P. Hoffmann, La mia Libia, Marietti, Casale Monferrato, 1990, pagg. 261.

La Libia che l’autrice descrive è quella dell’infanzia vissuta in terra africana, rimasta nella sua memoria e nel suo cuore. 

Rientrata in Italia, subito dopo la guerra, come tanti altri che laggiù lasciarono averi e lavoro, Paolo HofImann si considererà un’estranea e guarderà sempre con nostalgia la Libia, con la natura ancora incontaminata, tra palme e signore con cappelli e ombrellini, e il ricordo del padre, un romantico pieno di iniziative e ricco di avventure. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 54-55




P. Handke, Falso movimento, Modena, Guanda, 1991, pagg. 104.

È il viaggio verso la scrittura di Wilhelm Meister, l’alter ego dello scrittore austriaco. Apparentemente Handke racconta di un viaggio (il giovane scrittore Wilhelm si aggrega ad un gruppo di quattro persone e percorre la Germania, dal Nord fino alle Alpi Bavaresi) che, poi, si rivela falso, mentre quello vero è l’andare indietro nella memoria e scavare in sé. 

Lo scrittore raggiunge la condizione necessaria allo scrivere quando alla vita di tutti i giorni abbina la vita interiore, quella che effettivamente ci appartiene di più e ci spinge ad agire come a scrivere. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pag. 61




P. Bestetti, Le copertine del «Mondo, Milano, Rizzoli, 1991, pagg. 128.

Pietro Bestetti raccoglie in questo libro i disegni realizzati per «Il Mondo». Un’idea originale che si concretizza in un elegante volume d’arte, reso piacevole dai colori bene appropriati. 

Il libro sprigiona una soffusa bellezza: il disegno balza vivido agli occhi e tende all’essenziale. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pag. 61




Nello Sàito, Com’è bello morire (1986), in «Ridotto», settembre-ottobre 1988, pagg. 14-31.

Nello Sàito, Premio Viareggio nel 1970 per il romanzo Dentro e fuori, è un commediografo di indubbia levatura che affronta temi sempre nuovi e interessanti.

Diciamo che è il primo autore italiano a sviluppare (La speranza, 1978, Un re, 1975, Déjeuner sur l’herbe, 1980) il tema della morte, sia perché incute paura, sia perché spesso si è presi da interessi più idonei a soddisfare le richieste del mercato.

In questa pièce, Com’è bello morire, pochi personaggi – come, del resto, negli altri lavori teatrali – appena «morti», vengono catapultati, uno per volta, nella scena che funge da anticamera del regno dell’al di là, dinanzi ad un pubblico invisibile, ma disturbati dalla «Voce» che di tanto in tanto vorrebbe loro incutere paura. Ognuno di essi si dice contento di essere morto, stanco come è di una vita di miserie, di bugie e di mascheramenti.

La morte viene vista come liberazione da ogni meschinità che attanaglia gli uomini: nessun rimpianto, nessuna nostalgia per la vita che si è rivelata malvagia e sopraffattrice. Soltanto Teresa, nonostante il suo passato libertino, vorrebbe riavere la vita che le è stata tolta. Mentre un altro grande drammaturgo contemporaneo, Ionesco, per farli ravvedere, pone i suoi personaggi dinanzi alla morte che inavvertita e inesorabile si avvicina, Nello Sàito non ha la pretesa di insegnare niente a nessuno, ma lascia ancor più disorientati, e fa riflettere, anche se siamo tutti presi da un progresso apparente e inumano.

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 66-67




N. Mahfuz, Il ladro e i cani, Feltrinelli, Milano, 1990, pagg. 144. 

Il protagonista dello Straniero di Camus sembra rivivere in questo romanzo di Mahfuz, dove Said Mahran, un ladro come tanti altri del Cairo, è malvisto e non riesce ad inserirsi in società, anzi, è portato a farsi vendetta, perché sia l’amico giornalista sia la figlia che non lo riconosce sia il suo complice lo allontanano e lo accusano. 

Oltre a quella del protagonista, così combattuto e provato dal destino da finire nelle mani della giustizia proprio in quel cimitero che tante volte aveva visto dalle finestre della casa dove era ospitato, la figura più cara è Nur, la bella prostituta che col suo amore e il suo affetto è stata sempre vicina a Mahran, a differenza degli altri, dei «cani. che non lo hanno mai lasciato in pace. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pag. 54




 N. Anselmo. La terra promessa.

Palermo, Herbita editrice. 1989. pagg. 245. 

