Entusiasmo sconvolto 

Erano trascorsi tre mesi dacché ero uscito dal seminario. Avevo terminato gli studi teologici ed aspettavo una sistemazione: a ventiquattro anni, dopo aver dedicato il periodo più bello della vita agli altri, ne avevo diritto. L’avvenire, però, non si presentava roseo e le condizioni in cui versavo non erano, certo, le più adatte a prospeltam1i un futuro quale avevo desiderato e sognato durante i tredici anni trascorsi in seminario: l’ordinazione sacerdotale, fissata per il primo di agosto, era stata sospesa a mia insaputa. 

Volendo essere al corrente delle cause che avevano determinato una decisione tanto repentina ed inattesa quanto grave, il vescovo mi rispose: “Non siete voi, figliuolo, a scegliere: è la Chiesa che vi chiama; e voi dovete rispondere. Non siete voi a proporre, ma la Chiesa, io, a decidere. Aspettate. Potranno passare due, tre, quattro mesi, forse un anno. È un periodo di prova che voglio da voi. Lo chiedo io. lo chiede la Chiesa, lo chiede Cristo. È lo spirito del Concilio, questo”. 

La risolutezza, con cui pronunciò le ultime parole, mi fecero capire che non c’era da sperare se non che la ‘tempesta si calmasse. 

“Sono stati spediti tanti inviti, eccellenza … “, sibilai con un fil di voce, temendo di infastidirlo e di scatenare una reazione difficilmente contenibile. Tirò un sospiro profondo; avrebbe voluto investirmi con una valanga d’improperi, ma si frenava e controllava come non mai, come potei intuire dal rumore dei denti stretti e dalla labbra nervosamente compresse. “Trovate una scusa qualunque. Sapete scrivere bene, voi. Vi dilettate di letteratura e, come mi è parso di capire, le parole non vi mancano”, disse e continuò con amara ironia: “Inviate una poesia, magari. .. “. 

“Va bene”, risposi a fior di labbra. “Aspetterò come vuole il Concilio”. Baciai l’anello ed uscii senza chiedere la benedizione, cui teneva più della riverenza e della genuf1essione. Il vescovo divenne più cupo e nervoso; avrebbe voluto rimproverarmi, e l’occasione era buona, ma si controllò, chiudendo di nuovo violentemente le labbra. 

Fu un colpo terribile. Crollarono tutti i sogni e le illusioni che mi avevano creato in seminario e mi trovai in fondo ad un baratro. Dimenticai di colpo il discorsetto preparato per chiarire alcune divergenze e malintesi. Ero confuso e, quando lasciai il vescovo, la mente era schiacciata da due pensieri, uno più orribile dell’altro: resistere o dimettermi. 

“Io mi dimetto!” fu la prima reazione mormorata a denti stretti, mentre chiudevo la porta dell’anticamera. Attraversando una lunga sala riccamente tappezzata, ove su panche addossate alle pareti era gente in attesa d’essere ricevuta, incominciai un utopistico soliloquio ed una furibonda e spietata requisitoria contro il vescovo e quanti avevano, con calunnie e frecciatine, contribuito alla inattesa e drammatica decisione. Quando non riuscii a trovare una parola adatta per dipingere quel viso ipocritamente atteggiato ad un affettato pietismo e quegli occhi grifagni penetranti come lame, che avevo appena lasciato nello studio tappezzato di damasco rosso, ove, con semplicità e pacatezza mi era stato creato un dramma ed un trauma difficilmente guaribile, fui assalito da un altro pensiero, più terribile del precedente: ” Gli invitati… Mille partecipazioni… Un paese in attesa. Quanti soldi sprecati e gettati al vento!”. 

Camminavo adagio, trascinando i piedi sul pavimento di marmo levigato, lucido e cerato. Quanti erano ad attendere mi guardavano con una certa pietà: e, arguendo dal mio stato quanto il vescovo mi aveva detto, guardandosi negli occhi, mormoravano, tentennando la testa: “Povero giovane…… Il mio dramma aveva fatto il giro della diocesi, come potei desumere dallo sguardo dei preti lì presenti. Quegli stessi, che qualche giorno addietro, in occasione del diaconato, mi avevano osannato e festeggiato, non mi degnarono d’uno sguardo e d’una parola. Il loro silenzio e il sorriso malizioso con cui mi seguirono fino all’uscita mi fecero sentire un verme, un essere spregevole, reo eli non so quale delitto. Quelli, certo, non erano santi: di tutti conoscevo episodi poco edificanti, che, probabilmente, non erano giunti all’orecchio del vescovo. 

Mentre scendevo le scale di mam10, fui assalito da un altro pensiero, che m’inchiodò dov’ero, sospeso tra un gradino e l’altro: “E gli invitati che verranno per il primo di agosto dove li metto? Questo, forse, il vescovo non lo sa”. 

Mi venne il capogiro, la borsa mi cadde di mano e si fermò sul pianerottolo, a pochi gradini da me. Mi accasciai sulla ringhiera di marmo e, con la faccia tra le mani, immaginavo lo scontento degli invitati: alcuni avevano anticipato, altri posticipato le ferie, altri vi avevano rinunciato. 

Ero sommerso da questi ed altri pensieri, quando mi sentii scuotere per un braccio: “Se non stai bene, vattene al manicomio, così non metti nei pasticci chi non c’entra! Giacché ci sei” sappi che il vescovo ti ha sospeso l’ordinazione. Ora puoi riflettere di più e dedicarti alla fotografia, al disegno, alla musica, all’eloquenza, alla letteratura… Sappi che tutto questo è indegno per un prete. A riguardo il Concilio parla chiaro”. 

Come scosso da un lungo sonno, distinsi appena i lineamenti di quel prete, cercando di ricordame il nome. Finsi di non sentire e, senza rispondere, continuai a scendere lentamente le scale. 

Saliva allora una ragazza, pallida, emaciata, con le labbra livide e gli occhi incavati. I capelli, lunghi e spioventi sul petto ansimante, coprivano abbondantemente i seni appena abbozzati e compressi sotto una maglietta scura, semitrasparente, Raccolse la borsa, me la porse e, tendendomi la mano, sospirò: “Sono ammalata.. , Ho fame”. 

“Non darle niente e mandala via!”, sentii urlare dalla cima della scala. Solo allora conobbi il prete che mi aveva scosso e mi impediva di aver compassione d’un’infelice, forse, più di me , Mentre frugavo in tasca, fissai a lungo quegli occhi tristi, che seguivano il prete allontanarsi imprecando. 

“È il prete più cattivo, egoista ed avaro che io conosca. Non mi ha dato mai nulla e mi odia”, disse traendo un sospiro. Spostò i capelli vezzosamente sulle spalle e soggiunse: “Se non vi sentite bene, appoggiatevi a me. È inutile che vada dagli altri preti: lì sono tutti uguali, a cominciare dal vescovo. Eppure la domenica raccolgono le offerte per gli affamati della città”. 

Le poche parole bisbigliate tra un sospiro e l’altro mi sollevarono e gettarono nell’animo un raggio di speranza, Non ero solo a soffrire in questo mondo: avevo incontrato una creatura più infelice di me. 

Conoscevo bene quel prete: era stato il mio professore di lettere alle medie, era un saccente così presuntuoso che, nonostante i principi cristiani, avevo odiato profondamente. In quel triste momento mi vennero in mente tutte le bacchettate ricevute sulle mani, soprattutto quando avevo i geloni e mi facevano male. Per le sue torture passava per il professore più severo e formativo. Durante tutti gli anni delle scuole medie, nonostante sgobbassi maledettamente, per una parola mormorata e una battuta fuori posto, non mi aveva dato mai la soddisfazione d’essere promosso a giugno. Voleva che abbandonassi gli studi e che andassi via dal seminario. La sua avversione nei miei riguardi era tale che, quando giungeva 

il mio turno, pur di non vedermi, si sceglieva di persona i chierichetti, che dovevano servirlo mentre celebrava la Santa Messa. Per me, allora, era un’umiliazione gravissima, anche perché in classe, davanti a tutti i compagni, faceva notare e metteva alla berlina tutti quelli che, secondo lui, erano i miei difetti. Ma avevo un carattere forte e sopportavo tutto in silenzio. 

Feci cadere in mano alla ragazza le poche monetine che avevo e soggiunsi: “Adesso non ho più un centesimo, neppure per tornare a casa”. 

“Grazie”, disse, diventando rossa in viso. Mi fissò per un attimo stupita ed andò via, scendendo lentamente. 

Al pensiero di preparare altri stampati per avvisare gli invitati, di comperare altri francobolli e disimpegnare quanto già impegnato, mi sentivo impazzire. “Ha ragione Dante di subissarli tutti nell’inferno! Che razza infame!”, mormorai frenando un singhiozzo. In tasca non avevo soldi e quei pochi a casa non potevano essere utilizzati: li avevamo chiesti in prestito e dovevamo restituirli. Provai non poca vergogna ed imbarazzo nel trovarmi in quell’ingresso lussuoso e tornare nella mia povera casa, dove aspettavano in ansia i miei genitori, che avevano affrontato già troppi ed enormi sacrifici. A mezzogiorno o a sera, a casa si mangiava una sola volta e, dopo il primo piatto, il pasto era finito. La carne si mangiava solo se moriva qualche gallina e tre volte all’anno: a Natale, a Pasqua e durante la festa del Protettore. I contadini allora conducevano una vita molto misera e la farne era sempre in agguato. 

