Shakespeare e i romantici 

Wilhelm Meister, protagonista dell’omonimo romanzo di formazione di Goethe, legge Shakespeare e ne rimane folgorato. Nella prima parte de Gli anni d’apprendistato di Wilhelm Meister1, il distacco da una famiglia borghese di solidi mercanti e l’incontro con una compagnia di attori sarà determinante per il giovane Wilhelm (forse già profetica versione tedesca di William) e per la sua evoluzione spirituale, segnata profondamente dalla scoperta della possente e umana verità che muove il mondo di Shakespeare, e soprattutto dalla lettura, illuminante, dell’Amleto. 

I romantici furono gli ammirati costruttori di un’interpretazione psicologica e problematica del personaggio di Amleto: un intellettuale imprigionato nei labirinti del pensiero, dentro oscuri interrogativi mai soddisfatti sull’uomo e sul suo destino. «It is we who are Hamlet»2. Con questa frase Hazlitt sottolineò la presenza di un teatro della mente, una corrispondenza rivelatoria, universale, tra lettore (o spettatore) e personaggio. 

Amleto, scriverà Coleridge, è un punto di partenza nella strada della speculazione filosofica; è l’opera di Shakespeare che più di ogni altra riflette il genio del suo creatore3. 

Nel dibattito tra classici e romantici, a sostegno delle idee ‘moderne’ sulla poesia e sull’arte, Shakespeare diventa un simbolo del nuovo spirito, e accanto a lui compaiono i nomi di Omero, Dante, Milton. 

Il nazionalismo storico ottocentesco contribuì certamente a consolidare la coscienza di una pluralità di letterature differenziate, e in questo modo venne dato impulso ad una maggiore circolazione di opere straniere, di traduzioni, di scambi. Uno dei risultati più significativi fu il diffondersi delle idee intrise di un rinnovato senso di spiritualismo provenienti dalla Germania, che da più parti sottolineavano l’universalità della facoltà poetica e il primato dell’immaginazione. 

Così, l’opera di Shakespeare, nel corso del Settecento avversata da illustri detrattori come Voltaire, che, ribaltando una posizione inizialmente favorevole, la giudicò rozza e priva di gusto4 rappresentò, nell’Ottocento romantico, un esempio di quella ricerca del sublime che in Inghilterra aveva preso le mosse dal trattato di Burke5. Il sublime veniva codificato come una nuova categoria estetica che trascendeva i canoni classici del bello formale, per affermare una visione grandiosa, irregolare, spesso oscura o terrifica, ma capace di suscitare una profonda risonanza emotiva. L’atmosfera di cupa attesa e di sospensione all’inizio del primo atto dell’Amleto, seguita dall’apparizione dello spettro, è letta da Coleridge in questi terrnini: «It does indeed convey to the mind more than the eye can see»6. Un approccio all’arte che diventa psicologico e che in poesia come in pittura apre la via ad una visione non mediata della natura, e a quello che sarà il soggettivismo romantico7. 

L’irregolare poeta del teatro elisabettiano offriva un modello drammatico che non poteva essere uniformato agli ideali classici e neo-classici di poesia epica, lirica e tragica, riconducibili maggiormente a Virgilio, Petrarca e Racine. Ma fu proprio nella mescolanza di stili e di generi (tragico, comico, patetico) e nel rifiuto pressocché totale delle unità aristoteliche, che Shakespeare ebbe un ruolo importante nella trasformazione del sistema letterario europeo in senso moderno. 

È celebre la battuta di Polonio nel secondo atto dell’Amleto, dove in un arguto gioco linguistico vengono proiettate le innumerevoli combinazioni dell’invenzione drammatica: 

The best actors in the world, either for tragedy, 
comedy, history, pastoral, pastoral-comical, 
historical-pastoral, tragical-historical, tragical- 
comical-historical-pastoral, scene individable or 
poem unlimited. Seneca cannot be too heavy nor 
Plautus too light. For the law ofwrit and the liberty, 
these are the only men8. 

Un effetto qui chiaramente parodico, ma che esprime una tensione intrisa di scetticismo verso una realtà inafferrabile e in continua trasformazione, che tanto assomiglia all’anelito perenne del poeta romantico, non di rado declinato nelle forme dell’ ironia. 

Il «modello shakespeariano» passò anche grazie alle monumentali traduzioni che già sul finire del Settecento circolavano in Europa; basti citare Le Tourneur in Francia, o Schlegel e Tieck in Germania, e l’immaginario romantico si nutrì del mondo multiforme e dei personaggi creati da Shakespeare. 

La passione per il bardo ebbe tuttavia un suo contraltare ideologico che svela un orientamento anti-francese: le lezioni di A. W. Schlegel così come alcune conferenze shakespeariane di Coleridge vengono concepite all’ombra dell’espansionismo napoleonico. A. W. Schlegel tiene le sue lezioni nel 1808 in una Vienna occupata dai francesi, e la stessa Madame de Stael, sostenitrice del nuovo vento letterario proveniente dalla Germania, e ammiratrice di Shakespeare, sarà esiliata da Napoleone per ben due volte, nel 1803 e nel 1806. 