Più che la vicenda umana e politica di uno dei primi socialisti siciliani, dopo la costituzione del partito, è la storia della Sicilia di fine Ottocento e i primi anni del Novecento: quella delle grandi lotte contadine che, finalmente, dopo alcuni decenni, porteranno alla riforma agraria. 

Bernardino Verro, corleonese, è il protagonista di questo libro che è tra la cronaca e la storia. Gli interessi compromessi e la mafia prima tenteranno di demolirne la figura politica e sindacale, poi lo elimineranno nella persona perché secondo. 

N. Anselmo, servendosi di un meticoloso lavoro di ricerca, raccogliendo dati e informazioni inediti, ricostruisce in 20 agili capitoli la storia della Sicilia di quegli anni e rimette in discussione, facendo luce, l’uccisione di questo sindacalista, leader del movimento contadino e difensore della povera gente. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pag. 47.




Milluzzo Artista dell’umana sensibilità 

Una personale di Sebastiano Milluzzo non può certo passare inosservata, specie per chi ha avuto modo di vederne altre, in Sicilia e altrove. L’occasione ce l’ha offerta Arte Club ’88 di Marsala, aprendo i suoi locali ad un artista tra i più validi del nostro tempo. 

In un periodo in cui il provvisorio e il dilettantismo invadono il mercato, mortificando l’arte e relegandola in confini sempre più ristretti, fa veramente bene all’anima e al corpo trovarsi dinanzi ad opere di Milluzzo, un artista che pur avendo preferito radicarsi ancor più nella sua terra di Sicilia, è rimasto sempre attento ai movimenti e alle correnti artistiche sviluppatisi in Italia e fuori, facendoli oggetto di ricerca e di acquisizione tutte proprie, pervenendo così a risultati sorprendenti ed originali. 

Figura di artista poliedrica, sia che plasmi la materia o abbozzi un disegno, sia che crei una scenografia o lavori la ceramica, ti accorgi che viene trasportato dal fuoco creativo avvincente e seducente al tempo stesso. E l’arte si fa vita, movimento e anche staticità pensosa e riflessiva come chi, proiettato in un progresso zeppo di interrogativi, si fermi un momento a considerare se stesso e gli altri. 

L’arte di Milluzzo ha proprio il dono di trasportarci e farsi seguire anche là dove i tentativi sembrano senza sbocco, perché c’è in essa sempre qualcosa che ci colpisce e. a volte, disorienta. Vuol dire che non ci troviamo dinanzi al solito imbrattatele che niente ha da dire, bensì ad un uomo prima che ad un maestro che utilizza il mestiere per elevare culturalmente il suo simile e riscattare certi valori che sono in lui, messi nel dimenticatoio e mortificati. Guarda un po’ le immagini o gli arlecchini, su cui ama il Nostro ritornare – basta considerare la sua produzione sin dai primi lavori per rendertene conto – per notare questo aspetto che ritengo fondamentale: traspare in essi un senso di innocenza che sembra smarrita, disorientata. È il timore di perderla che li lascia assorti e meditativi. 

I colori concorrono a partecipare questi sentimenti. Ora sono chiaroscuri, ora accesi quasi a trasmettere il fuoco che anima l’arte del siciliano Milluzzo. Una sicilianità questa, che non è un chiudersi entro i parametri ben definiti dell’Isola (Migneco, Giambecchina, per citarne alcuni), ma il rispecchiarsi della solarità mediterranea (Fiori, Paesaggio, Albero e case, la più recente Composizione), del colore represso e cristallizzato della sua terra lavica che viene irradiato a più ampi orizzonti. Volto di donna, coi capelli sciolti al vento, nei colori accesi quasi di un rosso-porpora, negli occhi così espressivi che fermano, vuoi o no, l’ammiratore, è la Penelope che richiama l’eroe, il quale, fermo nel suo sentire mediterraneo, pur attaccato alla donna, che è poi il carattere espansivo, aperto, sensitivo, caldo degli uomini di questo lembo di terra, coglie il richiamo che viene da lontano e lo asseconda. 

La ricerca di Milluzzo è come quella dell’ape: ha succhiato i fiori più belli per dare in dono la sua arte personalissima. Cézanne, Picasso, Modigliani, gli espressionisti, tutti gli suggeriscono qualcosa e tutti hanno qualcosa da dirgli per affinare ancora di più le sue tecniche e raggiungere una espressività che non è solo slancio verso la perfezione, ma bisogno insito di nuove conquiste. Quel richiamo di Ulisse che viene da lontano, insomma, e che lo spinge lontano. 

