Riflessioni sull’opera poetica di Artur Rimbaud 

La poesia moderna e tutte le poetiche in generale, pure appoggiandosi all’idealismo kantiano, attuano una ricerca all’interno della ragione umana. 

Gli studi dello strutturalismo e della linguistica moderna con la teoria della semantica e della semiologia, ma anche della filosofia e della psicologia, sollevano la poesia al rango delle scienze umane più alte e sofisticate nonché stimolanti. 

La poesia che punta sul significato del significato, secondo l’insegnamento del De Saussure, deriva dalla poetica di Mallarmée di Rimbaud, quel pazzo scatenato e ostinato a cogliere con una critica radicale le relazioni tra parola e mondo, l’uomo e il suo destino, la parola essenziale e significativa per le sue speranze avveniristiche, sempre minacciate. Ecco che il linguaggio che non riesce a sciogliere la contingente umana, e non ne vuole far parte, si interiorizza, si fa difficile per esplicitare ciò che è altro dal mondo esterno e diventa rivelazione, creazione. Il je suis un autre di Rimbaud sta alla base di questa ricerca per un ritorno alla sorgente ontologica, anteriore all’uomo stesso, anteriore al battesimo, quando il terrore dell’inferno non era preda della malizia umana. Tra la parola e il mondo corrono abissi di infrastrutture inquinanti per cui la parola ritrova il suo alveo d’amore primordiale con le analogie da decifrare nel profondo inconscio, per attingere il linguaggio in una forma comprensibile con quel tanto di chiarezza ascetica. 

La società brutale e superficiale ha ridotto la nostra identità ad una finzione, la poesia non può aderire ad essa, anzi deve essere rivelazione di questa finzione nel senso di ri-levare, togliere i veli della maja con intuizione spesso profetica sul tagliente filo del silenzio del mitico vate. 

Se la Parola – era in principio – può anche condurci alla fine con le conseguenze facilmente intuibili: una civiltà dalla parola svalutata e menzognera è dopo la parola, ha perduto il Verbo; la verità della parola non è più qui. «Io sono un altro», dice Rimbaud perché vuole dare forma e sostanza alla propria raison d’être. 

La poesia non è commento, è l’essenza dell’essere che viene ad essere; riesce a prolungare la sua eco all’infinito; solo le poesie deboli, incapaci di penetrare il mistero dell’uomo, non si espandono e muoiono nel loro significato già scontato. Non si tratta di rivelare dati occulti o stregoneschi (come dice chi non sa captare il linguaggio dell’inconscio), ma riuscire a trarre da sé la melodia che viene ad abitare il poeta, la parola adatta a significarla, ri-velazione di una presenza reale. Per Platone il rapsodo è un posseduto dal dio, il daimon che entra nell’artista dominandolo, oltrepassando i confini della sua persona. Il mistero della creazione poetica e artistica è in questa ricezione vitale, sempre sofferenza dal momento ispirativo alle infime ragioni della morte! Sfida e lotta con la Creazione è quella di Giacobbe con Dio; come la sfida della poesia è data dalla sinfonia interiore, così l’arte di Michelangelo ha potuto riversarsi nella Cappella Sistina. «Dio, l’altro artigiano», disse Picasso; in effetti, se il modernismo non sperimenta più Dio come competitore, non può che lottare con l’ombra di se stesso: donchisciotti alla sbarra di un mulino senza vento. 

La lotta di Rimbaud con Dio è stata eroica, dallo scoramento più profondo alla grandiosa intuizione cosmica; scrive: «Perché Cristo non mi aiuta dando alla mia anima nobiltà e libertà» e piange sulla corruttibilità del mondo che ha perduto il Vangelo, e dice: «aspetto Dio con ingordigia». 

L’espressione lirica di Rimbaud nasce sfida come linguaggio privilegiato sulle orme di Mallarmée di Baudelaire che, saltando sdegnosamente il materialismo contingente e opportunista e l’arrivismo economico intesero chiudersi in una torre d’avorio per purificare il linguaggio dalle devastanti infiltrazioni e rifugiarsi in un ideale assoluto nella réerie o imagination, detta “fantasia” da Croce per l’impossibilità di poter cambiare il mondo reale; tentativo operato da Rimbaud fin tanto che la sua giovanile esperienza gli ha suggerito, dopodiché è prevalso l’orrore e il conseguente – cattivo sangue – l’ha portato ad immergersi in quell’orrore. 

Rimbaud era maturato in fretta, dai sedici ai ventitrè anni la sua produzione poetica, poi il crollo delle sue speranze e l’abbandono definitivo dalla scena letteraria. Era maturato in fretta con la frequentazione intensa di lirici latini e greci, francesi, inglesi. La poesia per Rimbaud non deve seguire, ma precedere l’azione, secondo l’indicazione dell’antico vate, per modificare il progresso dalle sue strutture, e farsi carico del dolore degli uomini miti. Purtroppo, il poeta sperimenta solo indifferenza e delusione; il Bateau ivre, dopo avere scoperto oceani immensi, arcobaleni fioriti, affonda in una pozzanghera di fango. In questo il poeta ritrova il dolore del bimbo alle prese con la sua barchetta di carta che affonda miseramente, come lui stesso fragile e insicuro, con la nostalgia dell’infanzia, la sua etàdell’oro intravista e persa. 

Une saison en enfer, sua penultima opera, trae dalla prosa evangelica di Betsaide la sua drammaticità Gesù il divino Maestro, non può restare a lungo in questo luogo di perdizione, di dannati, bisogna uscirne, è pericoloso, tutto diventa cattivo; liberarsi del mondo diventa per Rimbaud liberarsi della Croce per sentirsi libero. Ma quale libertà Quella degli infelici, tanto vale vivere tra gli infelici, i semplici, lui angelo decaduto, fuori di ogni convenzione. Disprezzo e carità diventano il suo credo, il suo biglietto valido per accedere ad un posto in cima alla scala angelica di valori, quelli dello Spirito. Rimbaud è molto convinto di ciò il resto è un fuggire continuo, per finire tra i figli di Cam per ritrovare solo in Africa la propria natura primitiva. 

Restaurando la propria infanzia, egli identifica una esperienza primordiale, vero negro in rivolta, libero dalla civiltà corrotta e dal linguaggio immondo di mostruosi sfruttamenti, industriali e commerciali, dove la farsa continua del vivere sarebbe pianto amaro. Non gli è più possibile sottomettervisi ancora, dice, se è chiaro che questa civiltà sarà seguita dallo sterminio del pianeta. Veggenza? Stregoneria poetica? Purtroppo non ebbe la meglio sulla stregoneria politica che doveva coinvolgere con i suoi tentacoli tutto il mondo occidentale; non potè assistere a quest’altro sfacelo, la sua chiave esoterica indebolita dal male, anziché aprirsi a possibilità polemiche, si rinchiuse definitivamente in un sepolcro di rinuncia. Implora il coraggio di amare la morte! 

Nel 1980 uscì il libro di Giovanni Testori Conversazione con la morte in cui l’Autore si pone dei quesiti in parallelo a Une saison en enfer di Rimbaud, poeta che finora è stato interpretato in una chiave sbagliata. Testori, per altro quasi dimenticato perché scomodo con le sue teorie spiritualistiche, dice di Rimbaud: «è l’ultimo grande poeta profeta che abbia parlato all’uomo. E non è un caso che egli, proprio nell’ultimo capitolo del suo poema abbia ritrovato le parole della Bibbia e che le abbia messe in corsivo come sigillo al suo grido di rivolta e di dolore». 

Degli amori menzogneri di cui finalmente può ridere, Rimbaud lancia un grido di gioia perché dice, finalmente potrà possedere la verità in un’anima e in un corpo. Ora questo grido bisogna intenderlo nell’unica chiave che gli dà senso: la chiave religiosa. Rimbaud aveva già capito tutto in anticipo e, per questo, Testori lo chiama profeta. È stato Dio che lo ha illuminato, riferisce Testori, ed è fuori di dubbio che anche le Illuminations rimbaudiane abbiano avuto lo stesso mittente. Dopo aver toccato il fondo si intravede per lui l’antica sfida che qualcuno seppe leggere nei Fiori del male di Baudelaire: tirarsi un colpo di rivoltella, o fare un giusto ritorno ai valori umani. 

È questa la condanna e la svolta richiesta dall’anonimato della vita di questo ultimo scorcio del XX secolo, 

dove l’alienazione illude di risolvere ogni problema in permissività e violenza. Anche della Ragione e dell’Intelligenza abbiamo finito col servircene più male che bene, approdando purtroppo aridamente alla «illuminata demenza della Ragione», afferma sempre Testori. 

Tremiamo. Il “Viaggio in Paradiso”, descritto in Conversazione con la morte, gareggia con la Saison en enfer: i fiori del male scompaiono nel “popolo di nebbia” testoriano. Solo il Mostro, lei, la Ragione, ansima, rugge, compie stragi e ne compirà più avanti, «infinite nascite orrende / infiniti orridi genocidi / per poter salire là/ dove siede l’ombra del Perduto, / il suo vuoto: / la meta della Bestia è il suo trono». L’Apocalisse si profila all’uomo del XX secolo cosìcome il Battista avvertìnel deserto: «Se voi vincerete la Bestia, il vuoto si riempirà». 