Contro le tendenze egemoniche e paneuropee della Francia e della cultura neo-classica, i cui precetti si erano diffusi in Europa soprattutto attraverso l’opera di Boileau9, Shakespeare rappresentava una individualità poetica che, secondo Herder10, nasceva piuttosto da una tradizione nazionale e nordica, da una lingua e da un teatro nazionali. E al tempo stesso i filosofi romantici sottolinearono il valore universale del genio shakespeariano: A. W. Schlegel definì Shakespeare su «Athenaum» come «il vero e proprio centro, il nocciolo della fantasia romantica»11. 

Coleridge è stato un importante mediatore tra Germania e Inghilterra, e la sua teoria del genio appare improntata sul pensiero di Kant come di Schelling e Schlegel. Il genio per prima cosa doveva essere oggettivo ed esprimere l’universalità e la verità della natura umana nella lingua stessa della natura, conferendo così alla poesia unità di sentimento. 

E contemporaneamente, in Shakespeare, il genio coincide con la capacità poetica di creare e trasformare: l’atto creativo è esso stesso fusione in una unità12. Coleridge interpreta la scrittura drammatica di Shakespeare all’interno di una visione organicistica che contiene una sintesi di matrice idealista tra due principi opposti: il dramma è «una syngenesia (una specie di fiore), ciascuno ha invero una propria vita ed è un individuum, ma è nello stesso tempo un organo dell’insieme»l3. 

La questione della verità come aderenza alla natura rimbalza alla critica romantica inglese dalla autorevole voce di Johnson, che nella prefazione alla sua edizione di Shakespeare del 1765 lodava il drammaturgo quale sommo poeta della natura, assolvendolo così dalla mancata osservanza dei precetti classici. Una ammirazione oscurata tuttavia da alcune ombre. 

Come annoterà Hazlitt14 più di un cinquantennio dopo, Johnson giudicava la natura nella sua regolarità, secondo un’idea di ordine proveniente dal senso comune, così che il poeta doveva essere pittore della natura; ma è una natura che, secondo Hazlitt, appare in ultimo come morta. Le tinte fosche o i bagliori improvvisi non potevano interessare l’intellettuale-simbolo dell’età augustea, attento al disegno generale piuttosto che all’originalità del particolare. 

Nei personaggi shakespeariani, soprattutto nei grandi eroi tragici, Amleto, Otello, Macbeth, Lear, convivono passioni contrastanti, e l’universalità della natura umana si riflette, e persino si compie all’interno di un destino individuale. 

Da Stendha115 a Manzoni emerge l’idea della verosimiglianza nella rappresentazione della storia e dei personaggi. In Shakespeare passioni e azioni si combinano secondo frequenze dai toni più diversi, e l’effetto è un senso di realtà. 

Nella Lettre manzoniana16 a Chauvet, l’Otello viene preso ad esempio del nuovo sistema tragico, in opposizione alla Zaira di Voltaire. 

Il tema d’ella gelosia, corrispondente nelle due tragedie, trova nella creazione dei personaggi di Shakespeare una forza genuina, che per Manzoni viene dalla verosimiglianza nella resa dei sentimenti, in relazione ad un percorso unitario in cui anche gli oggetti (il ruolo centrale del fazzoletto) posseggono un proprio, naturale valore drammatico. Il fazzoletto è un potente strumento che risuona cupo nella mostruosa trama di Iago: 

Her honour is an essence that’s not seen; 
They have it very oft that have it noto 
But for the handkerchief. .. 17 (IV, l) 

E Iago apparirà alla critica romantica come «il male senza ragione», nella famosa espressione di Coleridge18, il male che travolge gli uomini e i loro destini, «il male per il male»19, scriverà Croce nel primo Novecento. 

La fascinazione per il male, per gli abissi oscuri della mente, incubi o sogni, sarà un tratto riconoscibile di tutta la cultura romantica e oltre, che attinge all’immaginario shakespeariano producendo incroci e passaggi tra le arti: musica, pittura, letteratura. Dalle composizioni di un giovane Berlioz che dedica una sinfonia drammatica all’amore di Romeo e Giulietta, al melodramma ottocentesco, ritroviamo titoli e opere ispirate direttamente al teatro di Shakespeare; e se l’Otello più celebre rimane oggi quello di Verdi, Rossini lo aveva musicato nel 1816 e fu al tempo un’opera molto amata. 

Dall’incubo al sogno, la pittura di Fussli ha saputo modulare i temi di un’arte che tende al sublime; e compaiono visioni magiche e oniriche popolate di elfi e fate tratte dal Sogno di una notte di mezz’estate, oppure lo squarcio infernale che illumina i volti scarni, contorti in una smorfia deforme, delle streghe di Macbeth. O ancora, sarà l’ennesima lettura della storia di re Lear ad offrire a Keats una meditazione poetica su quello che definisce «the bitter sweet of this Shakespearian Fruit»20. 

