Maria Viviana

miniracconto di Caio Porfirio Carneiro 

Una fibbia ai capelli un po’ spettinati e un po’ brizzolati, veste d’un azzurro sbiadito, zoppicando da un piede, andava per gli stretti vialetti del cimitero cercando, con gli occhi socchiusi di miope, di leggere le lapidi delle tombe, erette a cappelle o infossate nel terreno. Si disorientava. Si vedeva perduta tra le croci, andava e riandava, cercando di leggere. 

Vide l’uomo che passava spingendo la carriola carica di mattoni. 

«Sa per caso dove sta Maria Viviana?» 

«Maria come?» 

« Viviana.» 

«Non sa il numero di sezione?» 

«Di che?» 

«La sezione.» 

«No.» 

«Vada in amministrazione. Là danno informazioni.» 

«Dov’è?» 

«Proprio all’ entrata.» 

Quasi si perdette per scovare il piccolo ufficio. Un uomo calvo esaminava il libro aperto sul bancone, annotava, non sentì bene quel che lei diceva. 

«Cosa cerca, buona donna?» 

«La croce di Maria Viviana.» 

«Maria come?» 

«Viviana.» 

«Qual è il nome completo?» 

«Non lo so.» 

«E non sa la sezione o il numero del viale e se ha lapide?» 

«Ha che cosa?» 

«Lapide. Il nome segnato, data di nascita e morte, queste cose … » 

«Non so … » 

«Così diventa difficile. Come ha detto che è il nome completo?» 

«È Maria Viviana.» 

«Nome carino. Ma deve avere un cognome. Non sa più niente di lei, data di 

morte?» 

Quella uscì disorientata, senza sapere come trovare Maria Viviana in quel mare di tombe e croci. 

L’uomo calvo si mosse e la chiamò «Torni qui. Vediamo un po’ …» 

Andò crescendo in lei una pena infinita per Maria Viviana in quel mare di croci. Risolse di andarsene in fretta, col suo zoppicare. 

L’uomo calvo la chiamò: «Ehi … venga qui. Ho trovato il nome. So dov’è … » 

Lei non gli fece caso. Attraversò il grande portone di fretta, zoppicando rasente 

all’alto muro del cimitero, come rifugiandosi in esso, una immensa angoscia nel cuore. 

Alla svolta, scomparve, dentro la veste azzurra sbiadita, con la fibbia che teneva i capelli un po’ spettinati, coi fili argentati. 

trad. di Renzo Mazzone




La cena 

Racconto di Caio Porfirio Carneiro 

Guardò dalla finestra. II vento e il paesaggio. E la banderuola segnavento. Un frantume di vetro si specchiava al sole, laggiù. 

Si sedette, sospirò, diede un’ occhiata ai piedi doloranti negli stivaletti impolverati. Per il gran camminare. Gli alberi fronzuti nel cortile sempre gli stessi. Il corridoio si apriva verso l’interno. Dalla sala da pranzo spuntava lo spigolo d’un tavolo. 

Avanzò un poco. Le pareti coperte di ritratti. Sedie imbottite. Si voltò a guardare fuori. Il vento era calato. Camminò lentamente lungo il corridoio, il suono dei passi a ritmare la sua presenza. 

Ora di cena. 

Allora il tavolo largo e lucido apparve in primo piano. 

Lui esaminò i mobili, la cristalliera che aveva tenuto in vetrina servizi pregiati. 

Non fu sorpreso di vederla seduta a capotavola, in ombra. Le si sedette di fronte, il piano del tavolo a separarli. Allungò lo sguardo al pavimento del corridoio, e alla chioma degli alberi in cortile. 

«E siamo qui… Tutto come prima.» 

Lei sorrise. II sorriso di sempre. Lo stesso abito un po’ scolorito. 

«Niente è cambiato.» 

Lei disfece il sorriso. Si allungò sulla sedia. Incrociò le mani, le dita senza anelli erano più sottili, cresciute le unghie. Lo sguardo un po’ spento. 

«Sì, niente o poco è cambiato. 

Un filo d’aria per il corridoio e faceva battere a tratti un’anta della porta. La vernice del tavolo, in un punto scrostata, mostrava screpolature nel legno. A un angolo della stanza pendeva come un velo una tela di ragno. 

«Cose del tempo.» 

Lei tornò a sorridere. Piccole rughe a rigarle il viso. 

«Ma quanti anni … » 

Si alzò e si diresse al cortile. Non andò oltre la cucina: al,te pareti spoglie e fenditure in lungo, focolare spento. II muro di cinta caduto, alberi spogli attorno e appesa qualche foglia. Pezzi di legno e una tenda disfatta nel vivaio. Niente cinguettii d’ uccelli. 

Tornò indietro e si rimise a sedere, dolenti le giunture. 

«Qualche cosa è cambiata, però … » 

Nella vernice del tavolo, buchi precisi scavati dal tarlo. E muri senza intonaco, tegole sconnesse, parte del tetto scoperchiata. 

Lei, di fronte, un’ombra mummificata, veste a strisce di bave e sfilature. 

Fuori dalla stanza, calcinacci nel corridoio intralciavano il passaggio. Quel che restava della porta cigolava e andava a sbattere a ogni soffio di vento. Fuori, erbacce cresciute. E lucertole slittavano nel mezzo. 

Si mosse per andare a dare uno sguardo. Pochi passi e si fermò tra il fogliame secco e ramaglie sparse … 

Una trave pendeva là in alto, sembrava scuotersi a tratti. E c’era una sedia impagliata là in basso, con la spalliera al muro, dove una lucertola saliva e scendeva. 

«Sì, cambiata.» 

Pestò un frammento di vetro: conservava lo stesso identico riflesso di quando era nella cristalliera. 

Si chinò per raccoglierlo. Fu un inchino, come in una riverenza. 

«Però … » 

Mosse i passi tra i mucchi di calcinacci, con la mano appoggiandosi ai resti del muro. Cercò con lo sguardo la banderuola a vento. Poi si guardò la punta delle scarpe impolverate dal lungo andare. E un uccellino si posò lassù, in cima alla trave pendente, roteò gli occhietti ai quattro punti cardinali. 

Spiccò il volo. Scomparve. 

Versione italiana di Salvator d Anna da «Literatura Brasileira» n. 31 , 2003, e n. 6, 1997. 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 40-41.




ACCORDI

Son io che parlo nelle note mute 
di questa sinfonia, 
io che mando segnali al mio futuro 
pizzicando le corde 
della magia. 
Ed ecco il pianto lieve, passeggero: 
muoiono le sue gocce 
come muoiono l’ore 
nel soffio fuggitivo del piacere 
ora, nel disincanto. 
Mi conforta soltanto 
quel che mi segna l’orologio a muro 
nel lento gocciolio che accompagna 
i giorni 
e mi trasforma con le mie paure 
in vani accordi in cui non riconcilio 
me con la mia amarezza, 
in questo giorno, 
ora. 

Caio Porfirio Carneiro 

da «L.B .» n. 39, 2005

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 45.




 Una lirica liturgica bizantina 

A San Marciano 

di Gregorio di Siracusa 

Gregorio di Siracusa (vissuto nella seconda metà del secolo VII), di cui non abbiamo altre notizie, è autore di tre «contàci» (preghiere ritmate accompagnate da musica, che erano alla base della liturgia bizantina), tutti incompleti, perché si fermano alla terza strofa, scritti in onore di san Marciano, di san Niceta martire e di san Luca evangelista. 

Nel canto per san Marciano (tradotto dal greco da Oreste Carbonera, gentilmente approntato per «Spiragli»), si fa cenno alla Sicilia, patria di Gregorio. Dopo una premessa, in cui sono esaltate le figure di Gesù, «sole di giustizia», di Pietro, «fulgida roccia», e di Marciano, «raggio profetico», inviato a predicare la parola di Dio, «vera conoscenza», e ad aprire alla fede gli uomini, l’encomiaste invoca il Santo, perché lo faccia avanzare nella conoscenza, per rendersi degno e potersi avvicinare a Dio, e insieme con lui le genti affidategli e la Sicilia, perché prosperino e crescano nella fede. 

È una preghiera entrata a far parte della liturgia bizantina, segno di una grande spiritualità, propria di quell’epoca,in cui le eresie e il paganesimo ritornante, mettendo a dura prova i credenti, ne corroboravano la fede e inculcavano loro una forte vitalità. 

Salvatore Vecchio 

La fulgida roccia, il principe supremo 

degli apostoli, 

dalle terre d’Oriente 

te, come più splendida stella 

di Cristo nostro Dio sole di giustizia, 

agli uomini d’ Occidente 

inviò come raggio profetico 

per illuminare i loro pensieri 

indirizzandoli alla conoscenza divina; 

e per mezzo di tali pii propositi 

da te inculcati, 

confermandolo nella retta fede, 

tu tempri e riscaldi il tuo gregge, 

o santissimo Marciano, 

svolgendo assiduamente le tue funzioni 

di intermediario a favore di tutti noi. 

Tu che hai acquisito l’arcana sapienza, 

tu che tutti hai sopravanzato 

nel protenderti 

verso il destino ultimo dell’ anima, 

o venerabile e santo Marciano, 

sii ora mediatore di grazia 

nell’infondermi la conoscenza 

del verbo divino, 

nel far risuonare il tuo nome, o padre, 

davanti alla santa Trinità, 

al cui cospetto ti sei elevato 

e accostato, 

nel liberarmi da tutte le passioni 

corporee 

e dai legami materiali, nel farmi tornare, 

allontanandomi dall’apatica 

indifferenza, 

al cammino che conduce verso Dio, 

nel quale tu sei stato stimato degno 

di precederci, 

svolgendo assiduamente le tue funzioni 

di intermediario a favore di tutti noi. 