Da questo disagio, il male potrà dissolversi e lo Spirito trionfare, tornare al primitivo splendore innocente nel grembo materno. Come Rimbaud, dice Testori della morte: «Non bisogna averne paura, se voi provaste a chiamarla prima sottovoce, quindi portando la bocca sulle sue orecchie, più sottovoce ancora; se voi le sussurraste Madre, anzi Mamma, così Mamma! Che musica dolce, ondulante, quasi una nevicata sommessa ed infinita, quasi una lontanissima piva dei Natali che abbiamo distrutto, ucciso, sepolto… È un esercizio d’amore, l’unico che arrivato dove sono posso insegnarvi. Quella emme che mormora e bela, quella su cui ci si può distendere sempre, in ogni ora, dopo ogni gesto, perfino dopo un delitto; poi, due mormorii che la seguono, uno dentro l’altro, uno sull’altro come il gesto che ci cullava bambini e non avevamo ancora capito, ancora eravamo illusi di non aver capito che quelle mani ci stringevano per consegnarci a una resa». 

Ancora ci fremono dentro le parole profetiche di Testori quando, con quella genialità che gli è propria e che dopo Rimbaud non s’era piùavuto modo di ritrovare, confessava: «L’uomo non può essere tutto imprigionato dentro la materia del suo corpo mortale. Il corpo è il supporto che regge l’anima; quando si cerca di soffocarla il corpo o meglio la Ragione non ha più pace, si ammala ed escogita nefandezze; ma se prima o poi l’anima rompe la pressa che la serra tenderà a rivelare il suo mistero eterno, quindi a profetizzare sulla nostra cecità». 

Cos’è che angosciosamente preme in noi se non uno spasmodico desiderio di verità Gli scettici chiusi nella loro mentalità frontale senza una forte volontà di uscirne, mai potranno addivenire alle bellezze dischiuse ed infinite dell’anima soave. La disperazione delle Illuminazioni, profusa da Rimbaud, traccia l’inquietudine dei giovani moderni. 

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 33-36.




Le donne della poesia

Il curatore di questa Antologia, Domenico Cara, studioso d’Arte e di Letteratura, raccoglie il lavoro poetico di poco più di un centinaia di poetesse, una centuria di scrittrici in qualche modo etereogenea, ma in cammino verso un’elaborazione di pensiero che dal greto di un’esistenza perversa a volte urla la sua sete di trascendenza e di sogno. Pur nella diversità degli argomenti e delle occasioni, dirò meglio, del proprio spazio-tempo, alla fine tutto si coagula in una richiesta d’amore, dove l’armonia d’amore è la fiaccola tesa più che mai al cuore femminile. Anche se l’amore si aggira ancora circospetto nei residui e teme la rima con il cuore in una sorte di virilità violentata, è già nel segno di un superamento riparatore, sul bilancio soppesato delle pulsioni oltre il femminile. 

Il pensiero inevitabile per servire l’idillio, nonché il fatiscente per sperimentare la capacità di rinnovare i registri e le manifestazioni di stile della scrittura, si fa canto, cauto e riflessivo al massimo. 

Da un campo minato si muovono le disuguaglianze rivelatrici di una meta di avvicinamento comune in quanto il dire poetico punta sempre su una verità annunciata nell’intimo di ogni creatura. Questa Antologia giunge dopo l’emblematico periodo femminista – e cerca di captare oltre il femminile – il nuovo senso dell’epoca decorticata di valore per redimere il silenzio dal rumore, le compronùssioni aspre dal quotidiano, oltre l’urto con il mondo rifiutato, con la passione dichiarata per l’estasi silenziosa. 

Il sogno è di inseguire l’inquietudine come “l’arte alla luce della coscienza ritrovata: – tu l’afilato,/l’audacia, l’eterno” (A. Santoliquido). Ecco, diciamolo pure chiaro e forte, oltre la nebbia degli indifferenti la donna poeta ha fatto tesoro della propria storia occulta nel processo restaurativo della sua creatività. Nell’equilibrio della ricerca c’è la donna amazzone di Maria Grazia Lenisa che mette in guardia la fanciulla dalle penne d’oro e turchine: “La donna è senza terra, dovrà / andare oltre davvero il potere delle nuvole, oltre la tela… ” (pag. 139). “Preparammo forse il nuovo tempo, l’uscita /tra i corvi con molte fionde, con gridi, colori / e l’appuntita intelligenza”. Nella catarsi docile di Helle Busacca: “La fiumana / di ombre indistinte e incolori su cui si spiana il silenzio” e di Liana De Luca: “La morte della morte nella morte / la morte per unica sorte” (p. 50), si innesta la riflessione dell’uomo e la sua effimera fragilità. 

Maura Del Serra così conclude una poesia: “… ebbi per madre la piaga di tutti/e per figlio illegittimo il veggente dolore” (pag. 46). 

Concludiamo anche noi con due versi della già citata Anna Santoliquido: “ho solo frammenti di mia madre/ vivrò per ricomporli …” 

Tutte alla ricerca dell’oltre della pura contingenza fisica per assurgere al mondo dell’assoluto dove le vibrazioni dell’essere si accordano all’armonia dell’universo, con le nostre piccole schegge luminose vaganti e pulsanti in quell’altrove per ricongiungersi nella defluente unità del tutto. 

Se ciò era da mettere in evidenza secondo le intenzioni del curatore, è qui testimoniato con somma trasparenza dai molti nomi illustri o appena esordienti: allora accettiamo come – oltre il femminile o l’oltre il maschile – nulla è più confutabile nello scambio complementare di trasalimenti sia pure “con la fatica di scaldare il gelo in ogni dove ristagni l’ombra”. 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 77-78.




Il mistero dell’ultima guglia 

La nostra società si sta rendendo conto come l’espressione del pensiero sia esso stesso il miracolo Spazio-Tempo nella sua accezione scientifica. Di fronte all’infinito del mondo, oggi gli scienziati sono anche filosofi e solo nella fede ravvisano la catarsi dell’inquietudine: l’umanesimo del Duemila sarà la continua convergenza tra scienza e filosofia. 

Michele Federico Sciacca in Atto ed Essere sviluppò una ricerca con una ricca speculazione impegnata a testimoniare le possibilità della ragione in un orizzonte di fede, con un ritorno all’interiorizzazione che trascenda i valori e riconduca l’uomo al rispetto di sé. per sé e per gli altri. Einstein ha avuto un atteggiamento di reverenza verso la Natura, di cui si sono svelate solo alcune cose, ma non il mistero che l’avvolge. 

Oggi ogni scienziato sa bene che l’ultima guglia sarà sempre avvolta nella nuvola dell’insondabile: al mistero ci riconduce la fede per non esserne schiacciati. Battista Mondin afferma che solo un umanesimo così intenso potrà contrapporsi ai feroci tradimenti perpetrati contro l’uomo. Con l’abolizione dei riferimenti tra cielo e terra, tra materia e spirito, si è instaurata l’infelicità umana con tutte le reazioni di violenza e di degradazione come sistema di vita. eludendo le aspettative iniziali. Ci conforta solo la saggezza di Confucio che per primo intuì la verità della massima evangelica – non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te – che è poi il modo pratico per combattere il male sulla terra. Il progetto è nella meditazione, nella parola che parli alla luce dello spirito, nella decifrazione del mistero vita-energia, morte-energia, energia-cosmo. L’universo irradiato da radiazioni fotoniche si offre oggi come atto finale della ricerca verso un cammino verticale per approdare ad un atteggiamento pensoso per la salvezza. 

Il libro della psicologa americana ShenyThurkle, Il secondo Io, sottotitolato: Il computer e l’uomo: convivere capirsi amarsi. è un programma d’amore che lascia perplessi in quanto scaturisce da quella che sembrava una ricerca positivistica del tutto materialista alla quale era conformata la mentalità della gente, e ci pone una domanda inquietante: il computer sta cambiando il cervello dell’uomo? La scienza, evidenziando la nostra dimensione dualistica, corpo-mente, materia e spirito, fusi in un unico circuito di energia, ci farà assistere al miracolo di un cambiamento radicale che salverà tutti dalle secche unidirezionali? 

Al centro dell’attenzione e dell’elaborazione si fa strada il pensiero psicologico superando la linea di demarcazione sin qui perseguita, per cui bisogna arguire che se la macchina intelligente non può amare né odiare, per accedere ad una differenziazione gratificante (dato il suo deserto interiore che lo accomuna ad un robot) l’uomo si deve riappropriare di tutto il suo bagaglio emozionale, del suo essere uomo, identificandosi con l’alter ego misconosciuto. Per questa profonda esigenza va ripigliando fiato il respiro degli uomini giusti. La ragione rinasce sperimentale nella rifondazione di un umanesimo consono ai tempi, ravvede la necessità di riguadagnare il tempo perduto, reintegra il linguaggio letterario e filosofico nel linguaggio scientifico per dissolvere con invenzione le scienze dell’uomo nelle scienze della natura. 

L’uomo nuovo oggi è chiamato a questa responsabilità: scendere e mordere la radice della vita in tutta la sua so1Terenza alla ricerca della creatività indagante negli orizzonti interiori per appropriarsi di ciò che è più antico tra le cose antiche. Se gli dei non ci sono più perché sopraggiungiamo troppo tardi e siamo soli (Heidegger), è ancora possibile il riconoscimento dell’io profondo invocato come evento di armonia nell’orizzonte disponibile all’ascolto. 