Nessuno nella ricerca artistica è un isolato, e tanto meno Milluzzo. E questo a dissentire quanti lo considerano tale. L’arte, la vera arte, quando è tale, che è anche vera poesia, non isola alcuno. Che Milluzzo abbia preferito rimanere tra la sua gente abbarbicata alle falde dell’Etna, non vuol dire niente, come niente vuol dire l’essersi allontanato dai fragori passeggeri e momentanei, a cui ricorre la gente qualunque per godere uno sprazzo di notorietà. La vera arte rifugge la notorietà spicciola per acquisire quella vera nel tempo e col tempo. L’essersi tenuto sempre aggiornato dei risvolti artistici più avanzati, vuol dire che non si è fatta sfuggire occasione alcuna per confrontarsi con altre esperienze e non si è chiuso in un ambiente che, diversamente, per quanto bello possa essere, a lungo andare, risulterebbe asfittico e improduttivo. Milluzzo ha scelto l’Isola per salvaguardare la sua arte. E non vi trovi altro regionalismo, se non il mondo o – se vuoi – le regioni del mondo, che cambiano nel loro aspetto paesaggistico, ma per il cuore rimangono tutte uguali. 

L’arte di Sebastiano Milluzzo nobilita prima di ogni cosa il sentire dell’uomo. L’espressività non è ricerca di un motivo come timbro della sua pittura, dei suoi disegni, della sua scultura; essa è. spontanea, così come spontaneo è ogni sussulto dell’animo. È qui che riesce bene Milluzzo, qui riesce grande la sua arte. Poi ci sono i colori. la cadenza delle linee, l’armonia propria di quest’arte. La Cucitrice, più che cucire. pensa; pensa con la grazia di una donna che nel lavoro affronta anche i suoi crucci e le sue ansie, siano essi di innamorata o di madre amorosa. Osserva poi le linee, i loro allungamenti. l’armonia che è nei colori. La lezione di Modigliani esce più ingentilita, quasi aerea, come la mano leggera che si posa sullo strumento del suo lavoro. 

Noi non ci stancheremo mai di ammirare Marisa: è la dolcezza personificata, la Beatrice che eleva il corpo e l’anima per attaccarli ancor di più a questa terra, alla nostra esistenza e farcela amare. Qui Milluzzo raggiunge le sfere più alte della poesia. Il bianco acquista grazia dal candore del volto, fermando così sulla tela una luce che inebria e distende. 

E questa luce emerge anche nella scultura. Si osservi un ritratto in rame o un nudo in bronzo. ad esempio. La materia, levigata e plasmata come cera, docilmente ubbidisce alle mani dell’artista che esprime la sua sensibilità di uomo e di poeta. Quei volti così pensosi, presi come sono dal travaglio esistenziale, parlano direttamente al cuore, e le linee magistralmente tirate, che sembrano abbozzate alla meglio, esprimono una drammaticità sofferta grazie alla tavolozza di Milluzzo, un artista che mirabilmente scandaglia gli angoli più reconditi dell’umana sensibilità. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 44-46.




Michele Digrandi, pittore della memoria

Se volessimo racchiudere, nel giro di poche parole, la pittura del ragusano Michele Digrandi, diremmo che la sua è una pittura della memoria, nel senso che, a parte le varie aperture insite nelle sue tele, presenta il mondo isolano di una volta, pur con il rischio di vederlo da qui a poco tempo ancor più modificato e reso irriconoscibile. 

La ricerca pittorica del Digrandi è tesa, di proposito, su questo doppio binario: da una parte, il paesaggio millenario, calcificato e quasi ancestrale, di quella zona orientale della Sicilia che gli ha dato i natali, dall’altra, una sua possibile salvaguardia, che non può essere data se non dalla denuncia di un degrado che non è solo ambientale, ma umano e sociale al tempo stesso. E se è vero che alla base di ogni intento artistico c’è un movente emozionale che spinge l’autore a riversare quanto ha dentro, è pure vero che Digrandi, sotto una ben celata bonomia, esprime la rabbia di chi, pur volendo, è messo nelle condizioni di non poter fare nulla e di subire lo scempio che viene perpetrato ai danni dell’ambiente, nel nome di un progresso inumano e ripugnante. 

Pittura della memoria, dunque! Se il pericolo è nella quotidianità che tende a distruggere ogni cosa. ecco il pittore che, novello Noè, salva ciò che può, cogliendo, con i colori che sono suoi, la natura nello stato primordiale, ai più recondito, ma vero, della sua terra, per fissarla nel tempo e nella memoria degli uomini. E allora le pietre, che di questa natura sono parte integrante, occupano un posto di rilievo, le coltivazioni tendenti al biondooro, i carrubi con il loro verde vivo e la loro ombra ristoratrice. il mare e il cielo risplendono e esplodono di luce e sono la manifesta effusione di quella solarità mediterranea tanto presente e insistente nelle opere del nostro pittore. 