Tu che detieni il bastone del comando, 

che hai fatto tua la croce del Signore, 

sei stato scelto come guida 

e compagno di viaggio 

per i suoi seguaci: 

infatti il nostro benefattore, inchiodato 

alla croce, 

risvegliatosi dal sepolcro e sconfitta 

la morte, 

come investito ormai di pieni poteri 

sul mondo ha mandato i suoi discepoli 

a battezzare tutte le genti 

nel nome del Padre, del figlio 

e dello Spirito Santo: 

dalle quali potenze celesti 

anche tu inviato 

come battezzatore dei popoli 

hai accumulato ingenti ricchezze 

spirituali 

svolgendo assiduamente le tue funzioni 

di intermediario a favore di tutti noi. 

Queste parole Pietro udì dal Signore: 

«Se mi sei sinceramente devoto 

e mi ami ardentemente, 

pascola le mie greggi, 

impartisci loro insegnamenti, 

facendo sì che maturino e procedano 

dall’ ignoranza alla conoscenza 

della santa Trinità.» 

Da quella stessa fonte tu, 

avendo ricevuto il mandato divino, 

lo adempisti zelantemente, 

come si addice a un capo e a un iniziato; 

e a te è stata affidata 

quest’isola di noi Siciliani, 

e tu hai ricevuto e accettato 

quest’eredità, o lume di sapienza, 

svolgendo assiduamemente 

le tue funzioni 

di intermediario a favore di tutti noi. 

(Trad. di O. Carbonero) 

Dello stesso autore: 

Fatalis occursus




HAIKUUM LATINORUM EXPERIMENTA 

Cerebri vires 
cotidiana rodit 
meditatio. 
Quoad humanum 
in terris erit genus, 
caedes edentur. 
Nemo re vera 
ad obeundam mortem 
paratus venit. 
Sunt a filio 
severis parentibus 
grates agendae. 
Qui plures usque 
divitias esurit, 
non satiatur. 
Pessime vivunt 
improbis pollentibus 
homines probi. 
Ab historia, 
qua sumus tarditate, 
nihil discimus. 
Rude donati 
nihil iam prospiciunt, 
retrorsum spectant. 
Caro debilis 
consilia frustratur 
mentis elata. 
His taetris annis 
fit omnis merx carior, 
vilescit virtus. 
Vivere solus 
quam cum falsis amicis 
equidem malo. 
Nil iucundius 
Est contemplatione 

Caeli sereni. 

Prove di Haikai latini. La mental forza / l’assidua corrode / meditazione. / Finché nel mondo / uomini resteranno,/ stragi faranno. / Nessun davvero / ad affrontar la morte / arriva pronto. / Deve il garzon / ai genitor severi / riconoscenza. / Chi di ricchezze / solamente ha fame /mai si sazia. / Mal se la passa, / ov’il figuro vince, / il galantuomo. / Dalla storia, / ottusi come siamo, / nulla impariamo. / I pensionati / nulla han davanti a sé / tutto dietro. / La debil carne / gli impulsi vanifica / dello spirito. / In questi anni bui / piùcare son le merci, / meno la virtù / Viver da solo / che con falsi amici / io preferisco. / Null’è più bel / che il contemplare / il ciel seren. 

(versione it. di O. C.) 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pag. 52.




FATALIS OCCURSUS

L’argomento di questo poemetto in esametri si riferisce al periodo compreso fra l’avvento del regime fascista e la sua caduta, con particolare attenzione per le leggi razziali del 1938 e l’occu-pazione nazista dell’Italia settentrionale fra il 1943 e il 1945. La vicenda narrata corrisponde so-stanzialmente a fatti reali, ma l’Autore si è concessa qualche libertà sulla caratterizzazione dei per-sonaggi, e ha mutato i nomi dei protagonisti e dei luoghi nei quali essi hanno operato. 

Tutto si basa sulle esperienze drammatiche di Anna e Marco, dapprima distanti e indipendenti e quindi esaminate separatamente mediante la tecnica dell’alternanza: il momento culminante è l’incontro fra i due, veramente «fatalis», voluto cioè dal destino o, per chi crede nell’intervento di Dio nella storia degli uomini, nella Provvidenza. 

Iudaeo Genuae de sangui ne nata peramplo, 
cum patre chirurgo praestanti nomine claro 
cui grates cives permulti sospite vita 
pergebant meritas post lustra exacta referre, 
matris freta suae tenerae ductu sapienti 
quae nummis et agris pariter florebat abundans, 
Annula terreni paradisi gaudia quaedam 
ter senos ignara mali perceperat annos. 
A genitrice sua perdiscere coeperat artes, 
pingendi imprimis, saltandi, dramata agendi; 
instituit genitor gnatam ut misceret avitos 
mores et ritus hodierni sensibus aevi; 
lautitiae addantur regales, grati a magna, 
certus apud populum favor assiduique clientes: 
munditiis puris circumdata vixerat Anna. 
Dissimilem numquam se senserat esse iuvencis 
in quorum villis horas degebat amoenas. 
Militiae assueto praedurae semine Marcus 
portus erat, bellis terra pelagoque peractis 
perbene de patria merito phalerisque superbo; 
unus amor fuerat cunctis maioribus eius 
excutere Italiae primo servile capistrum, 
dein decus huic populo prolapso reddere priscum. 
Impenso incensus gentis languentis amore, 
cui nihil externos domitores tandem aliquando 
profuerat pepulisse procul victricibus arrnis, 
Europa surdas nostris praebente querelis 
legitimis aures terrasque negante cupitasl, 
restitui fasces gavisus pectore forti 
turmis constituit Marcus coniungere sese 
indutis thorace nigro baculoque minaci. 
Adspersos sputis reduces membris mutilatos, 
vastantem saxis plebem facibusque tabernas, 
invadi pingues alienos undique fundos: 
omnia committi delicta aspexerat atra, 
publica quae posset iam vis compescere 
nulla. Confertas acies inimicas solus adortus, 
luctatur rabide per vicos, compita, rura; 
debilibus parcens, robustos sponte lacessit; 
consertas rixas existimat esse palaestram; 
vexillis rubeis exsultat corde potitus. 
Romana exoptans renovari antiqua tropaea, 
imperium valde gaudet fundare novellum 
Aethiopum in terris Ducis armatas legiones. 
Gaudia concedi constat mortali bus aegris, 
quae fatum mutabile mox furetur inique. 
occursus Annae timidi comites, quasi lepra 
mortifera aegrotans diro contamine obesset. 
«Lex nova te prohibet studiis incumbere amatis; 
malueram exitio perimi iuvenilibus annis, 
istius potius quam cogerer esse minister 
iniusti iussi, quod me observare necesse est»: 
vix retinere valet lacrimas praeses valedicens 
discipulae, cuius dotes laudaverat amplas. 
Filiolae frustra tristem lenire parentes 
maestitiam blandis ambo studuere susurris; 
in cassum vero solantia verba cadebant, 
cum spes iam sortis melioris nulla maneret. 
Fortunae adversae nequedum cogno verat imum 
tot vexata maIis insons virguncula fundum: 
transactis annis vixdum nam quinque, peric1um 
impendens gravius propere vacuare penates 
Iudaeos cogit procul et sperare salutem. 
Indiciis multis praedicta scelesta procella 
postremo exarsit vastantis fulminis instar: 
saeviit in gentem tranquille vivere suetam,
annorum luxu longorum denique fractam. 
Commodius possunt seiuncti eludere vinc1a: 
Alpina in casula genitor materque tenentur, 
Augustae Taurinorum petit Anna recessum. 
Secreto hospitio fruitur sutoris amici 
aedibus in parvis, dapibus contenta modestis. 
Fumosum prope stans pannis induta caminum, 
rarius ad caelum vitrea levat ora fenestra; 
ancillae similis digitis insistere summis 
suetae, ne strepitum faciens durae mala dicta 
perpetiatur erae, lamentum comprimit urgens. 
Haud procul hinc habitat crepidarum venditor alter, 
invidia pridem iam concru~iatus acerba; 
pectore lividulum fel nunc demum evomit imo: 
litterulas furtim turpes sine nomine mittens, 
Germanis latebrae sedem dominumque revelat. 
Compede vincta pedes, caris abstracta propinquis, 
carceris obscuri in cellam detruditur udam; 
nec tantum mortem quam suppIicium timet atrox, 
quod Mosis fama est subolem exspectare luendum. 
Forte tamen fuerat custodia tradita Marco, 
cui minime caedes iam praedonesque placebant: 
tot promissa Duci velit obiectare redacta 
in fumum aut prorsus tota in contraria versa. 
Russica iam c1ades pectus prostraverat audax: 
haerebant oculis glacie profugi rigefacti,
panis ab indigenis sicci fragmenta petentes. 
Iudaeos putat insontes persolvere poenas, 
ut vesana sitis saturetur saeva cruoris, 
quam Romanorum decet oppugnare2 nepotes. 
Postibus extemplo sic fatur Marcus apertis: 
«Hinc discede prius nece quam perimaris inermis». 
«Si quis me vinclis cognoverit esse solutam, 
nonne mea vice tu capitis damnaberis ipse?» 
«Vivere non operae pretium est, ubi vita negatur 
nil meritae puerae: nobis ignosce scelestis.» 
Ventorum celeres flatus superat fugiendo, 
nec retro spectat num quis post terga sequatur. 
Dux caelestis adest currenti providus Annae: 
non aliter potuit per sii vas, flumina, montes 
ad fines reperire viam quae duceret Alpis3. 
Protegit hos miseros profugos Helvetica terra: 
bellanti neutri parti sociata, benignis 
suppeditat mani bus cuivis solacia egeno. 
Deliciis mundis omnino e mente revulsis, 
aequanima Anna coquae patitur iam munere fungi; 
ignotas vitae curas sentire4 coacta, 
quot sibi contigerint comprendit gaudia quondam, 
quae mens pro nihilo levi or ducebat inepte. 
Libertas lustris quinque exoptata revertit, 
sternuntur saxis monumenta tyrannidis atrae; 
exulibus reditus prompte patet ecce misellis, 
aedes ut proprias erus unusquisque revisat, 
nil ubi praedonum rabies indemne reliquit. 
Vindictas victor de victis sumit amaras; 
vexati fiunt vexatores male sani; 
sanguinat urbs odiis taetre laniata vetustis; 
non patrem subolis miseret iam nec patris, eheu, 
ingratam prolem: scelerata triumphat Erinys. 
Iam profligatis dignatur parcere nemo: 
plumbea glans aufert, verno dum flore virescunt, 
complures iuvenes veniam a tortore precantes. 
Discursu anxifero benefactorem cupit illum, 
cui grates magnas reddat, revidere puella, 
etsi mens praesaga timet ne fata benigno 
sint servatori immerito rniseranda tributa. 
Nuntia nulla vagans de milite comperit Anna: 
desinit indago desperata ante sepulcrum. 
Nil aliud restat, cinerem nisi frigore mutum 
fasciculo florum lacrimis donare madenti; 
impulsuque novo Christi mox se cruce signat. 