Il linguaggio dello scienziato diventa filosofia, e la filosofia poesia perché ormai il pensiero è l’acrobata senza rete che si esibisce negli spazi immensi da esplorare: dall’estremo arretramento delle origini fino all’ultimo atto che lo attende nel seno dell’unità, in un percorso convinto del senso del sacro con tutta l’umiltà di cui sarà capace.

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 5-6.




 Grida la rosperìa 

Grida la rosperìa

la sua critica scettica: 

non c’è più poesia 

ma c’è l’arte poetica  

Manuel Bandeira, Os sapos, 1918 

(Trad. di Renzo Mazzone) 

(da Mosaico de Manuel Bandeira. Poemas de Carlos Dmmmond de Andrade, a cura di l(jlio Castaiion Guimaràes, Ediçòes Alumbramento – Instituto Nacional do Livro, Rio de laneiro, 1986)




Haikai

Sanzio Azevedo




Traccia

Un poema 

libero da grammatica e da suoni 

delle parole 

libero 

da tracce. 

Un poema fratello 

d’altri poemi 

che spengano la sete 

ai corsi d’acqua 

e rilucano come pietre al sole. 

Un poema 

che sia senza il sapore 

della mia bocca e sia 

libero 

da segnali di denti sopra il dorso. 

Poema nato 

agli angoli di strade, lungo i muri 

come povere parole 

con parole appassite 

però 

libero tanto 

che da se stesso tragga 

la decisione 

d’essere 

scritto o no. 

IMPEGNO 

Tocca ora al corpo 

morire 

giorno per giorno 

andare 

e disabituarmi 

del volto 

che io 

chiamavo mio. 

INTENTO 

Ho tanto usato 

questo corpo 

tanto. 

È giusto ch’io lo lasci 

e lo metta a giacere. Perché sia 

dimenticato. 

SAZIETÀ BIOGRAFICA 

Ho forse camminato senza piedi 

e volato senz’ ali. 

Sono un sogno svanito. 

Scrivo lettere ai fiumi di frequente 

mentre coltelli 

puntano al mio cuore. 

Che posso dire 

(se smettono gli uccelli di cantare) 

e come amare 

(se amano gli amanti il suicidio)? 

Gli assassini conoscono il mio nome. 

INGANNO 

In fin dei conti 

costruiamo edifici 

case giardini dove 

sono sbocciate rose 

tremule. In fin dei conti siamo sempre 

sottomessi agli impegni d’ogni giorno 

alle stagioni 

dell’anno 

ed alla rotazione della terra. 

La nostra patria pensavamo fosse 

questa. 

da Risco, Nankin Editorial, Sao Paulo, 1998




Nostalgia

Chi abita la mia casa 
mi presta il corpo e sale 
sottili bianche scale. 
Spade 
mi graffiano ed io sanguino. 
Di stanza in stanza 
io palpo culle vuote. 
Giorni ciechi mi spingono 
lungo le notti 
verso altri giorni … 
Ma chi abita in me, questa mia casa? 

Eunice Arruda 

 Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




Dolore

Sto male, sono dolorante, afflitta 
al sereno notturno. 
Attaccano un acuto le cicale. 
Dormo dentro di me profondamente. 
E va la sera 
là fuori, avanza lenta 
come un vecchio carretto cigolante. 
Più niente importa. 
Chi piange se sto male? 
Se io sono ferita, 
chi si dissangua? 
Sono stata sbattuta contro un muro. 
Mi avevano protetto 
le braccia e la mia ombra, 
ma ora 
il sale non si scioglie sulla pietra 
e mi addormento 
come un bambino scosso dai singhiozzi 
o forse 
come uno scarabeo rivoltato 
sul marciapiede. Invano 
il dolore mi assolve da ogni colpa. 

Eunice Arruda

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




FRANCESCO GRISI, La poltrona nel Tevere, romanzo, Rusconi, Milano, 1993.

Uno degli ultimi romanzi di Francesco Grisi, poco prima della sua immatura scomparsa, La poltrona nel Tevere è in pratica la prosecuzione di Maria e il vecchio, pubblicato nel 1991. 

Personaggio eclettico, quasi vulcanico, Grisi ha avuto ed ha molteplici interessi: narratore, critico, saggista, pittore, già docente nei licei e assistente di Giacomo de Benedetti alla cattedra di Letteratura italiana contemporanea, grande viaggiatore; come scrittore si può definire toco (come direbbe Cernetti) in quanto sa dare come pochi luce alla pagina e la sua scrittura si distingue per forza e potenza. 

La poltrona nel Tevere è un’opera di narrativa particolare; presenta cultura seria ed elaborata, ha singolarità di taglio, vigoria immaginativa, fervida ed allucinata fantasia e il supporto primario della memoria. Nel suo Diario Guido Morselli notava che «la memoria è una cosa con la fantasia. Ricordare è credere. E la memoria in noi è continuamente attiva oltre che spontanea. In questo senso la vita nostra si intesse di poesia, cioè di sentimento. Dunque il tessuto è dato da un intreccio di reminiscenza». Nel romanzo primeggiano memoria e fantasia e l’opera è un intreccio di reminiscenze (impasto, dice l’autore). La pagina è illuminata da irradiazioni che provengono dal ricordo che Grisi espone’ con stile inconfondibile e tetragonamente anticonformista. Va detto che il romanzo richiede una lettura attenta e lo stesso autore avverte in prima pagina che ha bisogno della collaborazione del lettore: «La mia vicenda è vera anche se sarà vissuta dal lettore.» 

La stessa vicenda è raccontata in prima persona da un postino, Francesco, laureato in Lettere, che ha scelto quel mestiere vuoi per pigrizia, vuoi per l’aspirazione di tanti italiani a diventare statali. Viene coinvolto da un deputato che saluta col roboante quanto decaduto «Avanti popolo alla riscossa». È indotto a violare il segreto postale, aprire con un marchingegno le lettere che il presidente, uomo di potere, fulcro del romanzo, riceve da brigatisti, dai quali era stato catturato e poi inspiegabilmente rilasciato con grande raccapriccio degli avversari politici. Ora riceve lettere dai brigatisti e il partito del deputato, che teme e odia il presidente, intende controllare la corrispondenza, sicché il postino viene invitato (e corrotto) ad aprire la corrispondenza inviata al presidente, fotocopiare le lettere, consegnarle al suo committente e poi, ricomposte, portarle al destinatario. 

Questo è l’avvio del romanzo. Il 2 di aprile, giorno di San Francesco di Paola, segna l’inizio delle reminiscenze. Il postino ricorda la natìa Calabria, il suo mare di un azzurro intenso e rievoca il miracolo del Santo che traghetta lo stretto di Messina a bordo di un mantello. Di reminiscenze il lettore ne troverà molte e sono talmente bene inserite che non turbano lo scorrere della vicenda anzi l’arricchiscono o la rendono affascinante. 

Tra i personaggi, vibra di lucentezza la terrorista Cristiana, vestale di una lotta che passava per la politica, donna visionaria e passionale che lotta con tenacia pur conscia che la partita è persa. È lei che indirizza missive al presidente, per il quale 

sente molta ammirazione. E le pagine di Cristiana sono tra le più calamitanti del romanzo. Il presidente – facilmente riconoscibile – è il perno della vicenda; rapito, affascina i brigatisti con la sua dialettica e con la forza della ragione, e viene liberato con sorpresa dei vari politici. 

Qui Grisi inserisce un dialogo tra il presidente, che liberato s’avvia verso casa e attende l’autobus, in piazza Venezia, e Mussolini che s’affaccia al fatidico storico balcone. È un dialogo serrato, imprevedibile, che ripercorre parte della nostra storia. Dopo un certo periodo di libertà, il presidente viene rapito nuovamente e finisce con lo scomparire su una poltrona che veleggia sul Tevere. Accanto al postino narratore la madre, vecchia e malata che inventa sogni profetici, attraverso i quali richiama storia recente e passata e non manca di cantare «Casta diva», «Giovinezza», «Volare». Infine, Chiara, dolce compagna del postino. 

Semplice a grandi linee, il romanzo trova il suo epilogo nella scomparsa del presidente, nella cocente sconfitta del brigatisti, nel crollo delle loro utopie e la morte della vecchia madre. Ma alla vicenda Grisi, con una tecnica tanto abile quanto valida, inserisce personaggi del passato, come se fossero tuttora viventi. Con un fare di stampo poundiano, divaga, discetta, medita, richiama personaggi del passato che rivivono, come se fossero protagonisti, con tutti i connotati di bene e di male. Con una tecnica innovativa, fantasia fervida e allucinata, lo scrittore analizza (inserendo sapientemente i dialoghi) temi e problemi che ancora ci fanno giungere il loro riverbero. E l’ analisi è condotta con intenti anagogici e gnomici. 

«Se c’erano i Tedeschi da una parte e gli Alleati dall’altra, è anche vero che c’erano gli Italiani che si uccidevano. È mai possibile che due ideologie in contrasto abbiano fatto dimenticare la fratellanza, la famiglia, l’idea comune di patria?» E ancora: «La guerra santa è l’unica frontiera che unì gli Arabi. Il nemico è anche Israele ma il vero demonio sono gli Americani e i Russi che non hanno religione. Operano per politica o per economia. Svincolati dalla religione, sono i figli del male. Non credono neanche nella libertà. Anzi si servono di questa parola magica per comandare e dividersi il mondo.» Di queste considerazioni – che hanno valido fondamento e mostrano la perspicacia dell’autore – il libro è zeppo, talché si può affermare che il romanzo è a un tempo storia, disputa filosofica, meditazione cristiana, teologia, analisi psicologica, sottilissimo gioco di ironia che Rilke avrebbe definito pura parènesi. 