Con un bagliore improvviso, mi si presentò davanti agli occhi una giornata della vita che mi attendeva: sacrifici, umiliazione, farne. 

La mattina, quando il sole sorgeva e il vescovo si alzava, io ero già stanco di raccogliere covoni e spighe, di caricare carri di fieno, di paglia e di letame, di zappare. A mezzogiorno, dopo una stentata colazione di pane nero indurito al sole, dovevo raccogliere lumachini per pescare le anguille. La sera, dopo cena, mentre i miei compagni di seminario ed il vescovo sazi e spensierati si intrattenevano davanti al televisore fino a tarda notte sprofondati in soffici poltrone, io studiavo fino a che cadevo addormentato sui libri. 

Il vescovo, questo, non lo sapeva ed il Concilio non lo aveva suggellato. 

Antonio Orazio Bologna

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 61-64




 Ricordo di Giuseppe Ungaretti

Sì, lo ricordo bene: ho come dei flash-back che me lo riportano alla memoria in modo diverso e a diverse età: mie e sue. 

Lo ricordo quando, bambina, nel giardino di casa Saffi – dove si faceva musica di élite tra «dilettanti» – ma che dilettanti! – e il Trio di Trieste, non ancora molto noto, incantava con i trii di Beethoven che risuonavano dalle cucine al giardino – Ungaretti si appartava a volte con noi bambini, ma come isolato tra sé e sé in un mondo magico, fantastico: e cominciava a un tratto a declamare i suoi versi. Mi pare di risentirlo -la sua voce roca con intonazioni ancora toscane -lucchesi, per la precisione: infatti i genitori di Ungaretti erano lucchesi, anche se era nato ad Alessandria d’Egitto – recitare «Il Mughetto»: «Mughetto fiore piccino/calice di enorme candore/sullo stelo esile/innocenza di bimbi gracili/sull’altalena del cielo». E ancora: «Stelle»: «Tornano in alto ad ardere le favole. /Cadranno con le foglie al primo vento. /Ma venga un altro soffio/ritornerà scintillamento nuovo». Le sue parole mi sembravano davvero favole, ma favole nuove: il loro incanto era per me molto convincente. 

Ascoltavo affascinata quella voce rauca che sembrava arrancare alla ricerca delle parole, ognuna delle quali sgorgava nuova, come colta in quel momento in un giardino di fiori poetici, creata ex-novo; e, legando inconsciamente musica e poesia – due arti, cui fin da piccola ero consueta, essendo figlia di poeta e musicista – intuivo l’intonazione musicale della parola detta. Null’altro allora. Solo più tardi avrei scoperto consapevolmente il poeta Ungaretti, che diceva di sé: «Quando trovo/in questo mio silenzio/una parola/scavata è nella mia vita/come un abisso». 

Chi dice che i bambini non possono capire la poesia? Al contrario: io credo che la riconoscano a istinto, quando è vera. Forse mio unico merito è di aver riconosciuto Ungaretti vero poeta solo a pochi anni. E avere avuto il privilegio di conoscerlo, di ascoltarlo già in quel tempo lontano, ha fatto sì che egli avesse larga parte nella mia vita e nella mia formazione culturale, facendomi amare e inseguire quell’arte chiamata «poesia», che io già amavo e a cui sarei rimasta incline per tutta la vita. 

In quel salotto di casa Saffi si incontravano settimanalmente anche gli amici de «La Ronda», la famosa rivista letteraria seguita a «La Voce» che includeva Bacchelli, Barilli, Baldini, Cardarelli e tanti altri. Ungaretti, della «Ronda», non fece mai parte, tuttavia era buon amico di tutti loro, anche se da alcuni veniva molto contestato. Mentre «i grandi» si occupavano della cultura, le mie sorelle e io preferivamo giuocare con la figlia di Giuseppe Ungaretti, Ninon: era meno impegnativo! 

Fu anni più tardi – dopo aver letto Il sentimento del Tempo e molte altre cose di Ungaretti ed essermi documentata sull’uomo-poeta che avevo conosciuto bambina – che conobbi maestro. Frequentavo infatti le sue lezioni di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea all’Università di Roma, dove insegnò per molti anni al ritorno dal Brasile. Capii allora via via che il messaggio della sua poesia – della quale ogni tanto lo costringevamo, noi allievi, a parlare – aveva quasi sempre un carattere irrazionale, suggestivo, quasi magico, anche se ben ancorato a una realtà della quale l’A. non prescindeva. Ungaretti era ben convinto che uno scrittore, un poeta, appartiene decisamente a un dato momento storico, è incarnato in una certa realtà: donde, la conseguente necessità di impegno. Soleva dire: «Lo scrittore è sempre impegnato: se no, è uno scrittore inesistente». E continuava: «Non esiste poesia disimpegnata, anche quando la poesia sembra più libera, anche quando sembri non ascoltare se non la propria voce di poesia: la poesia è impegnata, legata ai suoi tempi, al destino suo, al destino degli altri uomini… E le fatali limitazioni che le si pongono non devono mai impedire alla poesia di conservare o di ambire di avere una universalità». Richiesto, una volta, se il poeta, nonostante i condizionamenti sociali, potesse a suo parere contribuire a rendere l’uomo consapevole della propria libertà, Ungaretti rispose, tra le altre cose: «Certo, se non ci fossero più poeti nel mondo, se non ci fossero più uomini che non credono che il mondo sia puro determinismo, la persona umana sarebbe finita, non esisterebbe più… Il valore della poesia è di rivendicare costantemente questa autonomia singola della persona umana e di fare sentire agli altri che va rivendicata perché altrimenti l’uomo sparirebbe come persona e diventerebbe una piccola parte di un ingranaggio meno importante degli ingranaggi che lui stesso ha trovato1». 

Oggi tutto questo può suonare come espressione estremamente individualistica: è accaduto per certi poeti russi, ad esempio, che pur condividendo e vivendo gli avvenimenti storico-politici del loro tempo e del loro paese, sembrano essere rimasti più «poeti» , più «profeti» e «narratori» della storia contemporanea, che non veri rivoluzionari e poeti della rivoluzione. Penso ad esempio a un Pasternak in Russia. Tuttavia non è così: proprio la universalità della qualità poetica della vita impedisce alla poesia stessa di farsi strumentalizzare in qualsiasi modo. Essa «è» di per sé e comunque. In tal senso è anche strumento: non altrimenti. A Ungaretti piaceva dire: «Io credo che la poesia ha una sua validità anche se la gente non la leggesse, perché c’è in tutti gli uomini, la poesia, c’è inespressa ed è quello che salva nell’uomo l’uomo che è singolo, che è distinto da tutti gli altri uomini, che è una cosa che vale per se stessa». 

Il messaggio della poesia di Ungaretti, dicevo, non era dunque messaggio indecifrabile come i critici di allora spesso ebbero a dire: bensì messaggio poetico autentico. Ungaretti stesso rifiutava critiche come quelle del Flora, che facevano di lui una specie di fondatore dell’«ermetismo» e rifiutava il termine di «oscuro», a lui spesso riferito, anche se affermava con foga che «dietro la parola e i suoi significati più precisi. più detti, c’è uno spazio illimitato, illimitabile, lo spazio del “segreto”: lo spazio, appunto, della poesia». 

Sovente, durante le sue lezioni, citava Leopardi, dicendo che questi, molto meglio di lui, aveva affermato che se la poesia non suscita nella persona che l’ascolta, o nello stesso poeta che dà la parola, questo senso che va oltre il «preciso» significato delle cose, oltre la realtà determinabile, non è poesia. Egli si considerava volentieri un continuatore del filone antico che faceva capo a Petrarca 

e a Leopardi… e, forse, in tal senso rappresentò anche quella «restaurazione culturale» promossa dal fascismo, che aveva teso a riportare la poesia a un certo ordine nell’ambito – anche figurativo e musicale – del neo-classico. Tuttavia Ungaretti fu essenzialmente il poeta che. disgregando il verso tradizionale e frantumando il discorso poetico in una serie di «monadi verbali sillabate», fu innovatore assoluto e diede, in un preciso momento difficile della storia letteraria in Italia, un impulso fondamentale, con un’azione di violenta rottura e di contestazione, dimostratasi delle più feconde. La poesia di Ungaretti cominciava ad apparirmi come una vera e propria riconquista critica del valore di ogni parola, un’illuminazione profonda della complessità della vita e della fantasia, primitività lirica riconquistata con grande sapienza. 

Lo ricordo anche bene, Ungaretti – forse più umano e meno «diabolico», anche se i suoi occhi piccoli e un po’ satanici sotto le sopracciglia folte e cispose mi spaventavano sempre – nella sua casa di Piazza Remuria, sull’Aventino nuovo, circondato dall’affetto e dalle premure della cara, silenziosa moglie francese e della figlia Ninon: nella quiete del primo pomeriggio, quando mi riceveva e, dalla sua grande poltrona di cuoio, mi dava – con apparente distacco – consigli per la stesura della mia tesi di laurea (preparavo infatti una tesi su Bruno Barilli, musicista, critico musicale e letterario, giornalista e compositore, un personaggio anch’esso da me conosciuto bambina e grande amico degli Amici al Caffè. Non era facile né comodo, Ungaretti, come maestro. E nemmeno come uomo. Nella sua casa viva di memorie, di affetti, di immagini, fra i suoi libri e i quadri degli amici, Ungaretti sembrava immerso in un continuo soliloquio e in continua meditazione. Una delle sue poesie ben rispecchia questi stati d’animo: «E quando squillano al tramonto i vetri/ma le case più non ne hanno allegria/per abitudine se alfine sosto/disilluso cercando almeno quiete/nelle penombre caute/delle stanze raccolte/quantunque ne sia tenera la voce/non uno dei presenti sparsi oggetti/ invecchiato con me/o a residui d’immagini legato/di una qualche vicenda che mi occorse/può inatteso tornare a circondarmi/sciogliendomi dal cuore le parole». 