NOTE 

1 Priore inter omnes gentes bello confecto, de «victoria mutilata» ardentissimi patriae cultores loquebantur, Dalmatiam imprimis Italis denega-tam querentes. 
2 Simili in contextu transitive adhibuit Plautus, MOSI. 685: «Ita mea consilia undique oppugnas male». 
3 Singulari numero reperitur apud Lucanum I, 481: «inter Rhenum populos Alpemque iacentes». 4 Cfr Liv. XXV, 13, 1: «iam famem Campani sentiebant». 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 50-51.




A. Contiliano, La contingenza/lo stupore del tempo, Milano, 1995.

L’idea di sperimentalità (del verso, per esempio) affligge più d’un critico che porta sulla sua pelle una serie cicatrizzata delle sue ferite, imposte dall’immagine fissa della “tradizione”, dalla traducibilità di essa come ordine, senso e stile buoni per tutti i semplici e regolari, secondo le definizioni intramontabili. L’algidità simultanea giunge da una critica accademica che non riosserva le possibilità del mondo moderno di farsi immagine-altra di uno schema consueto, voce d’altro conf1itto (senza i quali non avremmo avuto mai, né Cézanne, né Boccioni, né tutto lo stesso Cubismo e Astrattismo novecentesco, ma soltanto non “novecentismo” diretto alla lode della corporeità, senza scarti vitali, né simboli discutibili e pronti per affrontare la civiltà d’oggi). Così, in letteratura, in troppi benpensanti intellettuali, hanno fatto di tutto per devitalizzare la ricerca sulla scrittura’ l’impeto creativo oltre i canoni stabiliti da congeniali sclerosi della mente, a favore del gioco tenero e conformista della ripetitività delle zone semplici dell’abitudine, pur sempre rigogliosa; del patetismo generale, umori, odori, nutrimenti passivi e intelligibili a chiunque. 

Una lettura dei versi più recenti di Antonino Contiliano va effettuata proprio nel senso nuovo (o diverso dal profilo chiuso della comunicazione e delle sorti estemporanee, dovute a virtù ispirativa contraria alla stessa poesia caparbiamente convenzionale, e acclarata dalle antiche luci dell’Isola in cui vive) in cui s’intende che la “contingenza e lo stupore”, a cui essi si affidano, appartengono a emblemi comportamentali di esplicita educazione al percorso anomalo intorno a ciò che si dice verso di poesia, dove si catturano eversioni e sogni. Egli lo fa con linguaggio intensissimo su una formidabilità epigrafica che si vela di significato totale, ma indica il punto in cui l’evento ha una forza visiva aperta, non scrupolosamente aderente ai contenuti, o non soltanto versati su di essi. Per recita capziosa e per sommari arbitri, Contiliano affronta – in più strati – la storia collettiva e la cronaca del mondo al centro d’ogni pagina, in cui qualcosa si dissolve, si fa maceria del tempo, frammento sottile: la cui vertigine (e ciò che di esso si ascolta) fa la “poesia”, anziché una comunicativa prorompente e assoluta. C’è un luogo geografico che dà spazio a questa scrittura amara. solennizzata dal commento realistico, ricca di sintagmi espressionistici, che consentono estri efficaci, usi sospesi e partecipati (o sconnessi) di inquietudine, che dicono più di qualsiasi istrionica tesi sull’alterità degli scarti umani, e delle molteplicità di eventi per la conservazione della poesia. Ma il lettore rifiuta quella sottrazione di sintassi che celebra la simbologia del tema, preferendo l’enfasi levigata, l’immobilità eguale a se stessa nella sua crudezza pretestuale e il senso dentro cui meglio ristagna! 

Così, il poeta, che intende sviluppare gli straniamenti sul tutto detto o scritto in maniera fertile ed effusiva, viene scacciato dal suo rango più emotivo, e viene cancellato per l’aspetto che egli offre di una galassia, di un gesto. di una dimora, di una quaestio umana e politica, di un suono nomade: e allora si blocca (contro di lui) l’idea di messaggio, in un intento più spietato e – indubbiamente – più sofferente e acre. Il lettore tace proprio per codesto dominio di vitalità (velata), che resta una sapienza effettuale, e va cercata persino nei suoi echi che non possono dirsi soltanto appartengano ad una qualsiasi avanguardia, o a navigazione impropria. 

Un coraggioso rischio che giunge dalla provincia, una insorgenza inconciliabile con ciò che sa di retrivo fra molte efferatezze irte. 

Domenico Cara

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 45-46.




ìLa mia vita col Re Farouk

Lunedì 15 gennaio 1990 è stata ospite della trasmissione televisiva di Canale 5 «Maurizio Costanzo Show» la Principessa Irma Capece Minutolo, famosa nella sua qualità di cantante lirica e per la sua relazione con il Re Farouk d’Egitto, che riempì, a suo tempo, le cronache di tutto il mondo.

Nella trasmissione la Minutolo, oltre a parlare di una sua prossima tournèe di concerti in tutta Italia, si è soffermata sulla sua autobiografia dal titolo: La mia vita col Re Farouk, recentemente scritta con la collaborazione del poeta e scrittore Giovanni Salucci, per la cui opera la stessa ha avuto parole di grande stima e ammirazione. Ha ricordato di aver molto apprezzato la prima volta Salucci, per aver letto un suo bel romanzo di amore, La lampada rossa, edito dalla E.I.L.E.S. (Edizioni Italiane di Letteratura e Scienze) di Roma. Dopo la lettura del romanzo, la Minutolo ha voluto conoscere l’autore e l’ha pregato di aiutarla a scrivere la sua autobiografia. 

Incuriositi, siamo riusciti a procurarci in anteprima il testo di questa autobiografia, non ancora edita e per la quale sarebbero in corso contatti con un editore arabo, proprietario anche di una vasta rete di periodici e con un editore francese. Abbiamo letto il dattiloscritto nel timore, a dir la verità, di trovarci di fronte ad una storia piccante o addirittura scandalosa, come la vicenda in passato fu presentata dai mezzi di comunicazione di massa. Con enorme sorpresa, invece, ci siamo trovati di fronte ad una bellissima ed esemplare storia d’amore: quella di una ragazza sedicenne, che si innamora di un Re in esilio, di venti anni più grande di lei, e che lo segue per nove anni (fino alla morte di lui) con estrema dedizione e fedeltà, senza interessi di alcun genere, se non quello dell’amore e dell’abnegazione. 

Una ragazza che, dopo la prematura scomparsa del protagonista, si ritrova, per una serie di complesse vicende, sola, senza sostegno, alle prese con una dura lotta per l’esistenza, con un fardello pesante che, a quell’epoca, suonò soltanto disapprovazione e condanna. 