La scrittura ha unità di tono, qualche varietà di lessico (sono inseriti frasi dialettali, strambotti, storielle), è glabra e il periodare, generalmente breve, è incalzante. A nostro avviso il romanzo è un invito all’unità e alla concordia, presenta una sorta di filosofia dell’amore, e contiene un messaggio di grande valore: la fratellanza umana è riscattabile soltanto da un anelito verso l’Altissimo 

perché la vita è viaggio che si conclude con la morte che unica consente la resurrezione. («La morte è un vivere», scriveva Holderlin.) 

Al di là della splendida indovinata allegoria sul potere, l’opera di Grisi è anche atto di fede nella storia, se la storia è esaminata senza spirito di parte o senza travisamenti, oggi frequenti. Come è scritto nel risvolto di copertina, «sarà il senso dell’immortalità la resurrezione, promessa dal figlio di Dio, ad offrire una possibile risposta alla domanda che il postino ripete a se stesso: “Perché la terra è così bella e atroce?”» 

Salvatore Arcidiacono 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 43-45.




La traduzione nel Medioevo a Palermo e a Toledo 

Riassunto – In questo saggio vengono studiate le condizioni ambientali che nel Duecento resero possibile l’esistenza, nel Mezzogiorno italiano e nella Spagna centrale, di due centri culturali conosciuti rispettivamente come la Magna Curia e la ,Escuela de Traductores de Toledo 

A capo di essi spiccano due sovrani eccezionali e quasi coevi: l’imperatore Federico Il e il re Alfonso X el Sabio. Entrambi, ma soprattutto il re toledano, devono essere considerati come nesso imprescindibile tra la cultura orientale e quella occidentale, poiché fecero tradurre dal greco e dall’arabo molti testi scientifici orientali, che gli eruditi europei non avrebbero forse potuto conoscere. 

Si studiano anche i procedimenti che erano seguiti, sia alla corte siciliana sia nelle diverse tappe dei lavori della corte toledana, dai diversi gruppi di traduttori formati da savi appartenenti a tre etnie storicamente irriconciliabili musulmani, ebrei e cristiani – che realizzavano simultaneamente le traduzioni in latino o in volgare (Angeles Arce*). 

Il secolo XIIl nell’Occidente latino ebbe la fortuna di conoscere due sovrani eccezionali, ambedue promotori di un mondo culturale senza pari nel Medioevo’, eredi e continuatori di un iter anteriormente tracciato, che raggiungeranno il loro auge in una sorta di «Dispotismo illuminato» del Duecento: Federico II di Sicilia e Alfonso X di Castiglia, diretti responsabili rispettivamente della Magna Curia2 e della Escuela de Traductores de Toledo3. Entrambe le sedi, ma soprattutto quella toledana, devono essere considerate come un ponte imprescindibile tra la cultura orientale e quella oçcidentale poiché, grazie alle traduzioni da esse realizzate – dal greco e dall’arabo in latino o in volgare -, molti eruditi europei presero contatto con quei testi fondamentali della filosofia, dell’astronomia, della matematica, dell’alchimia o della medicina che la maggior parte di loro non potevano conoscere, e forse non avrebbero mai conosciuto. Inoltre, esercitando la funzione di ponte culturale con l’Europa medievale, le scuole siciliana e toledana inaugurano i primi movimenti letterari dei loro rispettivi Paesi: la lirica da parte di Federico II e la prosa grazie alla penna di Alfonso X. Questo conferma che lo sviluppo o il consolidamento delle letterature volgari si verificò proprio nei luoghi dove fu maggiore l’interazione fra culture e lingue diverse. 

È molto probabile che questi monarchi, pur appartenendo alla stessa stirpe familiare degli Hohenstaufen – Alfonso era figlio di Beatrice di Svevia, cugina di Federico II e ambedue nipoti di Federico I «Barbarossa» (1152-1190) -, non si siano mai conosciuti: sembra strano, però, che non abbiano neppure avuto notizie l’uno dell’altro, dato che la differenza cronologicamente esistente fra loro era di poco più di vent’anni. Se consideriamo, invece, i numerosi punti di contatto delle loro condizioni ambientali e la somiglianza culturale delle loro corti, è evidente che si possono studiare non solo come semplici coincidenze casuali, ma si devono invece studiare insieme e comparativamente per poter chiarire meglio alcuni aspetti particolari inerenti ad esse aspirante frustrato alla corona imperiale tedesca (1256) dopo la morte di Guglielmo d’Olanda5. 

Sono conosciute le vicende storiche del rapporto plurisecolare tra la Sicilia e la Spagna. Ci basti ricordare solo tre esempi: Tucidide afferma che i Sicani, primi abitanti dell’Isola, procedevano dalle coste orientali della penisola iberica; d’altra parte, è stata messa in evidenza la somiglianza, dal punto di vista linguistico, tra alcuni suoni dell’Italia meridionale con certi elementi dei dialetti iberici orientali, il che potrebbe provare che la colonizzazione romana della Spagna si è potuta portare a termine con abitanti suditalici; ed in terzo luogo, c’è un fatto che mi sembra interessante ricordare: la Spagna e la Sicilia furono le due uniche zone di tutta l’Europa in cui gli Arabi si stabilirono a lungo e da cui irradiarono la loro cultura. 

Dal secolo XII in poi sono vari i centri culturali che primeggiano nel Regno di Castiglia e di Aragona: Tarazona, Siviglia, Murcia, Barcellona, Toledo, Segovia, Saragozza o Huesca, mentre nell’Italia meridionale – dove la corte era itinerante – prevalgono Messina, Palermo, Capua – con un centro di studi di retorica – e Napoli, sede quest’ultima, dal 1224, di un’università di fondazione regia conosciuta come «Studio generale» e istituita – secondo quanto si legge nel decreto di fondazione – «perché chi aveva fame e sete di sapienza trovasse da saziarsi nel regno»6. 

Tuttavia, tra tutte le sedi citate soltanto Toledo e Palermo – considerata questa da Pietro da Eboli quale dotata trilinguis7 – saranno reputate, sotto i loro rispettivi monarchi, come sedi di un enciclopedismo medievale tanto nell’ambito letterario quanto in quello scientifico. 

Ciò nonostante, l’islamizzazione in ambedue le corti era molto diversa. Infatti, il re Alfonso, toledano di nascita e cristiano, non poteva condividere i costumi arabi che avevano cominciato a proliferare nella corte siciliana, soprattutto durante il regno di Ruggiero II, nonno materno di Federico. Questo monarca (1097-1157), educato in ambiente greco, aveva organizzato una corte con eunuchi, con harem, con monete datate secondo l’egira e con invocazioni ad Allah, e dove non mancava nemmeno un’accademia di savi di varia provenienza. In seguito, anche se il nipote sopprimerà alcune di queste abitudini orientali, avrà sempre presente il ricordo giovanile di una Palermo dall’aspetto orientale in cui confluivano influssi normanni insieme a quelli latini, greci, bizantini o musulmani. Inoltre, peculiari circostanze storiche fecero sì che la struttura di queste due corti medievali e l’etnia dei loro rispettivi seguiti fossero piuttosto diverse. 

Questa corte meridionale, crocevia delle lingue medievali, considerata una delle più raffinate e la meno feudale di tutta l’Europa, fece della Sicilia il primo stato moderno del continente, tanto per la sua organizzazione burocratica quanto per le pretese assolutistiche della corona; senza dimenticare che, dal punto di vista letterario, alcuni credono che «fuori di essa si può ben dire, senza timore di peccare contro la storia, che tutta la nostra storia letteraria avrebbe avuto un corso differente (cfr. Folena, p. 273). 

Pur avendo seguito in un primo momento l’esempio della diffusa poesia provenzale, Federico II cominciò a patrocinare, verso il terzo decennio del Duecento, una scuola poetica che presenta la novità di non essere formata da trovatori, bensì da funzionari della Cancelleria. Il monarca, infatti, si circondò di un’elite politica che comprendeva burocrati, nobili, notai e personalità della corte che, per di più, scrivevano poesia in volgare come evasione dai problemi quotidiani. Tutti quanti, tanto i poeti o i giuristi provenienti dalla Penisola – come Pier della Vigna, Giacomino Pugliese, Goffredo da Benevento, Taddeo da Sessa, Percivalle Doria o Tommaso Gaeta -, quanto quelli provenienti dall’Isola come Stefano Protonotaro, Tommaso di Sasso o Iacopo da Lentini, formavano parte di una istituzione conosciuta come Magna Curia, una sorte, in senso lato, di governo o di amministrazione centrale. ‘Questo è proprio ciò che li distinguerà dal resto dei poeti dell’Occitania. Il poeta di questa prima scuola – chiamata da Dante, come è risaputo, «siciliana»8- è un uomo colto che scrive per il piacere della poesia, di una poesia pensata per essere letta individualmente e non per essere recitata con musica; si oppone così a quella dei trovatori professionisti, a volte semplici giullari ansiosi d’onori e inclini all’adulazione9. 

