità; ci sono i singoli che esercitano loro violenze personali nei confronti degli altri, e anche noi, quando violiamo i nostri istinti, la nostra natura, imponendoci atteggiamenti che non sentiamo e che magari riferiamo a proposito della ragione, a regole della convivenza». 

«Ma quanta di questa violenza è esercitata consapevolmente? Quanta, cioè, con il convincimento di praticare violenza e quanta invece è imposta da gente convinta di muoversi nel giusto, nell’adempimento di un proprio dovere o nell’ambito di una posizione di primariato sui propri simili?». 

«Queste ultime forme di violenza o di criptoviolenza sono le più pericolose, perché si annidano nel sistema stesso e nei suoi rappresentanti, spesso travolti essi stessi dal sistema che gestiscono. Costoro, piano piano, scivolano nella sonnolenza della deformazione professionale e mentale e si convincono col trascorrere del tempo di essere soggetti di diritti persino non riconosciuti alla totalità. Ma la conseguenza è che non essendo previsti limiti o vincoli di responsabilità, trattandosi di una violenza non penalizzata, né codificata da nessuna legge, questi fenomeni, a lungo andare, autoproducono categorie, gruppi, caste e centri di potere che incominciano ad organizzarsi, e allora siamo certi che si va cristallizzando una realtà che provoca, a sua volta, reazioni dapprima ragionate, democratiche, e poi violente. E così si ricomincia». 

«Scusami Carlo, se mi sono lasciato andare a questo lungo discorso, ma forse avevo bisogno di farlo ad alta voce, di parlarne con qualcuno, perché è da troppo tempo che me lo vado costruendo, affinando. E sai queste riflessioni dove mi portano? A riconsiderare il concetto di democrazia, non quello che sta scritto nei dizionari o nei testi scolastici ma quello più profondo, più ampio, che coinvolge la struttura, i diversi piani dei nostri pensieri, della nostra coscienza, dei nostri atteggiamenti, il modo di gestire la nostra presenza in una comunità, e i rapporti col prossimo, con la vita, nel rispetto assoluto di questo prossimo chiunque egli sia, del suo essere individuo; insomma, il modo come noi regoliamo le nostre azioni e reazioni ai fatti degli altri. Ma sarebbe troppo lungo trattare compiutamente tutto questo argomento. Lasciamolo alle accademie, alle tavole rotonde, dove, purtroppo, i soliti esperti si parlano addosso, si ascoltano e tutto finisce lì». 

«Adesso è ora di rientrare e potremo ritornare su queste idee, se ne saremo capaci, rifugiandoci nelle nostre meditazioni o anche ascoltando i discorsi dei nostri compagni, che, essendo essi stessi soggetti e oggetto di violenza, possono darci altri spunti di approfondimento». (Id., pagg.1 04-106). 

Puntualmente illegale gli aveva fornito l’indirizzo della guardia che aveva preso Eva, e Agostino gli aveva scritto pregandolo di dargli notizie della cagnetta. 

Un’altra nota positiva era stata la lettera del padre del giovane avvocato. Una bella lettera che ora conserva gelosamente. 

«Caro signore», era scritto, «so del suo caso da mio figlio, che mi ha parlato a lungo e con entusiasmo di lei, tanto che mi sembra di conoscerla. So quale ingiustizia sta subendo e con quanta dignità ha preso posizione. Anch’io mi sarei comportato allo stesso modo nell’illusione di riuscire a cambiare qualcosa. Ma mi chiedo, cosa?». 

«E poi mi è facile dire che anch’io mi sarei comportato come lei, ma io non ho provato il carcere, la privazione della libertà con tutto quel che segue e che conosco o per immaginazione o per averne letto o visto qualcosa al cinema. Quindi la mia vuole essere un’adesione ideale, una testimonianza più che altro. La prenda per quel che può valere». 

«Ma è più come padre che desidero scriverle, perché sento che è ugualmente importante». 

«Da quando mio figlio l’ha conosciuta, sì, l’ha incontrata in carcere, sento che egli è cambiato nei miei confronti. Prima, come sempre accade tra due diverse generazioni, e specie tra padri e figli, non c’era dialogo, confidenza. Era un rapporto ridotto all’essenziale, che mi poneva spesso in grave disagio e mi induceva a chiedermi in che cosa avessi sbagliato. Eppure, bene o male, ho speso la mia vita a lavorare onestamente per costruire qualcosa che mio figlio si potesse un giorno ritrovare. Con gli anni ho acquistato esperienza, conoscenza degli uomini e delle cose: esperienza che desideravo trasferire, secondo le circostanze, in mio figlio, sotto forma di consigli, di suggerimenti; e lo facevo con discrezione, nel timore di essere frainteso, di essere giudicato invadente, possessivo ». 

«Ma le risposte che ne avevo erano per me mortificanti, ferivano la mia sensibilità, il mio animo, che era indenne da qualsiasi interesse che non fosse il bene di mio figlio». 