Senza risentimenti e senza rancore, ma con un ricordo denso di contenuti fortemente ideali, la Irma Capece Minutolo ha saputo trovare, nella musica e nel canto, una nobile ragione di vita. Al di là, però, della bella storia d’amore e dei tanti episodi curiosi e interessanti, abbiamo scoperto, nel libro, anche motivi di notevolissimo valore storico, come nell’incontro con Papa Giovanni XXIII (nel quale emerge la rivoluzionaria visione di questo grande Papa su alcuni contenuti dci suo pontificato e del ruolo della Chiesa tra gli uomini) e come nelle considerazioni sulla morte di Farouk, le quali non escludono l’ipotesi di un assassinio politico, In difformità alla versione ufficiale, che parlava di morte naturale per emorragia cerebrale. A questo riguardo è doveroso precisare che la Irma Capece Minutolo intende dissociarsi (lo dice chiaramente nel libro) dagli interrogativi e dai sospetti che Giovanni Salucci fa sorgere con la sua attenta ricerca e di cui lo stesso si assume la personale ed esclusiva responsabilità. Ancora una volta la Minutolo, con tale comportamento, dimostra di avere vissuto la sua particolare storia con serietà estrema, rifuggendo sempre dalla tentazione di dare ogni occasione agli altri, di chiasso, di scandalo e di strumentalizzazione della propria vita privata. 

Con la pubblicazione di alcuni brani, dietro l’autorizzazione degli autori Irma Capece Minutolo e Giovanni Salucci. intendiamo offrire ai nostri lettori, In anteprima, un documento di grande valore umano e storico degno di essere additato all’attenzione generale. 

LA FUGA DA NAPOLI 

La macchina che si allontanava da Napoli segnava il termine di un’altra fase della mia vita. La fanciullezza era veramente finita. Nelle due ore di macchina, da Napoli a Roma, gli occhi dell’anima rividero, come in una pellicola, il periodo passato fino allora e intravedevo quello avvenire. 

Ero felice di andare incontro al mio destino, ma il distacco reale da tutto il mio mondo abituale non fu indolore. Nell’istante preciso in cui presumevo che avrei soltanto sorriso, mi assalì una grande malinconia, mi calai nell’anima di papà. di mamma, dei miei familiari e vi vidi sconforto, tanta rassegnazione. Mamma 

sapeva, papà intuiva, gli altri osservavano lo svolgersi degli eventi. 

Nessuno di loro, comunque, mi aveva lasciato con la gioia della certezza, per me, di una vita migliore, lo stessa, pur nella consapevolezza del coronamento del mio amore, cominciai a chiedermi se ero stata giusta, generosa: se avevo compiuto tutto il mio dovere di figlia e di sorella o se non, piuttosto, avessi seguito semplicemente l’impulso del mio egoismo e della mia spregiudicatezza. 

Avevo abbandonato tutto per inseguire un mio sogno sincero e mi ritrovavo sola, abbandonata, a mia volta, nel momento più delicato del mio cammino, in cui avrei avuto tanto bisogno della solidarietà e del calore affettuoso dei miei cari. 

Il conforto di una macchina di lusso acuì, anziché attutire. la mia sensazione di abbandono. 

Non era colpa di nessuno. Avevo fatto le mie scelte. semmai, contro il volere e il parere di tutti. 

Era solo mia la colpa, se c’era una colpa nelle scelte, di cui in quelle ore avvertii la pesante responsabilità. A mano a mano che mi allontanavano da Napoli, si ingigantiva in me l’amarezza della privazione di innumerevoli ricordi, di cui, mentre sparivo, assaporavo. come forse non avevo mai fatto prima. la dolcezza. 

Ricordi che, forse, non si sarebbero ripetuti e di cui non avevo apprezzato, al momento giusto, il grande valore. Non avevo avuto il tempo di gustare la felicità che viene spesso dalle piccole cose e già ne era vivo il rimpianto. 

Le circostanze degli ultimi mesi erano state così insolite per me, tanto da cancellare, con violenza, la fanciullezza, già prima che fosse matura. 

Una conquista, una sconfitta, una condanna? Non lo sapevo ancora. 

Io andavo incontro al mio destino con malinconia, ma anche con tanta fede. Chiedevo perdono, nell’intimo, a coloro ai quali avevo fatto involontariamente del male e pregavo il cielo che non sfogasse il suo eventuale rancore su una creatura che, tutto sommato, aveva il solo torto di amare. 

Purtroppo, quando gli amori da rispettare sono tanti, è difficile indovinare a quale di essi spetti la precedenza. 

Io l’avevo data, per inclinazione spontanea, senza calcoli, a quello più gravido di incognite e di pericoli. […] 

* * * 

Alla fine di gennaio del 1958 tornammo a Grottaferrata dal lungo giro in Europa. 

Mancavano pochi mesi al compimento del mio diciottesimo anno di età. Aspettavo quella data con una certa ansia. ma non sapevo neppure io perché. Percepivo che doveva succedere qualcosa, ma che cosa con precisione mi sfuggiva. Avevo sentito dire che avrei raggiunto la maggiore età. Forse per la legge egiziana era così. Non lo so. Ma in Italia, allora, la maggiore età si raggiungeva al 21° anno. Eppure spesso quella data veniva indicata come una tappa importante della mia vita. Si insisteva tanto su quel particolare. che finii anch’io per convincermi, più per far piacere agli altri che a me stessa, che doveva essere per forza così. Prima di quella data, comunque, accadde un fatto che ha lasciato un segno nella mia vita. 

Ero seduta in un angolo appartato del giardino della villa, sotto l’ombra di una magnolia. Avevo voglia di stare sola. Ero presa da un momento di mestizia, di cui non sapevo rendermi conto. Spesso ero assalita, il più delle volte all’improvviso, 

da momenti di malinconia. Forse per un bisogno di fare. di tanto in tanto, nelle pause di una vita molto movimentata, il bilancio della mia esistenza. Avvertivo in essa, pur nella spensieratezza dell’età, dei vuoti, che mi spingevano a meditare, a riflettere sul mio passato, sul mio presente e sul mio futuro. 

Spesso non ero soddisfatta di me stessa. Vedevo nella mia vita ampie zone d’ombra, che nulla riusciva a dissipare, cercavo di allontanarle, tuffandomi maggiormente nelle distrazioni che il ménage con Farouk mi offriva. Ma, anziché allontanarle, la ricerca affannosa di diversivi, le ingigantiva, facendomi piombare in stati di scoraggiamento, di prostrazione, quasi di disperazione, dai quali mi riavevo con fatica. 

Quel giorno, sotto l’ombra di quella magnolia, stavo vivendo uno di quei momenti sconsolati, quando fui riportata ad una realtà completamente diversa da un’apparizione, che mi sembrò miracolosa, tanto la vissi intensamente e con uno slancio improvviso dell’anima, che mi fece ritrovare quasi le ragioni valide di una esistenza, che troppo spesso ormai avvertivo, dentro di me, come inutile, nonostante i bagliori e i colori di avvenimenti apparentemente ricchi di colpi di scena e di emozioni. 

Un bambino bellissimo, che poteva avere cinque o sei anni, spuntato come per incanto da dietro una siepe, stava correndo verso di me, mentre gridava «mamma, mamma, mamma». 

Non ebbi neppure il tempo di domandarmi cosa stesse succedendo, che già il bambino mi era saltato al collo, continuava a chiamarmi «mamma», mi baciava e mi carezzava con violenza. Sembrava che avesse ritrovato un tesoro perduto e che fosse convinto di non trovare più. 

Dopo avere sfogato la sua violenza con le carezze e con i baci, rimase aggrappato a me, deciso a non lasciarmi più. 

– «Mamma mia, mamma bella, perché sei stata lontana tanto tempo? Io ti aspettavo e tu non venivi mai, perché? Adesso non devi lasciarmi più. Me lo prometti?» 

– «Sì. te lo prometto, non ti lascerò più, bello mio. Ti voglio tanto bene. sai?» 

– «Vieni a giocare con me a nascondino?» 

– «Sì. mi piace tanto. Chiudi gli occhi contro quell’albero e conta fino a 10. Io mi nascondo e tu vieni a cercarmi». 

– «Non te ne andare però. No, no – ci ripensò -. Non voglio giocare a nascondino. Tienimi per mano. Passeggiamo insieme». 

Ero enormemente commossa. Le effusioni così forti e sincere di Fuad (si chiamava così il figlio più piccolo di Farouk, avuto dalla seconda moglie Narriman Sadek) mi avevano colpito profondamente. 

Pur nella rapidità delle sequenze dell’incontro inaspettato. in un attimo mi immedesimai tanto nel ruolo della vera madre, che riuscii a vivere le emozioni con la stessa intensità e la stessa purezza. 

Mi sentii sua madre e lo sentii mio figlio. Volli, senza mentire e senza dire la verità, vivere quei momenti, nell’illusione di una verità che non esisteva. Mi augurai, per un momento, che quella illusione diventasse realtà. Desiderai ardentemente di essere, per miracolo, sua madre e che Fuad fosse mio figlio. […] 

La fine di Farouk: morte naturale o assassinio politico? 

Per quanto mi riguarda, non ho alcunché da aggiungere alle dichiarazioni da me rilasciate al giornalista Alberto Libonati e pubblicate su «Gente» del 21 luglio 1975 e di cui ho già parlato nel capitolo Ciò che è stato scritto e detto sulla morte di Farouk. 

Consento, però, che Giovanni Salucci si soffermi su alcuni interrogativi e alcuni eventuali moventi, di cui si assume la totale ed esclusiva responsabilità, alla quale io sono completamente estranea. 

«Non intendo con queste mie parole accusare qualcuno. Pongo solo quesiti che, a suo tempo, né la Irma Capece Minutolo, né altri furono capaci o vollero porsi e che, invece, avrebbero dovuto, ognuno in relazione al ruolo svolto e alle rispettive competenze, sia in Egitto che fuori dell’Egitto». 