Non è il caso di soffermarci ulteriormente sulle caratteristiche di questa scuola o delle diverse scholae o sezioni che formavano la Magna Curia. Pur riconoscendone le indiscutibili innovazioni metriche e linguistiche nell’ambito letterario, è mia intenzione ora occuparmi dell’altra attività cortigiana, svolta a Palermo, che la ricollega a Toledo: le traduzioni dalle lingue orientali. 

È noto che intorno a Federico II, che sapeva leggere e scrivere, si sviluppò un’esuberante vita intellettuale giacché, secondo il Salimbene, il monarca stesso parlava, o almeno conosceva, parecchie lingue: il tedesco paterno e il francese normanno di sua madre Costanza d’Altavilla10, oltre al latino – conosciuto a scuola e identificato con la grammatica -, 1il greco11, l’arabo12 e un incipiente volgare italiano identificato nel dialetto apulo-siciliano. La conoscenza di queste lingue ampliava l’interesse del monarca e del suo circolo per le scienze e la filosofia, materie sulle quali, in maggior misura, verteranno le traduzioni «siciliane», mentre in area bizantina i traduttori dal greco di origine italiana, come Giacomo Veneto, Burgundione Pisano, Ugo Eteriano o Stefano da Pisa, si occupavano di testi religiosi o teologi. L’imperatore accoglieva nel suo cenacolo di generoso mecenate poeti, filosofi, matematici o giuristi e concedeva loro protezione in cambio di incondizionati servizi politici13. 

Tuttavia, possiamo segnalare qualche differenza nelle preoccupazioni dei due protagonisti: mentre Alfonso X vedeva tutte queste scienze «non come un lusso ma come un bisogno nazionale» che coltivava «a casa con i dotti peninsulari», per l’imperatore italiano – denominato il Sultano di Occidente -, la curiosità scientifica era un elemento del suo prestigio imperiale e della sua possente personalità e gli permetteva di intrattenere una corrispondenza con i savi e, soprattutto, con i sultani o califfi dello Yemen, dell’Egitto, del Marocco e con monarchi come il Saladino14. 

In questo senso, i contatti tra la Sicilia di Federico e l’Oriente sono molto più saldi di quelli della Castiglia di Alfonso. Ma solo in questo senso, perché senza mettere in dubbio, naturalmente, l’interesse dell’imperatore per la cultura, non sembrano del tutto esatte le parole del Folena quando afferma che «l’orizzonte apertissimo della cultura del tempo di Federico II era senza precedenti di uguale vastità nel Medioevo per incontro e contemporaneità di esperienze diverse» (Folena, p. 294). Le sue affermazioni si potrebbero ribattere, almeno, in due punti: in primo luogo perché un altro rinascimento culturale, forse molto più importante, era esistito mezzo secolo prima15 intorno alle figure di Ruggiero II (1105-1154) e Guglielmo I (1154-1166), nonno e zio di Federico; e d’altra parte – e in questo è necessario insistere -, perché molti dei savi e dei traduttori che lavorarono presso Federico avevano lavorato e perfezionato prima i loro studi a Toledo, riconoscendo con questo il primato indiscutibile della città spagnola, almeno nel campo delle traduzioni dall’arabo. 

Le prime versioni insulari vertevano su temi filosofici e scientifici, sulle orme di quelle toledane (cfr. Millas) ma, a differenza di queste, come si è visto, furono opera di collaboratori della Magna Curia che erano dei personaggi legati alla burocrazia di corte. E proprio a questa appartengono i primi traduttori di cui si hanno notizie16 tra i quali Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania e Primo ministro di Guglielmo I, a cui portò come regalo da Tessalonica un manoscritto in arabo della Syntaxis mathematica di Tolomeo, conosciuta come l’Almagestum. Tradusse nel 1156 dal greco in latino il IV libro delle Metereologiche di Aristotele, e anche i dialoghi platonici Menone e Fedone; in collaborazione poi con l’ammiraglio siciliano Eugenio da Palermo, tradusse verso il 1160 – questa volta dall’arabo – il famoso trattato di astronomia tolemaico, di cui esisteva già una versione anonima in ebraico. 

Eugenio da Palermo, grande conoscitore dell’arabo, verso il 1150 fece una versione in latino, ora da solo, dell’Ottica tolemaica ed è grazie al suo sforzo che quest’opera è giunta fino a noi – solo i libri Il e V -, giacché sono andati perduti tanto l’originale greco quanto la versione araba posteriore17. 

Tuttavia, un fatto prova che i lavori realizzati a Palermo non avevano, purtroppo, una grande diffusione nel mondo cristiano medievale: i testi tradotti più di una volta in modo indipendente dimostrano che fra i traduttori siciliani e i toledani – senza dimenticare anche i constantinopolitani – non c’era una fluida comunicazione o informazione. Un esempio tra i tanti: appena una quindicina d’anni dopo la traduzione siciliana dell’Almagestum tolemaico, un importante traduttore dell’Italia settentrionale, 

Gerardo da Cremona, fece una nuova versione del libro alla corte toledana, ignorando, forse, quella realizzata anteriormente in Sicilia dai suoi compatrioti Eugenio da Palermo e l’Aristippo. Anche se l’opera dell’astronomo di Alessandria era stata tradotta in arabo nel secolo IX e più tardi in ebraico da ebrei spagnoli, la versione latina che si diffonderà per tutto l’occidente – fino alla sua definitiva pubblicazione a Venezia nel 1515 e prima dell’edizione principe dell’originale greco fatta a Basilea nel 1538, è dovuta proprio a quest’italiano noto come il Cremonensis18. 

Infatti Gerardo da Cremona (1114-1187), che arrivò alla corte castigliana intorno al 1157 – un secolo prima di Alfonso X el Sabio – con l’unica intenzione di conoscere e divulgare l’Almagestum, prolungò per tre decenni il soggiorno a Toledo lavorando come uno dei tanti studiosi assidui della scuola castigliana19. Dopo aver approfondito lo studio dell’arabo, fu immenso il sapere che scoprì in quei testi arabi, ancora non conosciuti dalla cultura occidentale. Gerardo attinse alla più vasta materia per le sue fedelissime traduzioni in latino, che dotò di una terminologia più precisa e un linguaggio tecnico nuovo nel campo dell’algebra, aritmetica, medicina, astrologia, geomanzia o alchimia. Tradusse circa ottanta trattati20, numero che fa pensare alla possibilità che l’italiano sia stato il direttore di un gruppo specifico di traduttori – socii – tra i quali collaboravano sia ebrei che «mozarabes)), cioè cittadini della Penisola Iberica che rimasero fedeli alla religione cristiana anche se assunsero come propri i caratteri della civiltà araba. 

È inoltre vero che se in Europa nel secolo XII esistevano altre scuole episcopali di prestigio, tutte erano d’accordo nel conferire a Toledo il primato nell’islamizzazione del mondo occidentale. Questa è la causa per la quale molti eruditi europei frequentarono questa ed altre scuole spagnole dove ampliavano i loro studi ed erano in grado di realizzare posteriormente diverse traduzioni. Tra questi studiosi «stranieri» che viaggiano in Spagna si possono ricordare i nome dell’italiano Platone 

 

di Tivoli21 , il fiammingo Rodolfo di Bruges, il tedesco Ermanno di Carinzia – noto a Toledo come Herman el Dalmata o el Aleman e traduttore del Corano e di altri testi dottrinali arabi – o studiosi inglesi come Alfredo Sareshell22, Roberto di Chester – presente anche nella scuola salernitana verso il 1150 -, Daniele di Morley che nell’ultimo quarto del secolo XII si occupa di astrologia, ed il filosofo Adelardo di Bath, al quale viene attribuita – come anche a Fibonacci Pisano – l’introduzione in Europa delle cifre arabe23. 

Un caso peculiare di presenza nelle due sedi mediterranee come traduttore e autore originale è rappresentato dallo scozzese Michele Scoto (1175-1236), una delle personalità più ammirate da Federico24. La sua carriera cominciò a Toledo nel 1217, dove in stretta collaborazione con l’ebreo «Abuteus levita», finì la traduzione – anche se restò inedita al pari del testo arabo – del libro di astronomia di al-Bitruji25. Completò anche le traduzioni di Avicenna – così era noto il medico persiano Ibn Sina – e di Aristotele sugli animali, e fece conoscere in Europa i commenti sulla filosofia aristotelica di autori ispanoarabi come Avempace, Averroè, Abentofail o Maimonide, importanti collaboratori alla corte toledana prima dell’arrivo di Alfonso di Castiglia. Lo scozzese lasciò Toledo in data imprecisata e fra il 1220 e il 1224 arrivò in Italia; dopo aver frequentato i circoli papali in epoca di tregua fra Santa Sede e Impero (1124-1227), si trasferì a Pisa e poi alla corte federiciana portando con sé il sapere acquisito in Spagna. Accettò allora l’incarico di astrologo26 e matematico di camera nella corte di Federico Il dove restò fino alla morte nel 1236. Incontrò in Sicilia altri uomini di cultura non soltanto italiani – come Aldobrandino da Siena, Leonardo Fibonacci da Pisa27 o Percivalle Doria -, ma anche di altre nazionalità come il musulmano Moamyn28 , gli ebrei Giacobbe Anatoli29 e Yehudad ben .Shelomo Koben, il provenzale Aimeric de Peguilhan – trovatore occitano che dedica una canzone da crociata all’Imperatore -, il poeta normannò Enrico di Avranches, che verso il 1236 dedica vari poemi arguti a Federico, e perfino due personaggi legati alla curia pontificia i cui nomi latinizzati evocano la loro origine iberica: il Magister Dominicus30 e Petrus Hispanus, futurò papa Giovanni XXI nel 127631. Queste due ultime figure ci possono servire per introdurci nella Spagna coetanea, sebbene prima è necessario fare una breve precisazione sul metodo di traduzione seguito dagli uomini che lavoravano a Palermo. 