Forse l’Ungaretti poeta e l’uomo Ungaretti – più vero, più scoperto, più aderente al suo messaggio poetico – mi si rivelava soprattutto quando riusciva a parlarmi del figlio molto amato, Antonietto, morto a San Paolo del Brasile nel 1939: lo ascoltavo e lo guardavo, in quei momenti rari, come chi è fatto oggetto e depositario di una confidenza affidata, grave, importante. In quei momenti il suo volto appariva segnato dal dolore e dalle vicissitudini, e anche dall’intensità della vita interiore: in quei momenti Ungaretti somigliava molto all’uomo del ritratto che un giovane pittore di genio gli aveva fatto, a come lo aveva visto: Scipione, nel suo bellissimo ritratto. Da quel dolore, antico, infatti, erano anche scaturite poesie di grandissima qualità. 

Lasciatosi andare alle confidenze, a volte mi proponeva di accompagnarlo in una delle sue passeggiate per i viali alberati intorno a casa sua, dove si recava ogni giorno quasi a inseguire lentamente i ricordi, «echi brevi che si protraggono in un inutile infinito…» Avremmo dovuto parlare della mia tesi, e invece… Le «usate strade» lo conducevano dove l’antico risplendeva nella memoria, dove il nuovo s’innestava nella luce del vivere quotidiano. Come da ragazzo passeggiava sulle rive del Nilo, ad Alessandria d’Egitto – mi raccontava dove era nato e nelle tiepide sere egiziane usciva quasi a seguire il ritmo di un’insolita soffocata poesia, così quell’abitudine non l’aveva più abbandonato. E a Roma scendeva fino al Tevere che – come tutti i fiumi importanti della sua vita – sembravano accompagnarlo nel suo lento e solitario vagare. Il Tevere gli era diventato familiare, «laborioso», non più mitico: al suo cospetto, davanti allo schieramento dei palazzoni nuovi che già allora sembravano sopraffare l’incantata sopravvivenza degli acquedotti, Ungaretti sembrava cercare ancora una misteriosa corrispondenza tra se stesso e il cosmo, l’armonia tra se stesso e gli altri. 

Si direbbe che il fiume sia stato come un emblema umano di Ungaretti. Tutta la sua vita si è svolta, a ben pensarci, sotto il segno dell’acqua: da quella del Nilo a quella della Senna, nei suoi anni di studente alla Sorbona di Parigi, dal Serchio all’Isonzo, negli anni della guerra del ’14-’18 e delle sue prime, straordinarie, «essenziali» poesie, scarne e rapide come quando si ha fretta di scrivere perché non c’è tempo da perdere e perché potrebbe non esserci un altro giorno per scrivere. Di quell’epoca sono la famosissima «Si sta come/d’autunno/sugli alberi/ le foglie». E anche: «Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro/ Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto. Ma nel cuore/ nessuna croce manca/È il mio cuore/il paese più straziato». 

Per anni, poi, lo persi di vista. Il lavoro, i viaggi mi impedirono una consuetudine più stretta. Tuttavia lo ricordo bene quando, per le celebrazioni in onore dei suoi 80 anni, nella Sala della Protomoteca in Campidoglio fu festeggiato e, commosso, andava dicendo che non confessava -né sentiva – di avere 80 anni, ma che aveva risolto il problema dicendo che aveva «4 volte vent’anni»! Di quel giorno – così come di un incontro con i giovani di una scuola nei dintorni di Roma – ho una breve registrazione, che forse a molti piacerà ascoltare per udire dalla viva voce di Ungaretti vecchio – così intensa, così sempre più roca, rarefatta e rada, così scavata e sofferta, quasi alla ricerca di vibrazioni sempre più sottili, di espressioni sempre più essenziali – le sue emozioni, il suo sentire. Ai presenti che gli chiedevano come facesse a ottant’anni a scrivere poesie d’amore, egli rispondeva sogghignando che «basta essere vivi nel cuore, per scriverle»… 

Francesca Boesch 

(*) Appunti per una conferenza tenuta presso l’Istituto Italiano di Cultura in Danimarca il 1°-12-’88 nel centenario della nascita del Poeta. 

1. Quel «lui» non mi piace, anche se è di Ungaretti, come non mi è mai piaciuto «Il zappatore» del Recanatese; visto però che è seguito da «stesso»… 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 29-33.




Casa Landau. Ricordando Carmelo Samonà 

La prima impressione – fortissima, peraltro, impossibile a ignorarsi cominciando a leggere il primo capitolo del libro di Carmelo Samonà uscito incompiuto e postumo (Casa Landau) è stata di “sorpresa”: ma non già di sorpresa come scoperta dell’Autore e tanto meno sorpresa o rivelazione di bellezza del dire e del descrivere: che, queste cose, erano prevedibili, in un libro di Samonà, quasi attese, dopo “Fratelli” e “n Custode”. Ma sorpresa, delle mie reazioni alla lettura: una risposta immediata da dentro, come un aver teso l’orecchio ad ascoltare eco di cose lontane e attualissime, risvegliate da una bacchetta di artista affinato, capace di resuscitare memorie, emozioni, sensazioni accantonate, sopite nel nostro io più profondo perché prive di riscontro nel normale quotidiano. Ho cercato di capire che cosa avesse provocato in me questa grande emozione, dopo aver letto solo poche pagine. E non ci sono riuscita. Ma mi sono ricordata di averne provata una simile, a diciotto anni, leggendo per la prima volta “Le Grand Meaulnes” di Alain-Fournier. Quel libro della gioventù ha lasciato in me una traccia che permane nel tempo, fonte d’indicibile inquietudine, dell’anima e al tempo stesso di una gioia immateriale, intangibile senza movente. Si diceva, un tempo: “ha fatto vibrare tutte le mie corde”. Ebbene, anche se la frase è in disuso, per questa “sensazione” non posso che richiamarla sotto le armi. È come un brivido sottile, che attraversa le fibre e riporta momenti dell’infanzia, della prima gioventù; è come una sintesi perfetta di quello che sentiamo e vorremmo esprimere, senza riuscirci; un insieme di profumi, di incertezze, di aspirazioni che portiamo dentro e che il più delle volte non riescono a trovare un loro sbocco: un anelito a capire sempre di più. 

“Le domaine inconnu”, le “domaine mystérieux” di Alain-Fournier, “comme un souvenir plein de charme et de regret”, fatto di silenzi, di ombre, di solennità, e al tempo stesso di mille odori mischiati tra loro, di un profumo profondo che tutto avviluppa e appare come segno tangibile di una presenza infinita quanto indefinita, è come l’entrata in un altro mondo di anime che cercano le loro risposte, che vogliono capire, che tremano di paura ma al tempo stesso portano in sé la forza, la spinta assoluta e irrinunciabile della necessità del conoscere, del sapere, del voler vedere. È un “domaine” nel quale non sembra di poter penetrare se non divenendo prima nuvole, raggi di sole, soffi di vento… Cui si accede da un grande viale… Il viale misterioso che porta a “Casa Landau” – che Samonà ci fa percorrere con un “brivido di paura”, con l’ansia del personaggio del suo romanzo ultimo – e un po’ come il viale che porta, in Alain-Fournier, al “domaine mystérieux”. Solo che, mentre il “viale” di Alain-Fornier, del quale non si intravede la fine, si suppone conduca a una dimora di fate, verso un incantamento, un incantesimo preparato solo per noi, nella migliore tradizione dei simbolisti, il “viale” di Casa Landau è come il sentiero della conoscenza dell’uomo moderno, del ragazzo che percorre il sentiero della vita, con le sue paure e la sua attrazione per il mistero, le sue scoperte sempre al limite dell’immaginazione, il desiderio, la necessità di conoscere, costi quel che costi, la rivelazione progressiva delle cose e del loro significato. Non ricerca senza scopo, curiosità: ma ricerca di chi, pur in età assai giovane, vuol capire; di più, che sa di dover cercare per capire la vita stessa e i suoi misteri percorrendo la via della conoscenza, che passa, sì, attraverso quello che si apprende dai maestri e nei libri, ma è soprattutto necessità di scoprire la verità sulle cose e sugli esseri umani – e i misteri che li avvolgono – giungendo da soli alla rivelazione dell’incognito. Questa la differenza essenziale nelle due letture, per me. E non a caso lettura, l’una, della giovinezza, con i suoi sogni senza forma, della maturità, l’altra, con la stessa pienezza di funzionamento delle antenne, che però nel tempo sono diventate anche chiave di lettura per la realtà. 

Non strana, dunque, la stessa emozione provata nei due casi, a distanza di tempo. Strano è invece che ci si accorga in maniera così vistosa, da farci ammettere che solo pochi, e veramente pochi, riescono a cavar fuori da noi il nostro “tutto”, in modo da costringerci a leggere le loro pagine con tutti i nostri sensi, con tutte le nostre forze e le nostre potenzialità: per arrivare a capire. Questo è certamente il caso di Samonà. 