Tutto, solo per il rispetto che ognuno avrebbe dovuto avere per la verità e per la giustizia. 

Chi può, avrebbe il dovere, oggi, anche se a distanza di anni, di rispondere a questi quesiti. 

Egualmente, chi ne disponesse, avrebbe il dovere di fornire ogni elemento utile a chiarire i dubbi che da più parti sono stati avanzati sulla morte di Farouk e sui quali anche la Irma Capece Minutolo, ha, volontariamente o involontariamente, contribuito a far cadere il silenzio. 

A lei per prima faccio notare che con troppa sicurezza fece, a suo tempo, certe affermazioni, senza avere elementi inconfutabili dalla sua parte, se non il desiderio di evitare che si speculasse sulla morte di Farouk, come s’era speculato spesso sulla sua vita; di evitare che di nuovo Farouk diventasse motivo di chiasso e non di ricerca seria della verità; di evitare, ancora, che si offendesse il suo ricordo con la soddisfazione di curiosità morbose e con il piacere di sollevare problemi scandalistici, utili soltanto agli speculatori. 

In quel momento – posso capire – il suo stato d’animo le suggerì di buttare acqua sul fuoco, per non assistere al risveglio del veleno della maldicenza, della ingenerosità e della cattiveria. 

Ma, in seguito, passato quello stato d’animo dettato dall’amore, non era più logico che le capitasse di rivolgere a sé stessa qualche domanda, che allora, non era stata capace di rivolgersi? Non avendo dalla sua parte elementi inconfutabili di prova, per scartare con assoluta certezza l’ipotesi di un delitto, non le è mai sembrato di avere commesso dei torti verso Farouk per avere omesso di considerare, anche soltanto a titolo di ipotesi, la eventualità di un delitto? Non ha mai pensato che, Farouk per primo, avrebbe potuto disapprovare il suo comportamento, anche se in buona fede, per desiderare che si facesse piena luce su tutto, anche su semplici ipotesi? Si è mai chiesto di aver fatto o meno tutto il proprio dovere, cercando di soffocare sul nascere tanto categoricamente qualsiasi dubbio? 

Anche se tutto le lasciava supporre che non vi fossero motivi per pensare ad ambienti interessati a sopprimere l’ex Re, non avrebbe, almeno, potuto supporre che certe macchinazioni possono anche essere provocate (come spesso è accaduto per personalità molto in vista) da fanatismo, irrazionalità, gesto, cioè, inconsulto? 

Ammesso che motivazioni serie per l’assassinio di Farouk non esistessero, perché escludere che potessero esservene di riflesso: come strumentalizzazione, tanto per dirne una, di quell’assassinio proprio contro persone e ambienti che non avevano alcuna motivazione per perpetrarlo? 

Certi delitti, si sa, restano impuniti soltanto perché l’apparente assenza di moventi impedisce di percorrere il cammino giusto per arrivare ai colpevoli. Sarebbe doveroso, pertanto, che, in ogni caso, specie per le persone in vista, nulla venisse tralasciato per la individuazione di eventuali moventi delittuosi. 

Perché non considerare, ad esempio, il timore, da parte dei governanti egiziani dell’epoca, che la spartizione e la distribuzione, al popolo, delle proprietà e delle ricchezze della Corona, potesse suscitare la reazione e la ribellione dell’ex Re, che, attraverso suoi emissari segreti, avrebbe potuto rappresentare un ostacolo alle riforme? 

Tale ostacolo non sarebbe potuto diventare elemento sufficiente a giustificare una sua eliminazione? 

Ammesso pure che non si fosse trattato di ostacolo vero e proprio, non avrebbe potuto dar fastidio, ai governanti egiziani, la sola eventuale critica severa e condanna dell’operato, a cose fatte, delle autorità egiziane, da parte di Farouk? 

È proprio da escludere che potesse esistere gente interessata a venire in possesso di eventuali ricchezze di Farouk, per caso sfuggite alla requisizione delle autorità, dopo la sua destituzione e la sua condanna all’esilio? 

Le disavventure della guerra con Israele non avrebbero potuto risvegliare, nel popolo e in una parte dei governanti, nostalgie monarchiche pericolose per i fautori della rivoluzione? 

Non potevano esserci potenze straniere desiderose di ristabilire il precedente «status quo», anche per la salvaguardia di grandissimi interessi che la rivoluzione aveva messo in pericolo? Dinanzi a questo timore, non potevano i governanti ritenere più oppotuno sbarazzarsene, per evitare qualsiasi tentazione nostalgica? 

La stessa lotta, senza esclusione di colpi, tra mondo arabo e mondo ebraico, non sarebbe bastata a creare un terreno favorevole a tutte le insidie, a tutte le ipotesi e a tutti gli intrighi? 

La soppressione di Farouk non sarebbe potuta scaturire anche da un semplice calcolo sbagliato? 

Né era – mi pare – da scartare totalmente l’idea che, in una vita sentimentale movimentata, come quella di Farouk, potessero sorgere ragioni di risentimento, di rancore e di vendetta sia in campo maschile che femminile. 

E il suo mondo degli affari, non avrebbe potuto offrire l’occasione di incomprensioni, di delusioni, di prospettive non gradite, tali da spingere a soluzioni radicali e definitive? 

I moventi, dunque, potevano essere tanti, da non far escludere a priori, come capitò ad Irma Capece Minuttolo, le ipotesi di un assassinio politico. Senza lasciarsi prendere la mano dai sentimenti, la stessa avrebbe dovuto far funzionare di più il freddo e realistico raziocinio e non influenzare alcuno con le sue convinzioni, indubbiamente molto attendibili e autorevoli per l’esterno, dal momento che conosceva intimamente la vita, le confidenze di Farouk. Avrebbe potuto offrire, mentre non offrì, qualche spunto perché si esperissero approfondite indagini. Lei per prima scagionò tutti e insistette perché non si facesse nulla. Proprio lei che doveva essere una delle maggiori interessate acché non si escludesse alcuna ipotesi e non si lasciasse alcunché di intentato per fare piena luce sull’intera vicenda. […] 

– «Non voglio neppure sentirlo. Non farti prendere dalle fantasie anche tu. È morto di emorragia cerebrale e basta. Argomento chiuso. Se i familiari sono convinti di questo, perché non dovrei esserlo io? No. Non voglio neppure sentirlo. A suo tempo i Governi italiano e egiziano hanno fatto certamente il loro dovere». 

– «Non accuseremo nessuno. Porremo soltanto degli interrogativi». 

– «No. Non voglio». 

Si era quasi seccata che io avessi osato tanto. Non ho mai capito quella presa di posizione così dura. Forse ha avuto paura di poter andare incontro a dei guai. avventurandosi in un ginepraio pericoloso. Forse si ribellava al solo pensiero che Farouk fosse stato assassinato. perché la sentiva come una realtà enormemente ingiusta. 

Non è escluso, però, che abbia influito anche un altro fatto: più di una persona pare che, in quell’epoca, l’abbia dissuasa a parlarne, dicendole che si sarebbe potuta cacciare nei pasticci: che i governi italiano ed egiziano avevano fatto tutto ciò che c’era da fare: che era tempo perso recriminare sull’accaduto, che niente e nessuno avrebbe ormai potuto modificare. 

È stato proprio questo particolare che mi ha indotto ad insistere perché consentisse che certi interrogativi venissero posti. Tanto io li avrei posti egualmente, magari al di fuori del libro, giudicando ancora più severamente i suoi scrupoli e le sue paure. Così ha accettato, che io ne parlassi, assumendomene tutta la responsabilità. 

Dopo che Irma Capece Minutolo ha letto queste mie considerazioni, ha esclamato: 

«Io confermo che Farouk è morto di morte naturale. Comunque, ammesso che potessero essere formulati interrogativi, perché dovevo essere io a porli? Perché non lo hanno fatto coloro che erano tenuti più di me? Cioè le sorelle, la madre, le ex mogli, i parenti?». 

«Io – ho aggiunto e concluso – ti inviterei a riflettere. So che hai letto il servizio della giornalista Carla Pilolli, pubblicato su «Il Messaggero» del 24-12-1989, a proposito di un incontro avuto a Parigi con Fuad, figlio del re Farouk. Hai notato che lo stesso figlio ha affermato che il padre «è morto in una trattoria romana, in una maniera niente affatto chiara». Se anche il figlio ha dei dubbi, perché non dovrebbero averne gli altri»? 

Irma Capece Minutolo ha annuito, senza rispondere, ma è rimasta molto pensierosa. 

I. Capece Minutolo – G. Salucci




Sciascia e il cinema

Un amore ricambiato di Antonino Cangemi Il ventennale della scomparsa di Sciascia, caduto nel novembre dello scorso anno, non è passato inosservato. Lo scrittore di Racalmuto, di cui ancora oggi si sente la mancanza, è stato ricordato e celebrato, come era doveroso, in tutta la Penisola. Pochi, però, si sono soffermati sul particolare legame di Sciascia con il cinema1. Si tenterà di farlo con questo scritto che vuole offrire lo spunto per uno studio più approfondito.

È noto che Sciascia amava tanto il cinema. Una passione nata quando era ragazzo e frequentava con assiduità, assieme agli amici, la sala cinematografica del suo paese, che non doveva essere molto diversa da quella, colorata dalla fantasia di Tornatore, del “Nuovo cinema Paradiso”. Tant’è che Sciascia non solo esaltò il capolavoro di Tornatore ma, vedendolo (in una sala riservata dove si poteva fumare), si commosse. Quelle scene che mettevano in risalto, a volte in modo anche goliardico, l’infatuazione popolare per il grande schermo e per i suoi divi lo ricondussero, come Sciascia stesso ammise, agli anni dell’adolescenza e giovanili2.