Anche se non si hanno notizie sicure al riguardo, qualcosa si può ricostruire dalle osservazioni critiche di un eminente scienziato inglese, Ruggero Bacone (1220-1292), che distingue fra un «tecnico professionale» e un «commentatore» del testo. Occorre, dice, non soltanto conoscere le lingue ma avere una completa padronanza della materia su cui verte 1’opera tradotta; non condivide, inoltre, la metodologia verbum de verbo cioè, letterale – perché serve solo a mascherare l’ignoranza dei traduttori. Ruggero non esita a criticare il pessimo lavoro «meccanico» di due personalità come Gerardo da Cremona o Michele Scoto, e con le sue critiche anticipa quelle delle teorie umanistiche della traduzione. 

Per sommi capi, la traduzione medievale – che seguiva non una ma diverse metodologie e distingueva la versione ad verbum da quella ad sensum – partiva da un canovaccio parola per parola, a volte orale, a volte scritto a modo di glossa nell’interlinea del testo greco o arabo originale. Non era considerato «traduttore» chi faceva questa prima bozza, ma colui che la trascriveva, potendo accadere persino, che il cosidetto «traduttore» – interpres – non conoscesse addirittura la lingua di partenza. 

Tuttavia Ruggero Bacone, che non era traduttore ma usufruiva delle versioni altrui come lettore e studioso, criticò duramente il letteralismo, anche se lo giustificò in due casi: quando le lingue di partenza e di arrivo erano assai diverse, o per motivi «scientifici», cioè quando la materia era molto complicata e conveniva restare il più possibile vicino all’originale per fare poi una glossa o un commento. 

Fatta la precisazione sulle tecniche seguite dai traduttori a Palermo, cambiamo di sede mediterranea. Abbiamo già ricordato che il favoloso mondo culturale di Toledo non era cominciato nell’epoca di Alfonso X di Castiglia, ma alcuni decenni prima durante il regno di suo padre Ferdinando III, detto il Santo (1199 – 1252), coevo dell’imperatore Federico. Pertanto nel secolo e mezzo durante il quale si porta a termine l’ingente lavoro di traduzione della scuola toledana (1130-1287) si può parlare di tre periodi: epoca raimondiana [1130-1187), epoca di transizione (1187-1252) ed epoca alfonsina (1252-1287)32 . 

Gli avvenimenti storici influirono decisamente sul funzionamento della scuola. Toledo, capitale nel 1035 di un importante «Reino de Taifas», fu recuperata da Alfonso VI nel 1085. I cristiani dimostrarono in questo caso la loro intelligenza e cultura rispettando e facendo tesoro dei numerosi manoscritti che si trovavano nelle biblioteche della città33. In questo modo la cultura araba e quella latino-cristiana si fusero, ma grazie a un elemento agglutinante costituito dagli ebrei, i quali oltre ad essere economicamente importanti, in genere erano anche dotti e colti. In numero maggiore che a Palermo, questi ebrei «spagnoli» che fuggivano dall’intolleranza almohade, collegarono due etnie, storicamente nemiche irreconciliabili, che di sicuro non si sarebbero mai affratellate senza il loro tramite34. 

31 Con il nome Petrus Hispanus (1220-1277) si conosceva questo erudito di Lisbona, autore di un manuale di dialettica intitolato Summulae logicales e commentatore di opere mediche di Ippocrate e di Galeno tra altri. È difficile assicurare i suoi rapporti con la corte federiciana prima della morte dell’imperatore ma, come medico di Gregorio X, non bisogna dimenticare il suo interesse per la medicina nel campo delle scienze della natura e del corpo: il suo nome appare negli studi sul piacere provato nei rapporti sessuali o in un esperimento legato alla magia per guarire l’impotenza maschile. La figura serve anche a provare che i rapporti tra la curia pontificia e la federiciana esistevano ed erano più intensi di quanto si credeva. 

La città castigliana era una sede ideale per questo tipo di lavoro di traduzione: disponeva di abbondanti testi orientali, di eruditi che conoscevano le lingue da tradurre, anche se non sempre dominavano le materie che traducevano, e non mancavano i mecenati protettori della cultura e del sapere ecumenici. Il primo di questi benefattori risale alla prima metà del secolo XII: l’arcivescovo don Raimondo35 che sarà il promotore della cosiddetta Accademia, Collegio o Scuola di Traduttori di Toledo. Il personaggio che diede nome all’epoca raimondiana controllò le numerose versioni dall’arabo al latino dovute alla collaborazione tra Domenico Gundisalvo, arcidiacono di Cuéllar36 e il «Magister Iohannes», – così era noto l’ebreo converso Giovanni Hispanus, vescovo di Segorbe37 -, ambedue coevi del Cremonensis. 

Don Raimondo, inoltre, realizzò a Toledo grandi riforme urbanistiche e prese parte al Consiglio e alla Cancelleria reale, funzioni che lo collegano direttamente con i poeti aulici della Magna Curia siciliana. Purtroppo, anche se importante, la sua dedizione al «Colegio de Traductores» non può essere paragonabile a quella di Alfonso X, la quale caratterizzerà l’ultima tappa della scuola toledana. Non ci sono rimaste notizie sicure sugli interventi più o meno personali dell’arcivescovo nei lavori di traduzione, ma nel 1152, dopo la sua morte, la scuola continuò la sua attività culturale, sebbene il successore don Giovanni – vescovo dal 1151 al 1166 – trasferisse 

le attività di traduzione all’interno della cattedrale [cfr. Hernandez]. 

Al contrario, la figura di Alfonso X sarà sempre presente nei gruppi di traduttori fino a quando il re non si dovette occupare dei problemi di politica interna – dal 260 al 127038 -; si interruppero quasi le attività scientifiche della «Escuela de Traductores» le quali spariranno definitivamente con Sancho IV, pochi anni dopo la morte di Alfonso. 

Nei quasi sette decenni considerati di transizione (1187-1252) fra le due tappe auree della scuola toledana, non sono molte le traduzioni39 né i traduttori importanti ad eccezione di tre nomi: il già nominato Michele Scoto che si trovò nel 1217 a Toledo e verso il 1228 in Sicilia; il medico e canonico Marco da Toledo che tra il 1191 e il 1234 tradusse dall’arabo in latino testi di biologia e medicina e, infine, il tedesco Hermann Dalmata che, oltre a vivere anche lui in ambedue le corti40, fu il precursore a Toledo delle traduzioni in castigliano adoperando un testo ebraico. Ci avviciniamo così all’epoca alfonsina, ultimo e più importante periodo della scuola toledana. 

Pervenuto al trono di Castiglia nel 1252, Alfonso X continuerà la tradizione precedente consolidatasi nel centro di traduzione. Nella sua epoca di infante, per iniziativa propria, aveva già fatto tradurre dall’arabo in castigliano il Lapidario (1250) – trattato su minerali e pietre preziose – e dal sanscrito il Libro de Calila e Dimna (1251 – 1252), famosa collana di favole indiane. Come re dovette far coincidere le preoccupazioni politiche proprie della corona con una maggior cura nei riguardi dei diversi gruppi di traduttori i quali, anche se con tecniche ereditate, pare seguissero un procedimento molto più complesso e perfezionato di quello usato dai traduttori della scuola con sede a Palermo. 

Se non sappiamo di sicuro come si realizzassero in Sicilia le traduzioni, sappiamo, però, come venivano elaborate alla corte toledana41. Era necessario un gruppo di varie persone in cui erano presenti un ulema musulmano, un dragomanno «mudéjap – nome con cui erano conosciuti in Spagna i maomettani rimasti fedeli alla loro religione dopo la «Reconquista» cristiana – e un rabbino ebreo che, a voce alta, traduceva il testo originale greco, arabo o ebraico in volgare castigliano, affinché simultaneamente un chierico e un erudito cristiano lo traducesse in latino. Con il tempo, questo curioso procedimento di «traduzione simultanea» subì qualche trasformazione quando il monarca, che partecipava sempre più attivamente ai lavori del gruppo [cfr. Solalinde], decise che le traduzioni fossero fatte sempre in castigliano e, a volte, in altre lingue volgari europee, come il francese. 

Questo desiderio del re di volgarizzare in castigliano i testi potrebbe essere attribuibile a diversi fattori: da una parte, a una volontà chiaramente didattica, dato che molti dei suoi sudditi ignoravano il latino, mentre il castigliano era conosciuto da tutti nei diversi ceti sociali42; e dall’altra ai consigli o suggerimenti dei collaboratori ebrei, più importanti numericamente, che sentivano il latino come una lingua legata alla liturgia cristiana e, come è logico, preferivano non adoperarla. 