Ma le pietre – si osservi bene Veduta, a cui ci riferivamo sopra – non sono un elemento ornativo. Esse testimoniano lo scorrere dei secoli e la lunga, dura fatica degli uomini, e ci riportano, a parte l’apertura al mare, alla vocazione puramente agricola della Sicilia (nel tempo disboccata e spietrata per guadagnare spazio alle coltivazioni), e ora tradita, nel nome di una falsa industrializzazione che palesa i suoi lati negativi e più deleteri: un consumismo sfrenato che non perdona a nessuno, nemmeno all’ambiente, come in Triste realtà, contaminato da rifiuti e da residui nocivi. 

Il realismo così concepito non è una mera trascrizione del vissuto quotidiano, così come gli ampi paesaggi non distendono solo gli occhi e la mente: esso è presa di cos~ienza, partecipazione attenta, di uomo e di cittadino, a quelli che sono i problemi che travagliano la società odierna e attentano alla sua sopravvivenza. La trota, che vediamo guizzare fuori dall’acqua, in un dipinto del 1987 che ha per titolo Fuga 2, simboleggia proprio questo. Essa, come d’altronde ogni essere vivente, è spinta dallo slancio della disperazione, non volendo sottostare e morire nella morsa dei tentacoli di una piovra che stringe e soffoca il mondo. 

Il simbolismo, qui più che mai, è pregno di un messaggio niente affatto retorico, o comune, bensì portatore di una denuncia che dice tutto lo scontento di chi passivamente non accetta la depravazione in cui l’uomo è andato via via cadendo e, al tempo stesso, è rivelatore di un ottimismo che, seppure latente, spinge a ben sperare. Segno, questo, che l’uomo ha ancora una forte capacità di rivalsa che gli permette di guardare il mondo e di coglierlo nei suoi aspetti più genuini e buoni. Così, in Tentazione, se c’è il serpente che s’incunea tra gli incastri delle pietre, a secco diligentemente sopramesse, c’è pure un mare aperto, e la vita che dirompe, in un colore azzurro chiaro che, di per sé, rasserena e distende: e, anche se un globo, all’orizzonte, è in una non ben definita posizione, tutto lascia presupporre che sia proteso verso l’alto. 

Come può ben notarsi, Digrandi dà grande importanza agli esseri inanimati e non, e fa in modo che essi parlino attraverso il simbolo che rappresentano. L’uomo, a prima vista, sembrerebbe l’escluso di questa pittura, mentre, invece, essa si sviluppa e trova la sua ragion d’essere nell’esistenza umana, resa tanto problematica e travagliata da non riconoscetvisi. Eppure, basta che ci si guardi attorno per affermare ancora una volta che la vita va vissuta nella sua interezza, con occhi bambini o, se vogliamo, con quelli degli animaletti o degli insetti che popolano la natura, per gustarla e amarla. Si veda, a esempio, Inno alla vita, dove rettili, insetti, uccelli, “cantano” effettivamente nella pienezza di un giorno luminoso la vita, mentre un pulcino sta sgusciando e un carrubo secolare, con un fusto nerboruto, affonda le sue radici in un terreno pietroso. 

Michele Digrandi dipinge una natura luminosa, non segnata dallo scandire monotono del tempo, che sembra essersi fermato per sempre, dove il reale sconfina nell’irreale, per riproporsi e fissarsi nella mente con la sua originaria semplicità. Piante comuni della terra isolana (il carrubo predomina anche nei suoi disegni) e fiori traboccanti di colori e di odori e, ancora, api, farfalle e ogni altra manifestazione di vita che, pure nella distensione della luce, dicono il loro risveglio e la loro laboriosità. 

Questi paesaggi così solari, descritti con una precisione fotografica, e ricchi di particolari, hanno in sé una patina di surreale, come se si trattasse di un mondo chissà quale, frutto veramente di un preciso momento che segna il passaggio dalla realtà al sogno, perché di sogno si tratta, piacevole come in Inno alla vita, o rilassante nella sua solarità, come in Veduta, o, ancora, che scuote e lascia pensosi (Fuga 2 ). L’evasione dalla realtà, per Digrandi, altro non è che aderenza piena. totale, alla vera realtà, quella che il più delle volte sfugge all’osservatore, indifferente o distratto, che così non riesce a cogliere l’essenza vera della vita. 