Che il piccolo Nanà (così lo chiamavano familiarmente gli amici sebbene quel vezzeggiativo non lo entusiasmasse, ritenendolo “da ballerina”) dovesse diventare uno scrittore lo si poteva presagire: a scuola, i suoi temi rivelavano una scrittura rapida ed elegante. Più difficile era pronosticare, per un uomo nato in uno sperduto paese della Sicilia lontano dai centri della cultura che conta, il successo che lo avrebbe baciato. E d’altra parte, il giovane Sciascia è insegnante elementare prima, impiegato in un consorzio agrario dopo. Ma occorreva davvero un veggente per prevedere che il cinema si sarebbe alimentato dei suoi romanzi, traendone tanti film di successo. Tanto più ove si consideri che gli esordi letterari di Sciascia non lasciavano intravedere alcun rapporto con la settima arte. Le favole della dittatura (1950) è una raccolta di brevi prose allegoriche di ispirazione “rondista”, La Sicilia, il suo cuore (1952) una silloge di poesie, genere poi non più coltivato.

I film tratti dalle opere di Sciascia

Se già Le parrocchie di Regalpetra (1956) e Gli zii di Sicilia (1958) svelano alla letteratura un narratore dallo stile asciutto ed essenziale che si misura, con originalità ed estro, con temi civili, è il Giorno della civetta il romanzo che lo acclama al grande pubblico. Nel 1968 il romanzo di Sciascia viene tradotto in film da Damiano Damiani. La pellicola, intitolata come il romanzo, riscuote grandi consensi: magistrali le interpretazioni di Franco Nero, l’intransigente tenente Bellodi venuto dal Nord, di Claudia Cardinale, la sensuale e coraggiosa Rosa (entrambi premiati col David di Donatello), di Lee J. Coob, il capomafia che classifica l’umanità in “uomini”, “mezz’uomini”, “ominicchi”, “pigliainculo”, “quaquaraquà”.

Ancora oggi “Il giorno della civetta” è il film più noto tra quelli tratti da opere di Sciascia. Ma non è stato il primo. Nel 1967, infatti, con la regia di Elio Petri, venne realizzato “A ciascuno il suo”, ispirato all’omonimo romanzo di Sciascia edito due anni prima. Il film, che ha in Gianmaria Volontè l’interprete principale nel ruolo di un intellettuale che indaga su un misterioso delitto, fa incetta di premi alla ventesima edizione del Festival di Cannes. Non tutta la critica, tuttavia, lo encomia. Nel Dizionario Meringhetti3 si legge: «Forse il miglior film di uno dei più lucidi cineasti d’impegno sociale del tempo», non così è per Moravia4 che lo accoglie tiepidamente, evidenziando come in esso la denuncia appaia meno incisiva rispetto alla migliore tradizione neorealista.

Un altro dei più inquietanti “gialli” di Sciascia diventerà un film di Elio Petri, “Todo modo”, nel 1976, nove anni dopo di “A ciascuno il suo”. Ancora una volta è Gianmaria Volontè a vestire i panni del personaggio centrale, “il Presidente” che, nel volto e nella mimica, ricorda tanto Aldo Moro. In un albergo-eremo si radunano notabili democristiani col pretesto degli esercizi spirituali. Durante il soggiorno, tra alterchi e litigi, vengono misteriosamente uccisi gli esponenti più di punta del partito. Alla fine si scopre che l’assassino è Don Gaetano (Marcello Mastroianni), i cui delitti hanno lo scopo di liberare l’Italia dal potere democristiano, e che poi, a sua volta, si suicida.

Tornatore, intervistato sui suoi legami con Sciascia, ha spiegato che, secondo lo scrittore siciliano, il rapporto tra opera letteraria e film era vivificato dall’infedeltà. Un buon film può trarre spunto da un romanzo, ma perché viva di vita propria non deve riprodurlo pigramente, per quanto ne rifletta gli intenti e lo spirito, e ciò in virtù del fatto che cinema e opera letteraria utilizzano linguaggi differenti. Petri, ha ricordato Tornatore, era stato folgorato dall’immagine del rosario nel cortile dell’albergo Zafer, che si ritrova nel romanzo di Sciascia, dal quale però il film si allontanava, risolvendosi in un processo al Palazzo, quale l’aveva immaginato Pasolini.

Nello stesso anno (1976) un altro grande regista, Francesco Rosi, mette in scena un romanzo di Sciascia, Il contesto. Il film, “Cadaveri eccellenti”, stavolta più fedele al testo, è anch’esso un apologo del potere e fa riferimento alla strategia della tensione. Farà discutere molto la battuta, pronunciata nel finale da Florestano Vancini, «la verità non è sempre rivoluzionaria». La pellicola si discosta dalla tipologia del film-inchiesta tanto cara a Rosi e, sospesa com’è tra realtà e fantasia nei suoi richiami grotteschi, pare ispirarsi piuttosto al cinema di Buñuel.

Sciascia continuerà a ispirare il cinema anche quando, conclusasi la stagione dei film “politici”, i suoi romanzi, in cui i motivi civili assumono un ruolo nevralgico, sembrerebbero non adattarsi ai nuovi schemi narrativi che nel mondo della celluloide si vanno affermando. E così anche due tra gli ultimi romanzi di Sciascia hanno la loro trascrizione cinematografica.

Nel 1991 Gianni Amelio realizza “Porte aperte” dall’omonimo romanzo di Sciascia. Film introspettivo questo, come d’altronde l’opera di Sciascia, che si incentra sui conflitti di coscienza di un “piccolo giudice” chiamato, negli anni del fascismo, ad applicare la pena di morte. Il tema della giustizia, si ricorderà, è quello che assilla, più di ogni altro, gli ultimi anni dello scrittore siciliano.

Nel 1991 Emidio Greco firma “Una storia semplice”, l’ultimo romanzo di Sciascia, un “poliziesco” dove la parola mafia non compare. Sciascia confesserà, nell’onestà intellettuale che lo contraddistinse, che il fenomeno mafioso, come delineava in quegli anni, assumeva connotazioni tali da non comprenderne più la portata: era doveroso perciò non parlare di qualcosa di cui non aveva piena cognizione.

Sempre Emidio Greco, nel 2002, si confronterà con uno dei più riusciti e celebrati romanzi-apologhi di Sciascia, Il consiglio di Egitto, dove si intrecciano mirabilmente ricostruzioni storiche e motivi allegorici.

Fin qui i film tratti da romanzi di Sciascia. Ma, seppure di minor rilievo, si segnalano le produzioni cinematografiche che sono state ispirate da racconti dello scrittore di Racalmuto. Nel 1970 esce “Un caso di coscienza” di Giovanni Grimaldi dall’omonimo racconto, che verrà poi pubblicato nella raccolta Il mare color del vino (1973): una commedia ambientata in un paesino siciliano di infedeltà coniugali con l’interpretazione di Lando Buzzanca.

Nel 1976 “Una vita venduta” di Aldo Florio dal racconto “L’antimonio”, una storia che ha come sfondo la guerra civile spagnola.

Infine, per completezza, va ricordato l’interessante documentario di Davide Camarrone e Salvo Cuccia dall’eloquente titolo “Ce ne ricorderemo di questo pianeta. Un sogno di Sciascia in Sicilia”.

 

A questo punto è giusto chiederci perché le opere di Sciascia attrassero tanto il cinema. Due i motivi: uno legato al contenuto delle sue opere, l’altro alla forma espressiva.

La sua produzione letteraria si manifestò, in modo più compiuto, in due filoni, entrambi assai originali: il racconto-saggio che, attraverso la ricostruzione dettagliata e minuziosa, frutto di ricerche assidue, di vicende storiche e personaggi si sublima nell’affabulazione accattivante; il “poliziesco” che si insinua nel contesto del potere, nelle sue molteplici e sinistre rappresentazioni, ivi compreso il fenomeno mafioso. È quest’ultimo genere che attirò, in modo naturale, come una calamita, la fantasia dei cineasti, che si rivelò humus fertilissimo per la finzione filmografica.

La scrittura di Sciascia fu elaborata e semplice, ricercata e immediata. I suoi romanzi catturano anche per la cifra stilistica, studiata e attenta, che conduce a risultati stupefacenti. I fatti sono raccontati con una tecnica che assomiglia a quella cinematografica. Nelle sue pagine vi è una sequenza rapida (non a caso i suoi romanzi sono stati sempre brevi) di immagini, di primi piani, di descrizioni precise e puntuali, di rappresentazioni variegate e multiformi. Nelle opere narrative di Sciascia possono scorgersi quelli che Calvino, nelle sue “Lezioni americane”, individuò come i canoni dell’estetica letteraria: “leggerezza”, “rapidità”, “esattezza”, “visibilità”, “molteplicità”. Detto ciò, risultava facile trascrivere in copioni cinematografici i suoi romanzi.

Per certi aspetti i suoi testi avevano in sé qualcosa che li assimilava alle sceneggiature.