«Cosa vuoi capire tu, mi rispondeva, che sei di un’altra generazione? Il mondo è cambiato e tu non lo riconosci più, non ti ci puoi ritrovare con le tue idee, col tuo modo di vedere e di giudicare gli uomini e il loro comportamento. So io quel che devo fare». 

«Vede, caro signore, so bene anch’io che il mondo sta cambiando e anche in fretta, ma certi valori, certe qualità umane restano, non possono mutare perché sono i pilastri su cui necessariamente deve poggiare il vivere civile. Ma i giovani, perché giovani li respingono, forse non li conoscono o noi, nella fretta di vivere, non abbiamo saputo farglieli apprezzare». 

«Tanto è vero che, con l’età matura, li riscoprono e così diventano come noi. Ma noi non ci saremo più, saremo già scomparsi portandoci dietro il dubbio di cosa abbiamo saputo fare, di cosa siamo stati per i nostri figli». 

«Forse altrettanto è accaduto anche a me con mio padre, ma allora c’era più tempo per recuperare, c’erano ricorrentemente degli accadimenti che ci univano per sopravvivere; e poi la casa era l’occasione di incontro della famiglia nelle ore serali, quando c’era ancora la possibilità, la buona abitudine di parlare». 

«Le ho detto tutto questo per arrivare al punto; mio figlio ha scoperto cha anche gli anziani hanno qualità e coraggio, hanno la forza delle proprie idee che è poi quella della vita accumulata giorno dopo giorno e questa scoperta l’ha trasferita anche su di me. Finalmente ora parliamo, ci confrontiamo, e questo mi fa sentire ancora utile in un rapporto generazionale nel quale, non si deve mai individuare un confine netto tra la vita di chi arriva e quella di chi deve partire». 

«La benedico e l’abbraccio». (Id., Pagg. 110-112) 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 23-40.




Ai giovani studenti di Sicilia

Cari giovani amici, 
è iniziato un nuovo anno scolastico e molti di voi che ho conosciuto nel febbraio scorso avranno completato i loro studi e altri hanno iniziato il primo anno di frequenza, o sono passati alle classi successive partecipando allo scorrere naturale della vicenda scolastica che vi prepara a quello più vorticoso e imprevedibile che è la realtà della vita. 

Dopo essere stato con voi, nella vostra Scuola, dopo avervi conosciuti mi ero ripromesso di scrivervi, per dirvi, parteciparvi le sensazioni, i sentimenti, le riflessioni che quell’incontro aveva suscitato in me. 

Volevo dirvi che nel mio intimo è successo qualcosa, qualcosa di bello, di esaltante che mi ha ridato fiducia, una rinnovata carica, ma soprattutto speranza. 

Mancavo dalla Sicilia da qualche anno, ne mancavo fisicamente ma vivevo con immutata intensità, con accorato struggimento il mio essere siciliano. 

Andavo segnando sul mio quaderno ogni pensiero, componevo versi dedicati all’Isola, ai ricordi, facevo riflessioni su un presente deludente mentre sognavo un futuro diverso, senza però trovare agganci, motivazioni reali, possibili: riconoscevo lo stato d’animo di un innamorato tradito. 

Poi, dovendo tornare alla mia terra per una visita breve, quasi ufficiale, per accogliere da amici un riconoscimento, ho voluto compiere un gesto che mi urgeva nel cuore e nella mente: un incontro con i giovani per una presa di coscienza nuova, immediata, diretta della realtà che essi, in prima persona, rappresentano. 

Ed ora sono qui a scrivervi per ringraziarvi. Ringraziarvi per come mi avete accolto, poiché sento ancora il vostro canto e le parole che lo componevano; ringraziarvi per i vostri sorrisi che erano simpatia, e, perché no, anche per i baci che ci siamo scambiati; ringraziarvi ancora per quello che siete oggi e sarete domani! 

Non è retorica la mia, e non voglio neanche rivedere lo stile e la qualità di questa lettera per lasciare intatta !’immediatezza e la naturalezza di quanto vado pensando e scrivendo. E con la stessa immediatezza voglio dirvi che siete migliori di noi adulti, perché siete più spontanei, più attenti, e più preoccupati per il vostro futuro, quel futuro che noi adulti, invischiati, condizionati e forse responsabili di una situazione sociale lacerata, confusa, non riusciamo a vedere con chiarezza o non vogliamo vedere. 

E allora? Un’esortazione: voi siete ancora dentro la scuola, avete i vostri programmi di studio, avete accanto i vostri docenti che lavorano per voi e vi vogliono bene. Fate tesoro di questa occasione per crescere bene culturalmente, civilmente, moralmente. Pretendete ogni attenzione, perché ne avete diritto, perché rappresentate il vostro futuro, e la “Città” fra qualche anno dovrà essere vostra. 

Nell’introdurre questa mia lettera ho accennato al mio bisogno di recuperare ricordi e sentimenti, e a come vivo, con immutata intensità, il mio essere siciliano. Allora consentitemi di intrattenervi ancora su questo tema che riguarda da vicino il nostro sentire, il nostro “essere” presenti nella nostra Isola. 