Tuttavia, anche se con gli anni il procedimento venne semplificato e perfezionato, il lavoro di gruppo continuava ad essere imprescindibile: un musulmano o un ebreo, conoscitore dell’arabo o del greco, faceva la prima versione orale e volgarizzata del testo; poi l’erudito cristiano aveva il compito di dare a questa lingua castigliana, piena di scorrettezze, uno stile più o meno letterario o, per lo meno, leggibile. I testi e le miniature che illustrano i codici alfonsini ci mostrano con esattezza come il monarca spagnolo controllasse personalmente i lavori di questo gruppo di specialisti, che veniva completato con un correttore – «emendador -, con un compendiatore – «capitulador – e con un glossatore – «glosador – prima di arrivare in mano al copista che lo avrebbe convertito in lingua scritta}}. 

 

Questa premura del re faceva si che la versione definitiva fosse sempre più perfetta possibile43, prestando un’attenzione speciale alla correzione linguistica, sia che si trattasse di traduzioni quanto di opere originali del monarca. 

A questo punto ci possiamo fare una domanda: chi faceva parte a Toledo di questi gruppi di lavoro? Clara Foz assicura che, tra cristiani ed ebrei, erano appena undici gli studiosi nel secolo XII – cinque spagnoli e sei stranieri – di fronte ai quindici – dieci spagnoli e cinque di altre nazionalità – nel secolo seguente. Sebbene il numero di spagnoli fosse superiore, sembra che fosse loro riservata la funzione di semplici collaboratori degli ebrei, questi ultimi veri responsabili delle traduzioni definitive. Fra i traduttori cristiani si possono dare i nomi di Alvaro da Oviedo, Garci Pérez da Toledo, il Magister Bernardus, e alcuni italiani come Thebaldis da Parma, Giovanni da Messina, Giovanni da Cremona o Bonaventura da Siena, i quali, generalmente, lavoravano su testi previamente già tradotti in volgare. I traduttori ispano-ebrei sono più numerosi e anche più importanti anche se, a volte, i nomi ispanizzati si 

confondono. Il re Alfonso apprezzava in modo speciale Judah ben Mose (Mosca il Minore), Isaac Ibn Cid (Rabiçag), Xosse Alfaqui, Samuel ha-Levi Abulafia e Abraham alHakim, noto come Abraham da Toledo. 

Proprio con questo nome avrà luogo una delle più importanti collaborazioni tra la Spagna e l’Italia nel Medioevo. Infatti, verso la metà del Duecento, il medico ebreo Abraham da Toledo tradusse in castigliano Il libro della Scala di Mahoma dell’autore arabo di Murcia Ibn Arabi (11641240). Alfonso X, considerando l’importanza capitale della diffusione dell’opera araba, ne ordinò simultaneamente una versione latina e un’altra francese. Quest’incarico sarà portato a termine nel 1264 dall’italiano Bonaventura da Siena, il quale, arrivato nel 1260 a Toledo con l’ambasciata guelfa di Brunetto Latini, rimase come notaio e traduttore presso la corte alfonsina. Probabilmente una delle sue versioni, quella latina o quella francese, forse addirittura portata a Firenze dal Latini al suo ritorno dall’ambasceria, poté essere conosciuta da Dante ancor prima di scrivere o di immaginare topograficamente la Commedia. L’ipotesi è quanto meno stimolante per gli studi di letteratura comparata: si tratterebbe, senza dubbio, del più importante contributo della scuola toledana alla letteratura italiana, e alla cultura europea, nell’area di tutto il Medioevo cristiano44. 

A modo di riassunto finale, possiamo indicare le differenze tra i due periodi più importanti della scuola spagnola: il latino, adoperato nella prima epoca raimondiana, era idoneo per testi filosofici o di tematica varia in mano a traduttori più «internazionali», mentre nell’epoca alfonsina il volgare castigliano diventò la lingua più adatta per la prosa della storia, per le leggi o per questioni scientifiche45; raggiunse così, attraverso l’impulso del monarca, la categoria di lingua ufficiale, rango che fino allora aveva avuto soltanto il latino46. 

Toledo divenne, quindi, il punto d’incontro di tre culture diverse, e tre comunità etniche e religiose – storicamente inconciliabili – riuscirono a creare con la loro simbiosi e il loro lavoro in comune, un sapere islamico su base spagnola in un momento in cui cominciava in oriente la decadenza del mondo arabo. E la lingua che avevano in comune questi tre nuclei sociali, così diversi fra loro, era il castigliano accettato da tutti e tre con una grande dose di tolleranza. 

Finora sono state messe in evidenza le disparità tra queste due corti in molti dei campi in esse coltivati. Mi sembra, però conveniente, a modo di conclusione, ricordare anche le grandi somiglianze tra i loro rispettivi artefici, e non soltanto nell’ambito delle traduzioni. Infatti, sia Federico II sia Alfonso X avevano un’enorme devozione per l’astronomia e l’astrologia, interesse che fece sì che la leggenda accusasse entrambi di superstizione che altro non era che la credenza nell’oroscopo -, e perfino di empietà e irreligiosità, accusa ben più grave dovuta forse alla smisurata ansia di sapere che animava l’uno e l’altro, certamente incompresa dai loro contemporanei. 

Dopo quanto si è esposto, potremmo concludere con le parole di un grande medievalista spagnolo, Ram6n Menéndez Pidal, il quale afferma che «las vidas paralelas de los dos soberanos dicen que Palermo y Toledo, Sicilia y Espana, ofrecen en el siglo XlI y comienzos del XlII condiciones de vida espiritual muy semejantes, y relaciones directas capaces de determinar la aparici6n de fenomenos equiparables, fen6menos que es necesario estudiar a la vez, pues mutuamente se esclarecen». 