Ho conosciuto poco Camlelo Samonà: e me ne faccio un cruccio; ma sono grata agli amici che me lo hanno fatto conoscere e so che devo loro molto. Credo di averlo intuito, comunque: e non posso che rammaricarmi di aver avuto poco tempo per conoscerlo meglio. per approfondirne la conoscenza: e mi rattrista fin d’ora pensare che. quando invecchierà, un “maestro di vita” come lui non sarà vivo, materialmente. Il sentimento che ha legato per anni Carmelo Samonà ad ognuno dei suoi amici, per motivi diversi e non sempre comprensibili ai più, testimonia nel tempo la presenza di un uomo speciale, di un essere umano speciale. di un amico speciale, di un uomo di cultura speciale. Anche in morte Samonà ha permesso ad amici e parenti. a quelli che aveva cari e che lo avevano caro. di stargli accanto per un funerale a dir poco inconsueto. 

Dalle parole “dette” ai funerali di Carmelo Samonà da Francesco Orlando – in mezzo a una strada. costretti, i presenti tutti, a reinventare un modo per trattenere il defunto tra loro, quasi per impossibilità di separarsene con la brutalità di un funerale “normale” – (e pubblicate recentemente sulla Rivista “Belfagor”) – mi è rimasto impresso questo: “Si potrebbe dire che. mentre a me è possibile cogliere l’importanza e il significato delle parti solo all’interno di un tutto, per lui era il valore del tutto che poteva passare solo attraverso quello delle parti”. Credo che questo fosse assolutamente vero, per Carmelo Samonà. 

Orlando ha ricordato anche una conversazione che, lui quattordicenne e Samonà ventiduenne, nell’immediato dopoguerra, ebbero in un bosco “incantato” di Gibilmanna, aggiungendo: “da quel bosco incantato in un certo senso non sono uscito mai più”. E quel bosco, sulle colline di Sicilia, era certo rimasto a far parte integrante anche di Carmelo Samonà. Di quella sua Sicilia di origine, infatti, di Palermo in particolare, portava segni antichi, tracce di civiltà molteplici. straordinariamente ricomposte e unificate al suo interno; nonché alcune parole inconfondibili, determinanti: e il “mistero”: un mistero fatto di sguardi, di saggezza e di accattivante attrazione, da “gattopardo” di grande intensità e spessore; di profumi, profumi della Sicilia, dalla zagara aspra e dolce al gelsomino d’Arabia… profumi, tutti, pieni di contrasti, avvolgenti, indimenticabili. 

Così come una sensibilità di qualità straordinaria e rara, un’intelligenza umana e intellettuale d’eccezione – vero “intelligere”, nel senso etimologico della parola: ossia, “capire”; mirabile fusione, in lui, delle energie del cuore e della testa. Così il suo scrivere, che nella incredibile capacità di sintesi non trascura il minimo particolare e lo fa assurgere a pienezza: anch’esso, vorrei dire, pieno di “profumi” evocatori. Il suo procedere asciutto e stringato, ma al tempo stesso ricchissimo, moderno e attualissimo, ma pur carico di tutto l’antico che la sua personalità porta dentro, senza mai indulgenze ma vivissimo d’immagini che denunciano una fantasia al colmo delle sue potenzialità, è raro esempio di prosa attuale, coltissima e semplice: come, del resto, il suo autore. 

Carmelo Samonà è stato portatore di valori tali da segnare chiunque lo abbia “incontrato”. Ed è testimonianza che durerà nel tempo di come tali valori – se sono tali e quando sono tali – sanno anche manifestarsi e possono essere recepiti dagli altri. 

La parola di Samonà è anche musica – quella musica che da Beethoven al più tardivo, amatissimo, Mozart, ha fatto sempre parte della sua vita: ma è, soprattutto, ritmo: quel ritmo che è l’esistenza stessa quando segue il suo filo conduttore. che come un concerto brandemburghese di Bach precipita nel dolore o sorride sul filo dell’ironia, dando il giusto senso alla vita e trovando verso di essa il giusto atteggiamento, sempre. La sua parola scritta è “sintesi”. 

Pochi hanno attraversato – credo – vicende gravi e prepotenti di richieste come quelle che si è trovato a fronteggiare Carmelo Samonà: eppure, il suo far rotta sui sentieri della vita non si è interrotto se non in morte, ne ha interrotto il filo del suo calore umano, delle amicizie, della sua attività intellettuale, della sua ricerca spasmodica e perenne di cercare di comunicare con gli umani, al di là di un’originaria riottosità caratteriale e di una grande istintiva riservatezza “antica”. In tutti i suoi libri troviamo questo sforzo immenso, sempre incarnato e spesso premiato, di trovare comunque, a prezzo di superamenti eroici, lo strumento giusto per comunicare con chiunque, ponendosi e proponendosi come “persona” anche di fronte al muro del silenzio e, spesso, della follia, in qualsiasi forma questa si manifestasse. 

Una parola ricorrente ha destato nel corso della lettura di Casa Landau la mia curiosità specifica e la mia attenzione: “inveramento”. Parola desueta, ora, ma un tempo cara al lessico filosofico di Croce e di alcuni suoi predecessori, certamente studiati da Samonà giovane. Samonà usa questa parola con frequenza inaspettata in lui, con una assiduità da “basso continuo”. quasi a ricordarci il trasporsi della sua fantasia eccezionale di ragazzo – imbevuto di romanzi storici, di Jules Verne, di Victor Hugo – il “calarsi” nella realtà di uno che ne ha paura, ma nondimeno non si rifiuta mai di scoprirla, di affrontarla, costretto dalle circostanze, “trascinato dai fatti, da alcuni fatti più forti di ogni immaginazione, di ogni possibilità di traslato o trasferimento” (p. 90). 

“Una specie di emendamento alla dottrina libresca si faceva luce nella mia mente”, ci dice a un tratto. “Forse non ero io che governavo dall’alto de “I miserabili” la successione degli eventi di Casa Landau. Forse questo potere non era in me, e non era neanche nella trama del libro, con tutte le modifiche e i mutamenti di rotta che potevo introdurvi. Qualcosa accadeva “di fuori”, e possedeva una sua forza. Probabilmente, alla dottrina della dipendenza della vita dai libri e delle circostanze degli individui da quelle dei personaggi fantastici. bisognava sostituire l’idea di una sintonia, d’una convergenza segreta e ininterrotta fra i due momenti; e la teoria di un disegno generale. continuamente in atto, che comprendeva i personaggi e i viventi (questi non più come proiezioni o reincarnazione dei primi ma come una loro progenie) poteva ancora sussistere”. Sembra di poter intuire in queste parole significati profetici, misteriosi, che potrebbero aver adombrato avvisaglie personali di morte come di avvenimenti oscuri e fatali riferiti alla storia che ci racconta. 

Due parole sulle “donne” di casa Landau. La figura della madre amata e desiderata ma, in un certo senso, non all’altezza del suo compito nei riguardi di un figlio tredicenne assai maturo per la sua età e, quindi, per lei problematico, pieno 

di “risvolti”, di “pieghe”, di sfumature, che vive una vita tutta e solo sua, mascherando e celando i sentimenti più profondi e i turbamenti propri della sua età di transizione alle due donne che gli sono parenti e a lui più vicine “fisicamente”. Estraneità e incomunicabilità, dunque, con coloro che meglio dovrebbero poterlo capire perché lo hanno quotidianamente sotto tiro. È una certa disistima, quindi, e per l’una e per l’altra, che diventa a tratti bonomia o quasi sufficienza, come a dire: «sono molto più “grande” io di voi». Per una madre, dunque, che vive in modo assai immaturo la separazione dal marito, – che accusa di “non esserci”, per il figlio, di fronte alla educazione del quale si sente inadeguata; e per una sorella in qualche modo “complice” della madre, e quindi distante, preoccupata di sé, molto più grande di lui, che denuncia antichi retaggi di una certa educazione e un desiderio evidente di prevaricazione nei confronti del fratello minore: un rapporto misto di sensi materni e di avversione, dovuto a non-comprensione. 

“Distanze” – come dire – dal protagonista del romanzo, che vive con i cinque sensi tesi e ricettivi come antenne di un radar, cui nulla sfugge nel corso di una giornata. Così Samonà, di cui si può dire che abbia messo a frutto in ogni istante della sua vita i sensi tutti di cui la vita lo aveva dotato: strumenti perfetti e affinati di cui usufruiva ininterrottamente, percependo con gli occhi, le orecchie, l’olfatto ogni più piccolo o debole cenno che provenisse dagli esseri umani. E trasmettendo a questi allo stesso modo. 

E “Miranda”, la “donna della finestra” di Casa Landau, che costituisce forse per lui nel racconto anche la scoperta della donna ma che, forse proprio perché “creatura angelicata”, “angelo caduto” – come dice il professor Landau al ragazzo – è dunque una “creatura anomala, dolorosa e goffamente sublime”. “È umana? Certamente è composita, e dunque è anche umana, ma fra i propri simili rimarrà sola e sperduta e sarà punita e reietta”. Quanti messaggi nelle parole di Samona… 

Alla richiesta di aiuto del Professor Landau il ragazzo risponde, decidendo di “arrischiarsi” ed entrando così “nel periodo più intenso e travagliato” della sua vita, l’incontro con la realtà e il suo coinvolgimento in una responsabilità che teme ma che non rifiuta. 