Tempo fa scrivendo dei versi, mia attività preferita, composi una lirica che intitolai così: “Tomo all’Isola circondata d’ignoto”. Poi subito mi chiesi perché, io siciliano, pensando e desiderando la mia terra, la accostavo così istintivamente al mistero, all’ignoto? Anzi, nell’ignoto la vedevo racchiusa? 

La poesia, si sa, è un modo tutto particolare di espressione, ma è anche la più genuina, la più istintiva manifestazione del pensiero, dei sentimenti, del modo di interpretare, di vedere le cose, forse al di là della ragione stessa. 

E per questo volevo capire questo riferimento all’ignoto. Forse le origini antiche, i miti, le leggende? La presenza dei templi, di vestigia di una civiltà scomparsa, sparsi lungo la costa e sui monti? Il richiamo a un necessario rimescolamento tra gli uomini e gli Dei? Oppure era un richiamo a quel senso di oscuro dominio di forze incomprensibili e non domabili che ogni siciliano si porta dentro da sempre e comunque, e che sente immanente, essenziale, ma anche nemico? 

Ho cercato sempre di capire questa condizione, o meglio contraddizione, per trovare una chiave di lettura della Sicilia e del nostro essere siciliani oggi. 

In questo riferimento alla Sicilia, nel bene e nel male, ma più spesso nel male, ci si chiede: perché? 

Certo, sarebbe facile e forse semplice richiamarsi alle condizioni sociali, politiche, economiche, sia vecchie che nuove (e quelle nuove sono ancora cronaca), trarre delle conclusioni che poi si riducono abusate, comode dichiarazioni di conoscenza, comprensione, alla individuazione di priorità necessarie, di recuperi morali, civili, da attirare. Giusto, come le medicine prescritte su una ricetta da un medico “interessato” e frettoloso. 

Ma sappiamo che il malato non guarisce (forse non si sente ammalato), o non vuole guarire, prigioniero, com’é, della sua nobiltà o della sua miseria. 

Credo che noi siciliani siamo quasi tutti degli ammalati inconsapevoli, o meglio, dei portatori sani di virus. Ma quali? Questo è il punto! 

Dovremmo scavare nel nostro humus, nella nostra storia remota e recente, gettare uno sguardo largo sulla nostra terra, quella che ancora è rimasta intatta, dove d’estate, nelle campagne riarse, il riverbero delle stoppie brucia gli occhi e dove, sui campi scoscesi, si ergono ancora le bianche pietraie, che sono i calcificati sacrari della fatica umana, nella dura scoperta di una terra avara. 

Dovremmo, con sequenze veloci, come lo è stato per molta parte d’Italia, recuperare le immagini del passaggio da un’economia agricola, da una civiltà contadina, a quella industriale prima e postindustriale subito dopo, e cogliere l’animo dei siciliani spettatori attenti, ora da emigranti, ora da utile mercato altrui, per capire, se non accettare, un atteggiamento endemico sul quale, come cellule cancerogene, si sono insediate manifestazioni devianti, violente, assassine, che provocano reazioni a catena che assumono connotati assordanti, assurdi, offensivi. 

Ma voglio pensare ai siciliani, capaci, nei momenti magici della febbre dell’intelligenza, di creare letteratura, arte, scienza, di dare spettacolo di grande nobiltà e capacità. 

Voglio pensare – e i ricordi, come uccelli migratori, tornano sempre all’origine – e dire, con la memoria divenuta parte essenziale della vita di chi, da oltre trenta anni, vive fuori dall’Isola, lo struggimento di tante notti accarezzate dagli accordi di chitarra, dai canti lenti di uomini che nell’abbraccio del buio perdevano la potenza preda dei soli sentimenti, e divenivano fantasmi buoni a rincorrere sogni, i soli capaci di spezzare catene tollerate. 

I suoni, allora, erano lamenti, e i lamenti canti di uomini che vivevano senza 

tempo ad aspettare qualcosa; uomini abituati a respirare la vita goccia a goccia, a spartire l’amore con l’odio, che era amore dei sensi oppressi. 

Sono ricordi a trama fitta, intensamente colorati, arabescati: le cose che vi cadono dentro ora con dolcezza, ora con violenza, non sfuggono più e rivelano mille segreti rapporti, percorrono sentieri imprevedibili che sono quelli del gelsomino, dei fichi d’india o dei fiori lilla dei capperi, e che tutti portano alle case antiche, lungo i pendii dei monti. 

Comprendo bene che anche stavolta mi sono lasciato andare mescolando sogni, fantasia, realtà e, infine, poesia, la poesia dell’incontro con voi, con la vostra giovinezza che mi fa dire grazie ancora, per il vostro sorriso che è, di per sé, sogno, fiducia e augurio per tutti voi. 

Un caro e tenero abbraccio 

Romano Cammarata


* La relazione del direttore Cammarata ha subito una lieve aggiunta e modifica nella parte introduttiva; per il resto viene rispettata integralmente. Abbiamo preferito questa relazione perché aiuta meglio a conoscere il mondo umano e poetico dell’Autore.

 

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 13-16.