 

Sciascia sceneggiatore

D’altro canto Sciascia si cimentò pure nella sceneggiatura. A parte il film “Un caso di coscienza”, dove collaborò alla sceneggiatura, la sua esperienza più significativa e intensa è legata al film di Florestano Vancini, “Bronte.

Cronaca di un massacro”6. Vancini, nel ricostruire i fatti di Bronte, la rivolta dei contadini nell’agosto del 1860 duramente stroncata dai garibaldini, si rivolse a Sciascia. Ne nacque una proficua collaborazione: chi meglio del romanziere siciliano poteva descrivere il mondo contadino isolano, col suo talento narrativo e l’attitudine alla ricerca documentale? Il film, originariamente prodotto per la RAI, fu all’epoca accolto da polemiche per l’asprezza con cui vennero rappresentati i fatti, e destinato alle sale. La pellicola, che ora viene di tanto in tanto proposta nelle scuole, porta l’impronta della penna di Sciascia: in molti dialoghi si avverte l’anelito alla giustizia e la passione civile che gli furono propri.

 

Il saggio di Sciascia sulla Sicilia nel cinema

Sciascia non scrisse costantemente sul cinema, come accadde a Moravia e Del Buono, che tenevano una rubrica di recensioni, rispettivamente sull’”Espresso” e sull’”Europeo”. Tuttavia ci ha lasciato un lodevole breve saggio, “La Sicilia nel cinema”, raccolto nel volume, edito da Einaudi nel 1970, La corda pazza. Il saggio, risalente ai primi anni Sessanta7, analizza lucidamente il modo come la Sicilia è stata rappresentata nel cinema a partire dagli albori dell’arte dei fratelli Lumière ai giorni in cui venne scritto. Lo studio di Sciascia mette in luce come, complessivamente, sia prevalsa, nella finzione cinematografica, una Sicilia folcloristica, ricca di stereotipi e di luoghi comuni e si sofferma sui film più noti che hanno visto l’Isola come sfondo e motivo ispiratore.

Osserva Sciascia: «Vittorini, Brancati e Quasimodo offrirono, più o meno direttamente, i tre diversi temi siciliani al cinema. La Sicilia come “mondo offeso”; la Sicilia come teatro della commedia erotica; la Sicilia come luogo di bellezza e di verità»8. Di questi temi l’ultimo è stato quello più sfruttato dal cinema, con risultati deludenti. Ma intorno agli altri due temi sono stati girate le pellicole più interessanti, sulle quali Sciascia punta l’attenzione con notazioni intelligenti e spesso non tenere.

Il giudizio su “La terra trema” di Visconti, ad esempio, non è affatto benevolo. Sciascia non condivide, nella trascrizione cinematografica de I Malalavoglia, l’uso del vernacolo. «Perché il vernacolo (non si può nemmeno parlare di dialetto), un vernacolo così stretto e concitato da riuscire, in parte, di difficile comprensione agli stessi siciliani?»9. Verga, secondo Sciascia, elaborando una lingua che non si risolveva nel dialetto ma che da questo aveva tratto elementi essenziali nella formulazione delle frasi e nella sintassi, si era rivelato più “moderno” di Visconti. L’osservazione di Sciascia pone l’accento sullo sperimentalismo linguistico di Verga, non colto da Visconti, che è uno dei punti di forza de I Malavoglia e su cui, a mio parere, la critica letteraria non si è tuttora soffermata sufficientemente.

Riserve sono espresse anche sui due film di Germi “In nome della legge”e “Il cammino della speranza”. Il primo, tratto dal romanzo Piccola pretura di Lo Schiavo, ha il torto di cedere alla descrizione di una mafia redimibile che, riconosciuto il buon operato e l’onestà del pretore, gli offre il proprio appoggio per consegnare alla giustizia l’autore di un delitto. È una visione quella di Germi ottimista e superficiale «lontana dall’effettuale realtà del fenomeno». Germi, inoltre, compie un’operazione null’affatto encomiabile: esporta il West nella Sicilia e nella mafia («il buon pretore al posto dello sceriffo, la plaga del feudo in luogo delle selvagge solitudini dell’ovest»10). Il secondo, “Il cammino della speranza”, racconta l’espatrio clandestino di zolfatari grazie al favore di una guardia di finanza. Anche questo film è ispirato da un buonismo che impedisce un’indagine veritiera sulle realtà isolane. Scrive ancora Sciascia: «Come nel film “In nome della legge” era la mafia che abdicava alla propria legge per pacificarsi con quella dello Stato, nel “Cammino della speranza” è la legge dello Stato che scende a pacificarsi con i diseredati»11, e questo in nome di un ottimismo fuorviante.

Dello stesso regista Sciascia, invece, salva, “Divorzio all’italiana” «in cui la materia passionale è deliziosamente rovesciata sotto i segni dell’eros comico brancatiano» e «la Sicilia si fa teatro di una commedia della società italiana»12.

Note dolenti per Antonioni e Bolognini. Ne “L’avventura” la Sicilia fa solo da sfondo figurativo e l’Isola non è oggetto di disamina; “Il bell’Antonio”, invece, è una trascrizione sciatta del romanzo di Brancati che, giustamente, da Sciascia è considerato un autore profondo e complesso.

Il film che, nel saggio di Sciascia, riscuote un pieno consenso è “Salvatore Giuliano” di Rosi. La visione del film accanto a un gruppo di contadini, in quel tempo non abituali frequentatori dei cinematografi, gli suggeriscono considerazioni sottili e acute. Sciascia nota come in quei contadini le scene anche strazianti destano ilarità. Ciò viene spiegato per il fatto che la mancata dimestichezza col cinema da parte di quei contadini provoca lo stupore che si prova dinanzi alla realtà riprodotta da un mezzo tecnico non conosciuto: “il pubblico in effetti reagiva come chi non avendo mai visto uno specchio improvvisamente vi si trova di fronte”13. D’altra parte i contadini, pur non riuscendo a ben decifrare il contenuto di un linguaggio, quello cinematografico, che ignoravano, avvertivano che gli uomini e le scene del film non tradivano la realtà, non la deformavano. Da qui la loro partecipazione emotiva alle vicende narrate, il loro immedesimarsi nei personaggi del film, in particolare nella massa dei diseredati. Inoltre il capolavoro di Rosi era da loro apprezzato perché, malgrado il dubbio sulla strage di Portella della Ginestra, il mito di Salvatore Giuliano difensore dei poveri nella pellicola non veniva scalfito. Come? Attraverso un espediente usato dal regista: l’”invisibilità” del brigante; Salvatore Giuliano, infatti, non compare mai nel film, se non da cadavere. Scrive, appunto, Sciascia: «relegandolo nell’invisibilità Rosi ha reso più dura la condanna verso la classe dirigente che lo muoveva; ma al tempo stesso, per il pubblico siciliano, non faceva che confermare un mito»14.

Il saggio si conclude con un rilievo critico sul film di Lattuada “Il mafioso” che rivela uno Sciascia veggente. Nel film si rappresenta una Sicilia in cui tutto è mafia e la mafia si presta a diventare motivo di spettacolo. Sciascia si pone un interrogativo, che diventerà col tempo sempre più attuale: «noi che più volte ci siamo occupati della mafia, in libri ed articoli, siamo stati presi dal dubbio se il continuare a parlarne non finirà col rendere alla mafia quell’utile stesso che prima le rendeva il silenzio»15. Un triste presagio quello di utilizzare la mafia, anche nel cinema, per fini commerciali e, peggio, per scopi strumentali, di cui Sciascia avrà, negli ultimi anni della sua esistenza, lucida e amara consapevolezza.

Antonino Cangemi

Note

1 Su Sciascia e il cinema vedasi Cinema e letteratura- Leonardo Sciascia, Cinemazero, Pordenone 1993, e Leonardo Sciascia, a cura di S. Gesù, Catania, Maimone, 1992.
2 Su Sciascia spettatore si segnala E. Morreale, “Il cinema di Leonardo Sciascia”, in “Segno”, pp. 185-200.
3 P. Merenghetti, Dizionario dei film, Milano, Baldini &Castaldi, 1993.
4 A. Moravia, Cinema italiano, Recensioni e interventi 1944-2000, Milano, Bompiani, 2010. Vi sono raccolti tutti gli scritti dello scrittore romano sul cinema, da quelli giovanili alle recensioni su “L’Europeo” e “L’espresso”.
5 Le Lezioni americane: Sei proposte per il prossimo millennio, Torino, Einaudi, 1988, comprendono le conferenze che Italo Calvino avrebbe dovuto tenere, se non fosse scomparso prima, nel 1986.
6 Per la sceneggiatura del film “Bronte. Cronaca di un massacro”, vedasi www.culturaitalia.it.
7 Il saggio uscì originariamente in Film 1963, a cura di V. Spinazzola, Milano, Feltrinelli, 1963.
8 L. Sciascia, La corda pazza, Torino, Einaudi, 1970, p. 243,
9 Ibidem, p. 245.
10 Ibidem, p. 247.
11 Ibidem, p. 248
12 Ibidem, pp. 248 e 249.
13 Ibidem, p. 252.
14 Ibidem, p. 254.
15 Ibidem, p. 254.

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 17-22.