I vari personaggi – rispetto ai romanzi precedenti di Samonà – che si muovono nel libro Casa Landau sono, in un certo senso, una novità. Così come lo è, in qualche modo, lo spalancarsi delle tende quando il ragazzo, presa la sua decisione e “iniziato” alla stanza della misteriosa creatura femminile che è Miranda. immerge la stanza “nella luce del giorno”. Sembra quasi, a volerlo cogliere, che una tenue nota di speranza si insinui nelle vite dei protagonisti del racconto a dispetto delle situazioni e dell’ambientazione stessa del racconto, che fa presagire tacitamente la guerra alle porte e la probabile disintegrazione di tutti, salvo che del narratore, che assurge perciò quasi a simbolo della continuità della vita contro le nefandezze in predicato: “del professor Landau e di sua figlia non ho saputo più nulla”. Che cosa non ci fa sottintendere Samonà con queste poche, incisive parole, che potesse essere detto più esplicitamente? Tutti gli orrori della guerra, il massacro degli Ebrei – racchiuso forse solo nel nome ebraico di Landau – e quello che non può comunque essere descritto in parole… I rapporti stessi tra i personaggi, in questo romanzo, così intensi ed essenziali, sono incisi per sempre in noi con poche, straordinarie pennellate che dicono più delle parole… 

L’inizio del Capitolo XVIII, rimasto incompiuto alla morte di Samonà, resta quasi a testimonianza non casuale di un suo sguardo finale verso la “vastità” della vita e di tutti i suoi aspetti simboleggiata nella “villa”. Umori infiniti, decadenza e presenza umana “esperta”, qualità e abbandono: uno scenario complesso e grandioso ma, soprattutto, senza confini. 

“Io, per la verità non trovai mai il muro di cinta che mi aspettavo, ricoperto di edera e muschio, segno sicuro di un limite della villa”. Queste, le parole ultime di Casa Landau: che assurgono a espressione poetica assoluta, ma anche a simbolo inequivocabile della apertura di orizzonte, sconfinata, propostaci in vita e in morte da Carmelo Samonà. 

Per lui mi vengono alla mente le parole di Baudelaire ne L’Albairos. Queste, certo, gli si attagliano, anche troppo facilmente. Ma mentre l’albatros di Baudelaire ha ali da gigante, sì, ma che gli impediscono di camminare, di Carmelo Samonà si può invece dire che le sue ali, di apertura veramente eccezionale, non solo non gli hanno impedito di volare spaziando in orizzonti ai più preclusi per insufficienza di strumenti, ma gli hanno permesso di camminare tra noi come uno di noi; uno che però ci indica la via per il superamento degli ostacoli anche i più difficili, non perdendo mai il senso concreto della realtà e il senso dell’umorismo. e sapendo godere appieno di ogni moderna forma di comunicazione che possa aiutarci a vivere e a sopravvivere trasferendo anche la realtà nell’immaginario. 

Francesca Boesch

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 17-23.




La poesia di Buttitta

G. Giacalone, Saggio critico su Ignazio Buttitta, Lalli ed., Poggibonsi, 1987, pagg. 95. 

Rileggiamo con piacere il saggio su Ignazio Buttitta che è stato aggiunto alla ormai vasta fortuna critica del poeta siciliano in Italia e all’estero. 

Il volume fa seguito allo «Ignazio Buttitta» di AA.VV., Novecento siciliano, Catania, 1986. 

Giacalone in sette agilissimi capitoli inquadra l’inconfondibile personalità poetica del Buttitta. Nel primo capitolo l’Autore affronta l’aspetto etnologico (la sicilianità del poeta) e il noviziato poetico suo. Nel secondo tratta questo aspetto etnologico come carica sentimentale del suo impegno politico, mentre nel terzo è visto come base in cui il talento poetico del Buttitta comincia a prendere forma e consistenza di poesia universale. Nel quarto l’Autore rivive in un’ottica comico-grottesca la filosofia buttittiana che ci fa ricordare la posizione pirandelliana. Nel quinto capitolo vi ravvede un’epica popolare, e il sesto tratta del passaggio dall’epica corale alla elegia personale. Il settimo è dedicato alle componenti dell’arte di Buttitta. L’Autore affronta la sua critica con grande obiettività che gli deriva da due motivi inequivocabilmente fondamentali: il primo riguarda l’elemento etnico in quanto egli è siciliano come lo è Buttitta. Questa prerogativa permette al Giacalone di penetrare meglio di qualche altro critico non siciliano le gioie e le sofferenze, i sentimenti e le aspirazioni, le ingiustizie e le delusioni politico-sociali del popolo siciliano. Il secondo motivo riguarda il carattere del suo pensiero di critico creativo, proprio della sua attività spirituale, improntato ad una straordinaria intuizione intellettiva sempre sveglia e pronta a cogliere l’intelligibilità delle cose intuite. La critica del Giacalone affonda nella coscienza del poeta per cogliere il suo «fiducioso anelito alla giustizia sociale» che auspica al popolo della sua Sicilia. 

La poesia del Buttitta «non ha origine o ispirazione letteraria» né si rifà a «schemi o moduli della poesia dotta», non rientra neanche in quei movimenti storico-letterari e neppure in quella corrente del verismo o neorealismo, come può sembrare a prima vista, la quale è più conforme alle sue «strutture narrative». Nasce invece da quelle caratteristiche e condizioni, anche «contraddittorie», che sono il costume, il carattere, il sentire, il folklore, i quali esprimono fondamentalmente e inconfondibilmente quel tratto etnico sui generis che in una parola si definisce sicilianità. 

Osserva il Giacalone che la «qualità eccezionale» del Buttitta come poeta popolare è nell’avere non solo «elevato il dialetto siciliano a lingua d’arte», ma anche «nell’avere universalizzato la sicilianità del suo sentire», cioè nell’avere fatto materia del suo canto il popolo siciliano nella sua «millenaria e contraddittoria civiltà», perché, appunto, nell’urto di tanti popoli succedutesi storicamente in terra di Sicilia, si è formata e consolidata nei millenni quella coscienza popolare che, passata sotto il filtro della eterogeneità etnica dei popoli invasori, è intessuta e vive, sotto la spinta di strutture morali e sentimentali, del costume del popolo siciliano. 

La critica di Giacalone è un contributo non indifferente alla critica letteraria. Forse prima o contemporaneamente a lui erano state riconosciute alcune qualità trascendentali della poesia del Buttitta quali la «universalità», la «verità» e la «bontà» che altro non sono che qualità inerenti alla sua produzione poetica e costituenti quella che si può chiamare la sua «perfectio poetica». 

Ma merito del Giacalone è il riconoscere nella poesia del Buttitta altre qualità, quali la «spes» e la «deceptio» (delusione), che sono elementi costitutivi cioè i «sentimentalia» propri del popolo siciliano storicamente visto e impersonati nello spirito del poeta. Ora, le prime come le seconde qualità costituiscono quelle esigenze logiche e quei criteri della conoscenza in generale di cui non crediamo si possa fare a meno. Il critico mette assai bene in luce il sentimentalismo che si rivela in Buttitta come bisogno di comunicare col pubblico per denunciare le sue impressioni e le sofferenze per le ingiustizie umane e la solidarietà sua con chi soffre o è emarginato. Ma oltre a ciò non mancano note politiche intessute di sentimentalismo, come in «Sariddu lu Bassanu» fino alla satira antifascista. Ecco pochi versi di questo poemetto satirico dal ritmo di ballata popolare «La vita sì fu lorda / ora nuddu la ricorda; / travagghiari un vosi mai: / jocu, vinu, liti e guai; / e la sira li so figghi / comu fussiru cunigghi / si mittivanu a la gnuni / cu li testi a pinnuluni, / e, diuni, li nuccenti / cu la fami ‘nta li denti». 

La «Littra a una mamma tedesca», «La paci» e la «Strage di Portella» testimoniano il «più sincero e universale canto d’amore» e la coscienza di uomo che lancia il suo messaggio di pace e di odio per la guerra. Ma Ignazio Buttitta, non è solo questo. In «Lu silentiu» (1930) la sua poesia è pervasa di un’aspirazione continua alla lirica dotta in un’atmosfera di naturale musicalità. La poesia assurge a valore poetico universale nella poesia popolare ove lo stile epico-eroico ben s’intreccia con quello elegiaco che trova nel «Lamentu di Turiddu Carnevali» (1955) una storia di «Chanson de geste» medioevale che narra l’efferato delitto di mafia di Salvatore Carnevali. 

Il mondo poetico del Buttitta è il mondo della povera gente, dei vinti, che fu anche il mondo del Verga, e la sua poesia non può non essere carica di sicilianità emotiva, capace di trasmettere l’emozione e la commozione con la rievocazione di «memorie d’infanzia o antichi retaggi di miserie ataviche o ingiustizie sociali sofferte dalla povera gente, che nessun governo ha mai lenite». 

Buttitta vede che la storia e il progresso sociale nazionale non coincide affatto con la storia e il progresso sociale della sua Sicilia. Perciò il suo canto vuole essere un canto di denuncia del dramma politico, che è il dramma delle miserie e delle delusioni della Sicilia, dal quale il popolo siciliano vuole liberarsi; e del dramma linguistico, perché la contaminazione della lingua siciliana di italianismi e la parlata di cui fa uso il rapsodo siciliano, nell’intento di recuperare la civiltà siciliana, non è che un «documento di questa violazione estrema della sua sicilianità». Questa denuncia è il messaggio umano che il poeta ha lanciato non solo al popolo siciliano ma agli altri popoli della terra. 