Questo surrealismo, che è un atteggiamento più o meno presente nella maggior parte delle tele del pittore Digrandi, non è una forzatura, e nemmeno un partito preso (anche nei dipinti più manifestamente impegnati, come in Fuga 2); è qualcosa di insito, dovuto certamente alla sua frequentazione dei maggiori artisti e movimenti avanguardistici della nostra epoca. ma, comunque, connaturato al suo modo di intendere l’arte e la vita. Ciò effettivamente fa pensare ad un legame artistico-spirituale con i surrealisti maggiori. Non a caso, ci viene di ricordare René Magritte, a proposito della minuziosità compositiva. Come in Magritte. c’è in Digrandi (“Genesi n. 3“) una predisposizione naturale a cogliere nel suo insieme ogni tassello, ogni elemento che, a prima vista. potrebbe apparire insignificante e che, invece, costituisce e ci restituisce il tutto. 

Una minuziosità, quella di Michele Digrandi, che fa pensare alla laboriosità meticolosa dell’ape, tante volte oggetto dei suoi quadri, e che parla con il linguaggio semplice di tutti i giorni. Provate a osservare l’incastro delle pietre posate l’una accanto all’altra, degno lavoro di un abile pietrista, oppure il fusto di un carrubo, pieno di rughe nerborute che dicono la sua voglia di vivere o, ancora, la trota. o la piovra con i suoi tentacoli e le ventose: sono di una precisione impressionante! 

Abbiamo parlato di solarità mediterranea in uno spazio atemporale, e questo perché la poesia supera i limiti del tempo e s’impone e dirompe con la forza che le è propria. La poesia dei colori, nella pittura di Digrandi, esercita un fascino che non è facile dimenticare; essa è purificata dall’atmosfera di sogno. a cui ci siamo riferiti. e ha in sé la bellezza e la freschezza di un idillio. A tutto questo egli giunge grazie a una consumata perizia che gli permette di utilizzare le tecniche più diverse, dalle pitture acriliche ai pastelli, o ai semplici disegni. per esternare quell'”io” profondo che è alla base della sua ricerca artistica e umana. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 41-44.




Mélanges de Littérature française, belge et comparée, textes rassemblés et présentés par Diana Martinez-Raposo et Rosalia VelIa, Castelvetrano (Tp), Mazzotta, 2004.

Interessante e ricco di contributi letterari è questo volume antologico curato da D. Martinez-Raposo e R. Vella. Interessante perché offre un ampio ventaglio di interventi che abbraccia il Settecento e l’Ottocento, relativamente alla letteratura francese, belga e comparata; ricco perché degli autori studiati presenta molti aspetti nuovi o poco noti. 

L’antologia, che raccoglie scritti di studiosi italiani e stranieri, nella sua poliedricità mette in risalto la figura e l’opera di J. P. de Nola, professore emerito dell’Università di Palermo, studioso di letteratura francese e comparata, autore di innumerevoli pubblicazioni in Italia e all’estero, stimato conoscitore di Bourget e di Chenedollé e di tanti altri che, grazie a lui, abbiamo imparato a conoscere. Gli scritti sono tutti meritori, e faremmo un torto se ne citassimo alcuni. Il lettore saprà valutare e apprezzare l’opera che è sicuramente di stimolo allo studio e alla ricerca. Noi ci auguriamo che il volume abbia tanta fortuna e, soprattutto, che Jean-Paul de Nola continui nella sua opera di divulgatore culturale e di studioso appassionato che abbiamo sempre ammirato. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pag. 45.




Mario Scamardo – Sara Riolo, Il Favoliere. Cucù e le sue storie, Ila Palma, Palermo, 2004. 

Oggi che la televisione invade le case senza lasciare alcuno spazio al dialogo e alla conversazione, sembra un fiore fuori tempo un libro come questo: Il Favoliere. Cucù e le sue storie di M. Scamardo e Sara Riolo, con disegni di G. Salvia. Per questo si accoglie con piacere e va diffuso e fatto conoscere. 

Sono favole calate per lo più nella realtà e nell’ambiente montano palermitano, ma non mancano quelle ambientate in altre zone del mondo. Quello che è importante è che i personaggi sono cosmopoliti, nel senso che da buoni cittadini del mondo, dicono dell’uomo e fanno di tutto per avvicinarlo al senso umano della 

vita, facendolo riflettere su fatti e situazioni che succedono dovunque. Si legga la prima, tanto per citarne una, «Cucù e il giardino dei sentimenti», o «Il castagneto 

degli gnomi», sono favole che recuperano il rispetto per gli altri, il giusto peso che va dato agli uomini e alle cose che spesso non comportano grandi impegni e sacrifici, eppure basta poco per fare felici gli altri e vivere in armonia con il prossimo. Che è quello che ci vuole perché predomini la pace e il bene. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 46-47.