Il sentimento religioso 

di Virgilio Titone 

di Antonino Cangemi 

La lettura dei Diari di Virgilio Titone svela, tra l’altro, il profondo spirito religioso dell’illustre storico di Castelvetrano, che si accompagna, in modo naturale e coerente, all’umanità che ne ha contraddistinto l’intera esistenza. Un’esistenza segnata dalla passione per gli studi umanistici, non solo storici ma anche letterari, che condussero il Titone a pubblicare un’infinità di scritti mai aridi o astratti, ma sempre ricchi di partecipazione emotiva e spesso connotati, nella loro assoluta originalità, da una cifra espressiva polemica genuina e per nulla fine a se stessa. 

La vena di polemista si coglie anche in diverse considerazioni espresse nei suoi Diari1 su temi religiosi. Titone, infatti, ha vissuto la sua religiosità con quel pudore intimistico e quel legame alla tradizione che temeva la Chiesa stesse perdendo. Non solo: Titone, da acuto osservatore della società, coglieva in essa alcuni aspetti che denotavano un affievolimento dello spirito religioso, e di ciò si doleva accoratamente. 

«La chiesa è tradizione» osservava in un suo scritto Panfilo Gentile2, e Titone non solo condivideva ma, per specificare quell’assunto, sottolineava come dovessero conservarsi le ritualità delle cerimonie religiose e, con esse, le preghiere, che in nessun modo potevano essere modificate. «Non si può parlare a Dio solo col cuore o con il sentimento. È necessario che quest’ultimo si esprima con precise parole e, se queste san quelle antiche e venerate delle preghiere delle nostre madri, dei nostri vecchi, di intere generazioni che hanno confidato a Dio le loro angosce e speranze, quel colloquio non solo sarà possibile, ma acquisterà un carattere di sacralità che altrimenti non avrebbe»3. Ciò Titone notava richiamando l’intuizione del suo maestro, Benedetto Croce, per la quale ogni pensiero prende corpo in una forma espressiva. Lo stesso vale per la fede, che si esprime nelle parole delle preghiere. 

La preghiera, pertanto, assumeva, nella religiosità di Titone, un’importanza fondamentale. Che Titone si fermasse spesso nelle chiese a pregare è un fatto non solo noto a chi lo ha conosciuto, ma testimoniato da diverse pagine dei suoi Diari. Alcune malinconiche, come era d’altronde la sua indole: «Non vedo più a San Michele quei vecchi che vedevo una volta … Sempre più spesso mi trovo a essere solo a pregare. I vecchi li trovo al bar. Non li condanno e talvolta penso a un giorno in cui tutti abbandoneranno la chiesa e sarò sempre più solo … So che quel giorno non verrà. Ma ci penso, forse per pietà di me stesso. Sarò fermo allora nella fede che fu di mia madre»4. Altre attente al decoro e al rispetto della tradizione nei luoghi di culto, come la lettera del 20-3-1986 al cardinale Pappalardo: «Mi permetto di rivolgerLe una preghiera per la chiesa di San Michele, nell’omonima piazza, di cui sono parrocchiano. Forse sarebbe opportuno far sostituire le maioliche, di per sé pregevoli, del Cuore di Gesù e della Vergine, specialmente quest’ultima. La tradizione iconografica, che va rispettata, non la rappresenta come una languida attricetta americana»5. Altre ancora esortative e di stimolo per chi non crede. Così, per esempio, si rivolgeva all’amico sofferente e ateo, Augusto Guerriero6 : «Qualche volta entri in una chiesa. Guardi coloro che pregano: gente umile, poveri vecchi, povere vecchie, ragazzi e giovinetti che hanno negli occhi la malinconica dolcezza della loro età incerta. Crede che tutti si ingannino, che siano ingannate le migliaia di uomini e donne che nel corso dei secoli e delle generazioni succedutesi l’una dopo l’altra hanno pregato su quelle stesse pietre, in quella stessa chiesa? Non si sono ingannate. Chi prega è sempre nel vero: Dio è nella sua preghiera»7. 

È da notare, peraltro – e in ciò si manifesta la non comune umanità e il vivo senso dell’ amicizia del poliedrico, e spesso incompreso, uomo di cultura -, come Titone, a margine di diverse lettere indirizzate ad Augusto Guerriero, si soffermi sulla fede. L’ amore «suppone non solo la nostra anima, ma le altre anime capaci di amare, vive nel bisogno di destare una vita negli altri: una vita spirituale»8. Oppure: «Penso alle sue notti insonni e prego per lei. Perché Dio c’è e l’anima è immortale»9. È davvero singolare e testimonia una fede molto salda: Titone, nel contesto di missive che trattano di altre cose, tira fuori, divagando, inattesi argomenti per convertire l’amico; perché, ci si rende conto, ciò che più gli sta a cuore è offrire uno spiraglio alla sua anima. 

Titone, si sa, è stato un uomo concreto, nemico degli astrattismi e delle riforme quando queste si profilavano vacue e prive di spessore. Perciò non stupisce come egli rifiutasse taluni nuovi modelli che una chiesa burocratizzata tentava di imporre e rimpiangesse i vecchi parroci. «La figura dei vecchi parroci, fino agli ultimi loro giorni solleciti della parrocchia; di questi padri, amici, consiglieri, spesso umili e sorridenti e sempre ricchi di indulgente esperienza, è sembrata improvvisamente anacronistica. Si vuoi sostituire con i preti-impiegati, che i fedeli vedranno succedersi nel giro di pochi anni e non impareranno a conoscere o amare»10. Così come appare in linea col suo pensiero e col suo stile di vita, operativo e pratico, il rifiuto polemico di quello che lui definisce «egoismo altruistico»: «S. Ignazio di Loyola ha scritto che è più facile amare l’umanità intera che il compagno con cui bisogna dividere la stessa cella. Infatti accade che gli apostoli dell’avvenire spesso si mostrano egoisticamente indifferenti dinanzi alla sofferenza presente. La bontà, la carità, gli affetti veri e profondi si trovano invece in quelli che silenziosamente fanno ogni giorno il loro dovere né mai pensano di guardarsi intorno per cercare gli applausi degli ammiratori»ll. Queste pagine ricordano, per certi aspetti, altre, mirabili, che Titone, anticipando di decenni tesi oggi di dominio comune, scrisse contro l’ideologia. 

Ma sbaglieremmo, e di grosso, se considerassimo Titone, anche per gli aspetti legati al suo sentire religioso, un mero nostalgico del bel tempo andato, un paladino della tradizione difesa a ogni costo o un pervicace reazionario. È questo un errore in cui molti sono caduti e continuano a cadere: Titone è stato sì un conservatore, ma a modo suo; ha difeso le tradizioni, ma in quanto espressioni di valori. La sua complessa personalità, piuttosto che in posizioni preconcette, trova il suo punto fondante in un liberalismo aperto e ricco di umanità. 

Ciò vale anche per la sua religiosità. Il cristianesimo evangelico di Titone si manifesta nella pietà per gli umili e per chi vive in condizioni di disagio. Illuminante, in questo senso, è la sua approvazione per le posizioni di una rivista cattolica olandese sugli omosessuali (si badi: siamo nel 1970). La rivista edita in Olanda («L’Olanda è ancora la patria della tolleranza» )12 si interroga: «Che cosa debbono fare i genitori, quando il loro figlio o anche la loro figlia dicono loro di essere omosessuali?» E risponde: «Essi debbono accettarlo e appoggiarlo emozionalmente senza riserve». Titone commenta: «Tutto ciò è certamente più cristiano della condanna sia della Chiesa sia dell’opinione comune e naturalmente suscita un senso di scandalizzato stupore in molti italiani, che, qualunque ne siano le opinioni politiche o religiose, si mostrano ugualmente indignati di tanta umanità o comprensione». Qui sta tutta la carica umana e il radicato cristianesimo di Titone, come pure – è la stessa anima che la ispira – nella pietà che egli provava per i defunti abbandonati. Al sindaco di Palermo segnalava perché intervenisse: «C’è poi un cimitero, quello degli inglesi all’Acqua Santa, dove ogni giorno vanno scomparendo le lapidi e i monumenti tombali di quei poveri morti che nessuno ricorda»13. 

Antonino Cangemi

NOTE 

1 «Diari», a cura di Calogero Messina, Novecento, Palermo, 1996. 
2 Panfilo Gentile, a cui Titone era molto legato, è stato uno scrittore e un giornalista di rara efficacia, assai noto nella seconda metà del ‘900. Il suo saggio Democrazie mafiose (1969), rimane, purtroppo, attuale e sinistramente profetico. In esso Gentile, ispirandosi alle teorie elitarie del Mosca, dimostra come gruppi di potere formati da figure mediocri impongano, in una democrazia non matura, le loro scelte dettate da interessi di lobby e non della collettività. Gentile si interessò anche a temi legati al cristianesimo. 
3 «Diari» (1970-1976), p. 84. 
4 «Diari» (1920-1969), p. 212. 
5 « Diari» (1977-1989), p. 266. 
6 Augusto Guerriero, ovvero «Ricciardetto», suo pseudonimo, è stato uno dei più noti giornalisti italiani, oltre che uno scrittore di non comune cultura. Tenne su «Epoca», dal 1950 al 1981 (anno della sua scomparsa) la fortunata rubrica «Conversazioni con i lettori». 
7 «Diari» (1920-1969), p. 251. 
8 Idem, p. 273 
9 «Diari» (1970-1976), p. 250. 
10 «Diari» (1920-1969), p. 221. 
11 «Diari» (1977-1989), p. 107. 
12 «Diari» (1970-1976), p. 33. 
13 «Diari» (1920-1969), p. 252.

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 22-24.