Il Buttitta certamente non meritava l’esclusione operata da Francesco Brevini dall’antologia di poesia dialettale nazionale: «I poeti dialettali del Novecento», edita da Einaudi qualche anno fa. Tanto più che i motivi non sono affatto giustificabili, anzi, hanno scatenato una reazione a catena tra molti studiosi. Brevini si è giustificato affermando’ che «appesantisce l’opera di Buttitta la presenza di elementi sociologici che troppo spesso non riescono a diventare poesia». Ogni opera d’arte si struttura secondo un modo di sentire e di concepire nel quale l’autore cala i vari elementi di cui è intessuta la materia del suo canto. Per questo a noi non sembra affatto valida la sua giustificazione. Non per campanilismo, ma per obiettività di critica. Che dire allora della poesia di Dante, del Verga, del Baudelaire, di Victor Hugo e di tanti altri grandi maestri dell’arte poetica delle varie letterature del mondo i quali nella loro poesia includono anche non pochi elementi sociologici? Così la pretesa del Brevini vuole che tutti i grandi maestri siano egocentrici, ossia che non vedano e non sentano che se stessi, come il Petrarca, il Leopardi, o Gerard Nerval in Francia. Laddove intorno a loro vive e palpita la vita dell’umanità. 

Checché dica il Brevini con la sua critica soggettivistica, non è così. L’esclusione di Buttitta dalla sua antologia è una decisione che indica un limite culturale di estrema gravità e che, tra l’altro, non tiene conto del riconoscimento ufficiale della critica letteraria italiana che addita Buttitta come il più grande poeta popolare della letteratura italiana del Novecento. 

Vincenzo Bilardello

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 50-53




MEZZANOTTE A PORT SAID 

Era mezzanotte a Port Said 
quando sono arrivata. 
Piena di voluttà l’aria profumava 
d’Africa 
predominava la saccenteria 
inglese 
buttata lì come nulla avesse sconvolto. 
Tu eri ad aspettarmi. 
Intravedevo l’incanto tra mille scintille 
e ho goduto, assetata, nell’immaginario 
quella notte. 
Raccontata da te, Port Said 
era nella mia memoria, nei miei sogni 
nel ricordo della tua voce 
unito alla mia carne 
al sangue che scorreva nelle vene 
fecondo, 
a quell’estasi che passava dalla mente 
all’anima 
come verità sprofondata in una vita 
incendiata di rimpianti. Oltre la vita! 
Perché chi aspetta nell’infinito 
non ha morte. 
Così parlava con malinconia 
un amato fantasma 
ed io volevo restare 
immobile sulle tue strade, Port Said. 
In quel folle fascino che svuotava, 
che logorava la realtà del mio tempo 
ho ritrovato immersi nella verità antica 
amore, tenerezza, passione, gioia. 
E la tua vita e la mia vita 
asso lutamente 
parallele, lontane. 

Alessandro Anna Bellina

 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 50.




LA LUNA STASERA 

Distruggo la luna stasera. 
Vecchia meretrice pagata dal sole 
ci ha sempre ingannati! 
Ha illuso santi e poeti 
vergini e gatti in amore 
mosche che si sentono lucciole 
maiali che si credono in frac. 
Anch’io ho visto 
neri voli di corvi 
diventare colombe 
bocche bugiarde – gocce di rugiada 
cuori traditori – rubini splendenti. 
Distruggo la luna stasera. 
Non voglio che con moine scontate 
pretenda tutto più bello. 

Anna Bellina Alessandro

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 50.




 CHE VUOI CHE SAPPIA? 

Che vuoi che sappia il mio cuore 
dei pensieri lontani 
inquietanti 
che sono nell’aria stasera? 
Lui ascolta soltanto 
i suoi misteriosi battiti. 
Approfondirò il dolore che mi tormenta 
ma non alzerò la voce per implorare 
una lacrima al destino. 
Voglio che un compagno invisibile 
straordinario 
mi porti nella valle della speranza. 
Là sentirò arrivare tutti i venti: 
il libeccio profumato di mare 
il voluttuoso scirocco 
l’euro lieve che sa di desideri. 
L’oggi già domani 
il resto fermo nel sogno. 
Tu, ruffiana realtà, 
mani rugose sazie di cattiveria, 
spegnerai il faro. 
Resterò sola nell’onnivora folla 
patria crudele della mia anima. 

Alessandro Anna Bellina

 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 50.




IL DONO 

Vorrei donarti l’anima mia 
perché tu veda sempre dentro di me 
e quando il mondo più non ci sarà 
tu senta risuonare la sua voce. 
Pur spento il mondo 
resta perenne l’ascolto del destino 
che dura 
come onda che ci segue 
nell’attesa infinita; 
pur scomparsa la luce della vita 

Pasqualino Barreca

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 48.




Per salvare una pagina di storia e d’arte in Sicilia: la pittura di «regime» di Alfonso Amorelli

A quasi quarant’anni dal lontano novembre del 1969 quando, come egli stesso ebbe a dire nel suo diario Il tempo vola, raggiunse «gli dei, spero quelli veri», sembra che da più parti un rinnovato interesse prema per aggiungere nuovi tasselli al mosaico della biografia artistica di un pittore palermitano forse troppo presto caduto nell’oblio, Alfonso Amorelli (Palermo 1898-1969)1. 

Alla propria pittura, colta ed ingenua al contempo, ma sempre elegante ed armoniosa nel segno, «chiara, gioiosa» nella succosità degli arditi contrasti cromatici, spesso ironica nell’ intenzione, per circa un cinquantennio, dagli anni ’20 allo scorcio degli anni ’70, l’artista chiede di essere «l’unico godimento», il solo spensierato «gioco», capace di aprirgli un varco nel dolore del mondo durante gli anni soffocanti delle due guerre mondiali e dei rispettivi dopoguerra, permettendogli così di continuare a vivere. 

L’iscrizione nel 1913 al Regio Istituto di Belle Arti gli permetterà di fruire dell’insegnamento dei più autorevoli maestri palermitani di inizio secolo, quali Ettore De Maria Bergler ed Ernesto Basile, ma saranno i suoi numerosi viaggi, le otto volte in cui attraversa l’intera Europa in macchina, a consentirgli un’approfondita conoscenza dei movimenti e degli esponenti più significativi dell’arte italiana e mitteleuropea novecentesca, individuabili in filigrana nell’intera sua produzione artistica. 

Dietro i suoi pastiches culturali sono stati rintracciati nomi di noti artisti extraisolani, dai macchiaioli Mancini, Spadini e soprattutto Fattori e Signorini, ai meta fisici De Chirico e Carrà, da Balla a de Pisis, a diversi protagonisti di «Novecento», ma anche di respiro europeo, dai fauves Matisse e Dufy, agli espressionisti Schmidt-Rottluff, Kirchner, Heckel e da Cézanne a Chagall. Ma la grandezza di Amorelli consta nell’operare una distillazione frazionata di queste componenti culturali rielaborandole attraverso l’apparente scioltezza di un tracciato segnico che riesce a sintetizzare mirabilmente l’intimo significato delle cose. 

Quando, intorno alla metà degli anni venti, Amorelli, terminati gli studi all’Accademia, cominciò la sua attività artistica, due erano sostanzialmente le strade che in termini di scelte stilistiche potevano essere intraprese da un giovane smanioso di modernità, l’adesione all’arte futurista o a quella di stampo novecentista. 

Pur partecipando alle mostre organizzate da Pippo Rizzo e dal gruppo dei futuristi siciliani, Amorelli non aderì mai alle formule futuriste accostandosi invece abbastanza precocemente alla sintassi del movimento artistico denominato «Novecento» «con una pittura che, da un lato, sembra voler riprendere nella nettezza geometrica della composizione alcune soluzioni di Casorati e, dall’altro, indulge a una maggiore vivacità cromatica sul modello dell’opera di Carena»2. 

Nel marzo del 1923 veniva, infatti, inaugurata alla «Galleria Pesaro» di Milano una esposizione di sette pittori che, pur provenendo da esperienze artistiche diverse spesso legate alle grandi avanguardie storiche, si ritrovavano nella comune aderenza al generico principio di rappel à l’ordre, attuando cioè in pittura il recupero di temi e modi espressivi della grande tradizione italiana del passato, specie del ‘300 e del primo ‘400. 

Ne nacque un’arte «novecentista», severa e arcaizzante, dalle plastiche forme e 

dai limpidi volumi, dalle luci nette e dai colori compatti, permeata da una sorta di realismo magico, talmente in linea con i dettami della retorica fascista, che, pur proclamando la propria indipendenza, apparve ben presto come arte di regime, arte di Stato. 

L’adesione convinta, anche se a tratti eterodossa, di Amorelli al gruppo, così come quella degli altri novecentisti isolani, durerà pochi anni non superando il limite del decennio, ma negli anni trenta, quando comincerà la sua attività di decoratore parietale per ordine del regime, attingerà motivi e forme proprio dalla poetica di «Novecento». 

Al 1932 risale il primo articolo sulla pittura murale di Mario Sironi, tra i più convinti sostenitori del ritorno alla grande arte italiana e della necessità di creare un’ estetica fascista, cui seguirà nel 1933 la pubblicazione del Manifesto della pittura murale, firmato, oltre che da Sironi, anche da Carlo Carrà e Achille Funi. 

Il regime, rispolverando non a caso una tecnica tradizionale quale 1’affresco, attribuiva alla pittura murale un valore morale e una funzione di propaganda sociale ed educativa, in grado, attraverso figure monumentali e architetture romaneggianti, di condurre le masse al consenso. 