Angeles Arce 

NOTA BIBLIOGRAFICA 
•• Segnalo in primo luogo i volumi generali a cui posteriormente farò riferimento con le sigle corrispondenti: 
– Storia d’Italia. Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, diretta da G. Galasso, Torino, UTET, 1983, vol. III. 
– AA.VV., Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, I (1953), II (1954) e IV (1956), citato come BCSFLS. 
– AA.VV., Federico II e le scienze, a cura di P. Tourbert e A Paravicini, Palermo, Sellerio, 1994, citato come FS. 
– ABULAFIA, D., Federico II. Un imperatore medievale (traduzione italiana), Torino, Einaudi, 1993 (specialmente pp. 211-239). 
– AHMAD, A, Storia della Sicilia islamica (traduzione italiana), Catania, Arco, 1977. 
– ANTONELLI, R., «La scuola poetica alla corte di Federico II>> in FS, pp. 309-323. 
– ASIN PALACIOS, M., La Escatologia musulmana en la Divina Comedia. Seguida de Historia y critica de unapolémica, Madrid, Instituto Hispano-arabe de Cultura, 1961. 
– BALLESTEROS BERETTA, A, Alfonso X el Sabio, Barcelona, Salvat, 1963. 
– BORSARI, S., «F. II e l’Oriente bizantino» in Rivista storica italiana, Torino, 63 (1951). 
– BRUGNOLO, F., «La scuola poetica siciliana» in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, Roma, Salerno Ed., l, 1995, pp. 265-337. 
– BRUNI, F., «La cultura alla corte di F. II e la lirica siciliana» in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Bàrberi Squarotti, Torino, UTET Libreria, I, 1990, pp. 211-273. 
– BURNETT, C., «Michele Scoto e la diffusione della cultura scientifica» in FS, pp. 371-394. 
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* Note
(*) Angeles Arce è docente di Letteratura al Dipartimento di Filologia Italiana dell’Università Complutense di Madrid. Si occupa di letteratura comparata ispano-italiana e di diversi aspetti della cultura settecentesca. 
l Senza dimenticare Costantinopoli, che fu nel secolo XII un importante centro di traduzione a scopo fondamentalmente apologetico o polemico-religioso, in questa sede farò riferimento soltanto ai due centri stabiliti nel Mediterraneo occidentale. 
2 Il termine Magna Curia. o quello di Magna imperialis curia. faceva coincidere, in un ampio spettro, sia il tribunale di corte e tesoreria. sia il palatium o residenza reale dove familiari, funzionari, consiglieri o collaboratori accompagnavano il monarca, e tra questi, anche poeti intellettuali (cfr. Kolzer). 
3 Anche se risulta comoda la denominazione di «escuela. per questa attività di traduzione che si verifica nei secoli XII e XIII. è necessario fare ulteriori chiarimenti giacché il termine può risultare ambiguo e poco preciso per una mentalità attuale (cfr. Foz).
Federico II (1194-1250) – duca di Svevia, Imperatore del Sacro Romano Impero e Re delle Due Sicilie e di Gerusalemme4 -, è di alcuni anni anteriore ad Alfonso X el Sabio (1221-1284), re di Castiglia e Leòn dal 1252 ed 
4 Per la parte storica e biografica cfr. Kantorowicz, Manselli, Pepe e Morghen. 
5 Le pretese al trono imperiale di Alfonso si basavano sui diritti del nonno materno. duca di Svevia. che era stato riconosciuto come imperatore della Germania (cfr. tra altri Ballesteros e. più recente. D’Agostino; malgrado il promettente titolo. è privo d’interesse l’articolo di Montes). 
6 Conviene non dimenticare che lo stesso Federico II fece istituire alla Schola Salernitana la prima cattedra europea di anatomia. in cui si sperimentava su cadaveri umani quando ancora a Bologna era proibita la dissezione. Purtroppo, questa scuola medica. che raggiunse fin dai suoi inizi fama internazionale, si trasformò all’epoca di Federico II in un istituto superiore di importanza più locale (Cfr. Morpurgo). 
7 Conosciuto anche come poeta laudatorio di Enrico VI e Federico Barbarossa, è autore di un trattato medico-biologico, De balneis Puteolanis, sull’efficacia dei bagni termali di Pozzuoli.
8 De vulgari eloquentia, 1. I. cap. 12. L’idea di primazia della scuola fu ripetuta da Petrarca nel Triumphus Cupidinis (IV, 33). 
9 Senza dimenticare gli studi «classici» su questo periodo del Folena, Contini o Monteverdi e la ricca bibliografia di Roncaglia; rimando anche ai lavori di Elwert, Brugnolo e Antonelli. 
10 Per questo tema cfr. Ribezzo e Rizzo. 
11 Cfr. Borsari, Collura o Cavallo. 
12 Cfr. Gabrielli, Pagliara, Tramontana e Ahmad.L’Italia del Duecento era divisa, approssimativamente, in tre ampie zone geografiche e linguistiche. Nel Nord esistevano numerose corti feudali, economicamente ricche, la cui lingua di cultura presentava alcune caratteristiche comuni con il francese o il provenzale. Nell’Italia centrale era presente la Chiesa cattolica e la sua lingua ufficiale si avvicinava alquanto ai caratteri linguistici del neolatino orientale, quando ormai il popolo non usava più il latino. Nel Mezzogiorno c’era poi un’unica corte normanna, solidamente centralista anche se mobile, in cui coesistevano il greco, l’arabo, il latino e, in minor grado, l’ebraico.
13 Un’allusione a ciò si può leggere nel Novellino, XXI. Federico Il è anche il protagonista in altre sette novelle della raccolta: Il, XXII, XXIIl, XXIV, LIX, XC e C. 
14 È probabile che questo sia un discendente del gran Saladino (l137 – 1193), noto nel mondo occidentale per la sua giustizia e benignità, per cui si converti in un personaggio abituale delle letterature romanze anche se visto con delle ottiche diverse. In Italia, per esempio. il Saladino appare legato al tema della tolleranza religiosa e dell’astuzia (Novellino, XXV e LXXlIl, – anche la LI dell’edizione del Borghini del 1572 -; Dante, Convivio IV, XI, 14 e anche Inferno, IV, 129; Boccaccio, Decameron 1,3 e X,9). La Francia lo associa ad un atteggiamento epico-cavalleresco che fa dire ad Americo Castro che il Saladino francese ha più di francese che di Saladino (Hacia Cervantes, Madrid, Taurus, 1960). E finalmente, la Spagna lo associa non al tema religioso, bensì a una condotta morale: nella Gran Conquista de Ultramar – modello di prosa storico-narrativa della fine del Duecento, anche se la prima stampa è del 1503 -; in due novelle – la XXV e la L – di El Conde Lucanor (1335) del nipote di Alfonso X l’infante Don Juan Manuel (1282 1348), e già all’inizio del Quattrocento, nella cronaca intitolata Mar de Historias di Fernan Pérez de Gusman (1376-1460). 
15 Questa tesi è difesa da Abulafia che ribatte in certo modo le teorie classiche di Haskins. 
16 Seguo le informazioni che dà Ramon Menéndez Pidal.
17 Un secolo dopo sembra che un certo Johanes de Dumpno, figlio di Philippus, tradusse dall’arabo in latino i canoni delle tavole planetarie come Muqtabis (1262). il cui manoscritto si conserva nella Biblioteca Nazionale di Madrid (ms. 10023). 
18 Questo fatto sembra doppiamente significativo perché serve anche a dimostrare che quando uno studioso italiano voleva aggiornarsi sulla cultura arabo-bizantina, non partiva per Bisanzio o per l’Egitto – che avevano scambi e rapporti con le repubbliche di Venezia o di Genova – e non andava nemmeno in Sicilia, bensì s’indirizzava verso Toledo, città dalla quale certamente aveva puntuali notizie. 
19 Nei documenti della cattedrale toledana compare come «Girardus dictus magister» tra gli anni 1174 e 1176. 
20 Fra le traduzioni, quella del libro De proprietatibus di Ibn al Jazzar o il De physicis ligaturis di Qusta ibn Luga – che legava la magia alla medicina -, nove trattati medici di Galeno – disponibili per la prima volta in latino -, o importanti opere arabe di medicina come il Canone di Avicenna, il Breviarium di Serapione o la Chirurgia di Albucasis. In collaborazione con Giovanni di Siviglia, Gerardo tradusse un compendio astronomico di alFarghani, che Alfonso terrà in gran considerazione.
21 Traduttore, verso il 1136, delle tavole planetarie di al-Battani, anche se se ne conoscono soltanto i canoni. 
22 Fu il primo commentatore delle Meteorologiche di Aristotele e, considerando che il testo era incompleto, vi aggiunse tre capitoli suoi originali che si pubblicano sempre insieme al testo aristotelico. . 
23 Adelardo tradusse le tavole di al-Khwartzmi, in cui si basa tutta la tradizione planetaria occidentale, ed è autore originale del De avibus tractatus, un vero trattato sulla falconeria che tanto piaceva a Federico. 
24 Su Michael Scotus cfr. Haskins, Manselli, Burnett o Gil. 
25 Famoso astronomo ispanoarabo, noto alla corte cristiana come Alpetragius, la cui opera De Sphaera contribuì alla diffusione del sistema cosmografico aristotelico di fronte al tolemaico (citato da Dante nel Conv., III, 2,5). 
26 La sua fama di astrologo e indovino si estese per tutto il Medioevo giacchè i tre libri del Liber introductorius – non stampato fmo al 1477 a Venezia – sono una specie di enciclopedia del pensiero astrologico dell’epoca federiciana, con importanti contributi anche nel campo dell’alchimia e della magia (Dante include lo Scoto nell’Inferno; XX, vv. 115-117). 
27 Considerato come il primo grande matematico dell’Occidente latino è autore del Liber quadratorum e del Liber abaci, la cui edizione del 1228 è dedicata proprio allo Scoto. Il Fibonacci sembra aver introdotto in Occidente lo zero e la numerazione arabica. 
28 Il suo famoso libro sulla caccia fu tradotto come De scientia venandi dal maestro Teodoro di Antiochia, un cristiano giacobita che successe a Scoto presso l’imperatore. Il testo latino corretto, a quanto sembra, dallo stesso Federico fu saccheggiato dal monarca con altre opere dello stesso argomento del suo De arte venandi cum avibus. 
29 G. Anatoli si trovava a Napoli intorno al 1230 e tradusse in ebraico il compendio astronomico di al-Farghani e l’Almagestum tolemaico (cfr. Colafemmina). Sugli Ebrei e l’Italia, cfr. Sinat, Milano e Sterno 
30 Dominicus o Santo Domingo de Gusman (1170-1221), fondatore dell'”orden de predicadores’ quando l’ordine di San Francesco era ancora in gestazione, rappresenta la lotta “pacifica» contro l’eresia di fronte alla “moda» delle crociate.
32 Questa cronologia viene fissata da José S. Gil., p. 17. 
33 Anche se antico è interessante il saggio di J. Pérez de Guzmàn. Cfr. anche Millàa. 
34 Sugli ebrei presso la corte alfonsina si possono consultare Castro, Romano, Leon Tello e Gil. Nell’ambito italiano si può tener presente lo Stern e Milano. 
35 Si tratta di Raimundo de Salvetat, originario della Guascogna, vescovo di Osma nel 1109 e arcivescovo di Toledo dal 1126 al 1152 (cfr. Gil pp. 19-52). 
36 In un latino letterario il Gundisalvo o Gundissalinus tradusse diverse parti dell’enciclopedia filosofica di Avicenna e «corresse» la traduzione di un’opera scientifica di al-Farabi fatta poco prima da Gerardo da Cremona. La sua versione de Il libro degli allumi e dei sali fornisce il materiale per i posteriori lavori d’alchimia o magia scientifica (cfr. Gil, pp. 3843, e anche Garcia Fayos). 
37 Questo Iohannes Avendehut è uno dei più importanti intellettuali del momento e traduttore in latino, tra il 1130 e 1180, di libri su astrologia, astronomia, filosofia, medicina e matematica (cfr. Gil pp. 30-38 e anche Rivera Recio). 
38 Alfonso X dovette affrontare. tra l’altro, l’avanzata della «Reconquista» per l’Andalusia fino a Cadice. la pacificazione di Murcia – aiutato dal suocero Giacomo I d’Aragona noto come «el Conquistador» -. la questione del Portogallo e anche un altro fatto che ancora una volta lo avvicina a Federico II: il pretendere nel 1257 la corona del Sacro Romano Impero, come nipote per parte materna dell’ultimo imperatore germanico prima del Grande Interregno (1250-1273). Proprio per questo motivo venne a Toledo nel 1260 Brunetto Latini. come ambasciatore dei guelfi fiorentini. 
39 Verso il 1231 sembra sia stato tradotto in latino il trattato astronomico di al-Zarqalluh da Guglielmo l’Inglese e da Yehudah ben Moshé che ebbe rapporti epistolari con filosofi della corte federiciana (cfr. Millas). 
40 Si sa che Hermannus Teutonicus lavorò a Toledo e, tra il 1240 e il 1256, partì per Napoli al servizio di Manfredi fino al 1266, quando ritornò al regno di Castiglia dove fu vescovo di Astorga fino al 1272 (cfr. Gil. pp. 52-56).

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 9-27.