Dopo la decorazione della sede della Triennale di Milano nel 1933, anche in Sicilia si susseguirono esperimenti in tal senso e in quegli anni Amorelli, come Duilio Cambellotti, Arduino Angelucci e altri, fu chiamato ad affrescare spazi pubblici, in particolare 1’Aula Magna del Rettorato (ora Facoltà di Giurisprudenza) e il vestibolo d’ingresso alla palermitana Galleria delle Vittorie dal lato di via Maqueda. 

Mentre l’affresco della sala del Rettorato raffigura un tema della storia passata, l’epopea di Garibaldi a cavallo tra i Mille, i cui gesti enfatizzati come in un melodramma teatrale sono asserviti all’esaltazione delle aspirazioni patriottiche risorgimentali, le pareti della Galleria delle Vittorie celebrano un evento di storia contemporanea, la nascita dell’impero coloniale fascista in Etiopia. 

Lo stesso giorno in cui venne inaugurata la Galleria, il 2 ottobre 1935, Mussolini dichiarava guerra all’Etiopia dal balcone di Palazzo Venezia, auspicando così un novello impero sullo stile di quello dell’antica Roma. TI trionfo venne ufficialmente comunicato dal Duce al popolo italiano la sera del 5 maggio 1936, seguito dalla proclamazione dell’ impero d’Etiopia, esattamente il 9 maggio 1936, probabile termine post quem per la datazione degli affreschi di Alfonso Amorelli alla Galleria delle Vittorie. 

Le immagini raffigurate, allo stato attuale talmente in degrado da risultare . pressoché illeggibili, possono essere ricostruite solo con l’ausilio di alcune foto d’epoca, datate appunto 1936 e appartenenti all’archivio storico fotografico di Dante Cappellani, oggi assemblate negli studi di «Stanze di luce», società addetta alla catalogazione, conservazione e restauro di beni fotografici. II collage fotografico fa scorrere come in una sequenza cinematografica tutti i valori e i miti della retorica fascista, l’esaltazione della patria, della famiglia, del lavoro, la celebrazione della guerra e la «riapparizione dell ‘Impero sui colli fatali di Roma». 

Nell’affresco sulla parete sinistra dell’andito troviamo uomini nudi su magnifici destrieri dalla code e criniere fluenti, che ricordano i cavalli di De Chirico, soldati in trionfo con le insegne imperiali, una Vittoria alata con in mano una serto di alloro pronta ad incoronare il vincitore, e, sullo sfondo, monumenti di Roma, dal Vittoriano, divenuto dopo la prima guerra mondiale tomba del Milite Ignoto e, come tale, Altare della Patria, ad una colonna onoraria, ai resti del colonnato di un antico tempio. Seguono operai a torso nudo dalla muscolatura tesa nello sforzo di spingere un carro armato e ancora il paesaggio roccioso e arido dell’ Abissinia con un etiope che ha ai polsi catene spezzate, nell’intento di far risaltare l’occupazione dell’Etiopia come guerra di liberazione. Sul margine sinistro la scritta Vittorio Veneto funge da ideale collegamento tra la famosa battaglia combattuta tra il 24 ottobre ed il 3 novembre del 1918, che segnò la fine della prima guerra mondiale sul fronte italiano con la disfatta dell’esercito austro-ungarico, e la vittoriosa impresa coloniale operata dal fascismo. 

Sull’affresco di destra momenti di lavoro umano nelle officine, nei campi e nei cantieri navali enfatizzano la fatica degli uomini e degli animali nel supremo sforzo della conquista della natura, del progresso e della civiltà, alternandosi a figure femminili portatrici di ceste, immagini di maternità. La donna dal seno scoperto che tiene in grembo due bambini sembra una riproposizione della Madre Terra, la Saturnia Tellus, uno tra i rilievi più belli dell’Ara Pacis Augustae, eretta in Campo Marzio tra il 13° e il 9° secolo a. C. per celebrare le vittorie di Augusto e la pace portata nell’Impero, e che proprio in quegli anni veniva ristabilita dal governo fascista. 

Il linguaggio di «Novecento» si palesa nel «realismo neomichelangiolesco» dei corpi dei lavoratori, arsi dal sole e quasi imprigionati nelle forme titaniche dell’eroe greco «di un realismo nitido e limpido, esaltato da un tessuto cromatico in cui primeggiano ocre e terre di Siena»3, nella sublimazione del quotidiano. Un muralismo dai toni retorici, celebrativo della mitologia nazionalista e di una romanità di cartapesta, in linea con i valori epico-popolari cari alla mitopoiesi fascista, cui Amorelli, pur mostrando una tecnica consumata, non sembra aderire sentimentalmente. 

Agli inizi degli anni Quaranta Alfonso Amorelli riceve un’altra importante commissione da parte del governo fasci sta, il compito cioè di affrescare gli edifici pubblici e di culto di alcuni borghi rurali costruiti in varie zone dell’isola nell’ambito della vasta attività di colonizzazione, il cosiddetto «assalto al latifondo», operata dal regime per il ripopolamento delle campagne siciliane. 

La politica economica della dittatura, volta a far raggiungere al Paese l’indipendenza dalle importazioni straniere e a ridurre i costi, spingeva i costruttori ad avvalersi di materiali e tecniche costruttive locali abolendo il superfluo specie nelle decorazioni. 

Nel 1940, nasce nel Comune di Trapani il borgo «Amerigo Fazio», su progetto dell’architetto Luigi Epifania, con una chiesetta all’interno dedicata, come già prima la Galleria delle Vittorie, alla «Beata Maria Vergine della Vittoria»4. Nel suo studio sulla colonizzazione del latifondo siciliano Maria Accascina, riguardo all’opera decorati va di Amorelli, cita solo gli affreschi dell’edificio di culto proprio di Borgo Fazio fornendoci una preziosa testimonianza del soggetto raffigurato: «Nella chiesa il candore delle pareti è appena variato dai tagli delle arcate e delle linee delle paraste che ascendono agli oculi e ne ricadono come parati. Solo nell’abside, seguendo la tradizione meridionale, interviene, con la sua nota vivida di colore, un affresco del pittore Amorelli rievocante la Vergine col Bimbo che accetta l’offerta del borgo»5. Purtroppo dell’affresco, distrutto dall’incuria degli uomini, così come l’intero borgo, rimane oggi appena visibile un piccolo brano, raffigurante un uomo affiancato da un cane con esili alberelli stilizzati sullo sfondo, e in alto il piede di un angelo inginocchiato e i terminali delle due ali. 

Nello stesso torno di anni vennero edificati altri piccoli centri, tra cui Borgo Rizza, progettato da Pietro Gramignani nel comune di Siracusa, e Borgo 

Bonsignore, su disegno di Donato Mendalia ad Agrigento, arricchiti dagli affreschi di Amorelli, come ricorda la nipote del pittore Maria Teresa Amorelli: «Appena arrivata a Palermo trovai Fofò impegnato nella preparazione degli affreschi per alcuni borghi rurali, progettati dall’ archi tetto Luigi Epifania, nell’agrigentino, nel trapanese e nel siracusano (Borgo Bonsignore, Borgo Fazio e Borgo Rizzo) e fui molto felice di posare per qualche bozzetto. Il suo tratto era immediato e la mia posa era di breve durata»6. 

A Borgo Bonsignore le pitture che decoravano la casa del Fascio sono del tutto scomparse, rimane invece l’affresco absidale della chiesa, incautamente restaurato nel 1977 da un certo Alfonso Marino, che rappresenta, come già nel centro rurale trapanese, l’omaggio del Borgo alla Vergine. Nel registro inferiore sono, infatti, uomini in atto di riverenza e donne con ceste di frutti sulle spalle o sul capo che richiamano la portatrice dal seno scoperto della Galleria delle Vittorie, mentre in alto la Vergine con il Bambino sono affiancati da due angeli inginocchiati verosimilmente nella posizione dell’angelo di Borgo Fazio di cui rimane solo un frammento. 

A proposito dell’impegno decorativo di quel periodo, lo stesso Amorelli, parecchi decenni dopo, nel suo diario Il tempo vola scrive: «In Sicilia nascevano i borghi rurali. Ricevetti l’incarico di decorarne alcuni. Chiese, case del fascio. Mancava acqua, strade e la luce; ma non gli affreschi ed il fondatore dell’impero a cavallo», accompagnando il suo pensiero con un interessante disegno stilizzato raffigurante in basso un uomo a cavallo con la spada sguainata e in alto una Madonna col Bambino tra due angeli, ovvero la medesima iconografia utilizzata per affrescare le absidi delle chiese dei borghi Fazio e Bonsignore7. 

Nulla, invece, perdura dell’attività decorativa del pittore a Borgo Rizza, vicino Carlentini, ormai abbandonato e distrutto. Fortunatamente parecchi anni fa un hobbista del luogo, appassionato di fotografia, ha voluto immortalare i pochi resti degli affreschi allora visibili. L’immagine mostra una sorta di collage di iconografie amorelliane, in primo piano un uomo all’aratro con due buoi aggiogati, del tutto identico all’analogo soggetto della Galleria delle Vittorie, una madre col figlio e un altro uomo piegato, forse intento a togliere dei massi per agevolare il dissodamento, mentre sullo sfondo si intravedono un acquedotto romano e contadini al lavoro nei campi. Sono scene di vita reale dove uomini e animali condividono l’esistenza quotidiana in una esaltazione dell’etica del lavoro e della famiglia funzionali all’estetica del regime. 

Da quegli inizi Alfonso Amorelli continuerà l’opera di decoratore parietale per tutto l’arco della sua esistenza sia in case private che in luoghi pubblici, ma di questa attività purtroppo, a causa della demolizione degli edifici palermitani Liberty e decò in alcuni casi e dell’opera di ammodernamento in altri, come l’Extrabar Olimpia, ben poco ci rimane. 

Tra gli affreschi ancora godibili, anche se di alcuni decenni più tardi rispetto ai dipinti fascisti, si conservano quelli eseguiti per alcuni padiglioni della Fiera del Mediterraneo, il pannello dell’Albergo Mediterraneo in via Rosolino Pilo e il fregio recentemente restaurato dell’ippodromo di Palermo. Al realismo lirico degli anni Trenta si sostituisce quasi sempre in queste ultime opere murali, così come in quelle coeve su cavalletto e nei disegni, una vena ironica e decorativa che si sostanzia di una stilizzazione cristallina e di colori brillanti, programmaticamente disimpegnata e avulsa dalle ideologie e dalle diatribe del tempo e di segno del tutto diverso rispetto alla decorazione commissionata dal regime. 

Nella sua autobiografia Il tempo vola scritta negli ultimi anni di vita, tra disegni e brevi riflessioni, Amorelli dedica una pagina alla figura del Duce riproducendolo con una enorme ciste sulla testa calva e annotando: «Mussolini venne ad inaugurare la Quadriennale romana. La grossa ciste sulla testa rapata, mi ridimensionò il mito Benito»8. L’avversione che l’artista, per «istintivo convincimento», professò sempre nei confronti della «verbosità confusionaria» spiega la mancata adesione sentimentale, l’ estraneità nei confronti della retorica fascista, che nulla toglie, comunque, al valore intrinseco storico e artistico della sua pittura di propaganda. 

Appare, dunque, imprescindibile l’immediato restauro degli affreschi della Galleria delle Vittorie che, insieme all’inedita produzione dei borghi rurali, costituiscono un documento di storia e d’arte, testimonianza di un evento fatidico del nostro recente passato nazionale e pagina essenziale per la comprensione della biografia artistica del pittore Amorelli che, purtroppo, il passare del tempo e la distrazione degli uomini rischiano di stracciare per sempre. 

Isabella Barcellona

NOTE 

1 Per una bibliografia esaustiva su Alfonso Amorelli cfr.: Amorelli, a cura di A. M. Schmidt, catalogo della mostra, Palazzo Steri, Palermo, 14 febbraio – 8 marzo 1997; Alfonso Amorelli, a cura di A. Schmidt, Roma, 2002. 
2 S. Troisi, Amorelli, Alfonso, in La pittura in Italia, Il Novecento / I, 1900-1945, tomo secondo, Milano 1992, p. 733. 
3 A. M. Ruta, C’era una volta la Galleria delle Vittorie. Palermo, città senza memoria, in «Palermo», gennaio 1993, pp. 42-43. 
4 La notizia si evince da un manoscritto redatto nel febbraio del 1947 da Salvator Ballo Guercio «Episcopus Mazarien» e attualmente depositato presso l’archivio della Curia Episcopale di Mazara del Vallo. 
5 M. Accascina, La colonizzazione del latifondo siciliano. I borghi di Sicilia, estratto della rivista «Architettura», fasc. maggio 1941 – XIX – Annata XX. 
6 M. T. Amorelli, Lo zio Fofò, in Amorelli ... , p. 29. 
7 A. Amorelli, Il tempo vola, Roma, 1970. 
8 Ibidem  

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 25-30.




V. Esposito, Poesia non-poesia anti-poesia del ‘900 italiano, Foggia, Bastogi Ed.. 1992. pp. 696.

Edito dalla Bastogi è uscito nel mese di marzo del ’92 un grosso tomo antologico comprendente nella prima parte gli interventi critici di Vittoriano Esposito dal 1949 al 1991. Questo lungo periodo attraversa la storia letteraria di quasi tutto il secondo Novecento, assai movimentato in verità, le cui diatribe e polemiche si sono succedute a ritmo serrato, per quanto la forma poetica si sia messa a morte più volte e più volte si sia fatta risorgere più o meno malconcia. Di qui la sperimentazione, l’avanguardia, la parola innamorata, la parola in libertà del non-senso e del frammento e mille altre innovazioni escogitate per allontanarsi il più possibile dalla tradizione accanitamente ripudiata. 

Il fatto è che proprio la nostra storia umana e civile è stata travagliata per cui l’inquietudine ha condannato l’artista -ad una poetica incerta, … in bilico tra gioco e necessità; …oppositiva rispetto alla tradizione, la poesia del ‘900 è perpetuamente ribelle al passato, insoddisfatta del presente, poco o punto fiduciosa del futuro'(pag.152). 

Il periodo più cruciale della poesia è stato quello degli anni attorno al ’68 in cui si è inneggiato alla disgregazione sia dei contenuti che della forma poetica al limite di una realtà volgare e di prosa arida e senza senso attuata addirittura con ritagli di giornali presi a caso. Di proposito si è voluto sperimentare la non-poesia e la anti-poesia per dimostrare a se stessi di poter ricominciare da zero il discorso poetico. Un incipit Vita Nova non è stato possibile, dati i tempi smagati e violenti; alla frantumazione nulla è succeduto di positivo se non il ritorno alle considerazioni umane dell’essere e degli eterni perché della vita. La forma è approdata ad un’impostazione di alta poesia verso il neo-classicismo, dove l’allegoria suscita immagini oltre ogni immediatezza, dove la metafisica a volte si fa religione del sacro percepita in chiave di salvezza dal mondo oggettivato e corrotto. 

Il trascendente nell’arte e nella filosofia va oltre il pensiero, oltre la conoscenza per snodare le regioni dell’ignoto nel mistero dell’esistenza. Il progresso delle scienze in questo senso è agevolato nelle sue ricerche e d’altro canto tutto ciò che è percepibile dall’inconscio è a sua volta espressione di trascendenza. 

L’autore di questa antologia in esame si fa carico delle convinzioni e delle proposte di molti poeti e saggisti contemporanei di chiara fama, che al di là di ogni anacronismo formulato dalla critica militante e dalla critica accademica avvertono l’importanza di una fusione di valore nel senso che il giudizio critico e il giudizio estetico devono confluire verso un appagamento armonico totalizzante, ed è importante scoprire nella lettura di un testo -l’incognita parabola» (B. Marniti). 

Tra critica e poesia si identificano gli stessi principi estetici per potersi sintonizzare nell’arte poetica con uno scambio metafisico che consenta l’integrazione illuminante. Oggi le parole di Salvatore Quasimodo pronunciate nell’immediato dopoguerra risuonano più che mai di grande incitamento: -Rifare l’uomo», aveva detto, -quest’uomo che aspetta il perdono con le mani sporche di sangue!»; altre, ancora più attuali, quelle di Charles Péguy: – Réfaire la Rénaissance» sono grido e bandiera per una svolta necessaria; e Rubén Darìé: -Mentre contate su tutto, una cosa vi manca, Dio». Si riesce così a individuare a fine secolo la richiesta impegnativa di riavvicinamento alla poesia per la poesia: Arthur Rimbaud iniziatore e veggente. 

Il repertorio della poesia regionale passa in rassegna le varie scuole e tendenze che al presen.te denotano connotazioni di tutto rispetto. L’antologia dedica la seconda parte alle molte schede e profili che l’Autore ha scritto per poeti noti e meno noti nell’ambito della critica ufficiale e non. Suddivisi per gruppi e tendenze artistiche Vittoriano Esposito riconosce suo malgrado di aver ottemperato per necessità pratiche all’esclusione di molti nomi per quanto riguarda il Novecento -minore»; poco o nulla conosciuto nulla ha da invidiare a quello ufficiale spesso deludente e povero di imputo Egli stesso si fa paladino di tali ingiustizie ed auspica che ciò dovrebbe almeno insegnare qualcosa nell’ambito dell’editoria intesa a far soldi soltanto con nomi già affermati, ma disattenta a chi il talento ce l’ha per davvero. Comunque i nomi qui considerati sono già moltissimi e tra essi l’Autore si dichiara soddisfatto di far conoscere da queste pagine un congruo numero di poeti che meriterebbero di salire la ribalta della considerazione che meritano. 

L’antologia a questo punto sarebbe ben fornita, ma una terza sezione raggruppa una categoria a parte dove leggiamo i nomi e le schede di donne poetesse. Se la poesia è nel potere del sentimento, dell’immaginazione e della maturità riflessiva indipendentemente dalle differenze sessuali, credo che le donne qui inserite avrebbero avuto piacere trovarsi tra “poeti” e non tra “donne”. Passata l’impennata femminista non si giustifica più questa separatezza di fronte al talento creativo i cui valori sono comuni a tutti. Comunque in questa sezione anche le poetesse sono divise per tendenze artistiche fino a risalire alle più giovani esponenti ancora in fase di sviluppo estetico ma con chiare impostazioni di scavo interiore. 

È interesse prendere atto del lavoro dei giovani nell’attuale malessere della società che li disorienta con falsi profeti e falsi valori. Tuttavia il rapporto dei giovani con la poesia è migliore di quello che si crede: sentono imperioso il desiderio di colmare il vuoto dell’esistenza affidando alla forma poetica la ricerca della propria identità perduta; l’impegno è di cimentarsi per una chiara coscienza umana per affermare dei valori che non riscontrano nel deserto morale che li circonda. Le prove non mancano, e molti di essi mirano proprio con uno sforzo di volontà a scalzare la crisi in atto. 

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 58-60.