E infine anche il romanticismo francese tributerà il suo omaggio senza riserve al genio shakespeariano. Nella prefazione al Cromwell, datata 1827 e considerata manifesto del movimento, Victor Rugo scriverà: «Shakespeare è il teatro». Un teatro in cui grottesco e sublime, tragedia e commedia risuonano nel medesimo afflato. Un teatro che eternamente muove l’umanità, e nel quale ancora si rispecchia il nostro presente. 

Maria Paola Altese 

NOTE 

1 W. Goethe, Wilhelm Meisters Lehrjahre, 1796. La redazione del Meister attraverserà un lungo arco di tempo e l’ultima edizione sarà pubblicata nel 1829. 
2 «Amleto siamo noi.» W. Hazlitt, Characters oj Shakespeare’s Plays, «Hamlet», London, 1817. 
3 S. T. Coleridge, Lectures on Shakespeare, 1813. Sulle interpretazioni romantiche di Shakespeare si veda J. Bate (a cura di), The Romantics on Shakespeare, 1992. 
4 Voltaire, Leures écrites de Londres sur les Anglois, Paris, 1734. 
5 E. Burke, A Philosophical Enquiry imo the Origin oj our ldeas oj the Sublime and the Beautiful, 1757. 
6 «Essa trasferisce alla mente più di ciò che gli occhi sono in grado di percepire.» S. T. Coleridge, Lectures on Shakespeare in J. Bate cil. p. 311 . 
7 Si veda in proposito S. Perosa, Transitabilità, Palermo, 2005. 
8 «I migliori del mondo per tragedia, commedia, storia, pastorale, pastorale comica, pastorale storica, tragedia storica, pastorale tragicomicostorica, scene a
composizione e poema a filastrocca. Seneca non può essere troppo grave né Plauto leggero per questa gente. Per lavori scritti o capricci inventati sono i soli.» (Il, ii). Amleto, trad. il. di E. Montale, in Teatro completo di William Shakespeare a cura di G. Me1chiori, Milano, 1994. 
9 N. Boileau, L’Art Poétique, 1674. 
10 J. G. Herder, «Shakespeare» in Von deutscher Art und Kunst, 1773. 
11 Si veda in proposito A. O. Lovejoy, Essays in the History oj Ideas (1948), trad. il. L’albero della conoscenza, Bologna, 1982, p. 129. 
12 Sui debiti verso i filosofi tedeschi nel pensiero critico di Coleridge si veda R. Wellek, Storia della critica moderna, «L’età romantica», cap.V1, Bologna, 1990. 
13 R. Wellek, cit. p. 186-187. 
14 W. Hazlitt, cit. 
15 H. B. Stendhal, Racine et Shakespeare, 1823. 
16 A. Manzoni, Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, 1819, pubbl. 1823. 
17 «Il suo onore è un’essenza che non si vede / Spesso ce l’hanno quelli che non l’hanno / Ma in quanto al fazzoletto…» (IV, I) W. Shakespeare, Otello, trad. it. a cura di A.
Lombardo, Milano, 1996. 
18 S. T. Coleridge, Coleridge’s Shakespeare Criticism, edited by T. M. Raysor, 1930. 
19 B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, 1920. 
20 «La dolcezza amara di questo frutto shakespeariano.» J. Keats, On Sitting down to read King Lear once again, in Poems, 1817. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 21-24.




 Il peccato dello straniero riflessi mitici nell’Othello di Shakespeare 

di Maria Paola Altese 

C’è in Otello la fascinazione dell’esotico e una suggestiva dissonanza nella costruzione drammatica del personaggio. Egli è infatti il «Moro di Venezia», un guerriero nobile e valoroso ed anche, unico tra i potenti generali al servizio della Repubblica, uomo dalla pelle nera con evidenti connotazioni di wildemess. Uno straniero dunque, che in una terra non nativa viene accolto e legittimato in funzione delle sue doti militari. 

Per il suo personaggio, protagonista dell’omonima tragedia scritta intorno al 1603, Shakespeare trasse ispirazione da fonti riconosciute nella tradizione novellistica italiana1, ma la diversità etnica di Otello trascende l’uso di un modello letterario, seppure significativo e si innesta su un terreno vastissimo di implicazioni culturali che ne giustificano le innumerevoli letture sia sul piano meramente critico che dell’interpretazione scenica. 

La questione qui esaminata è legata all’esito tragico del personaggio di Otello che nello sviluppo della vicenda mantiene la sua condizione di alterità, anzi, questa viene esaltata drammaticamente in un progressivo auto-isolamento all’interno di pensieri ossessivi e malati2. 

Così, il piano di lago ai danni del Moro agisce doppiamente come una perversa macchinazione che punisce l’ orgogliosa diffidenza dello straniero. 

(But he, as loving his own pride and purposes, I, l) e al contempo svela l’ingenuità di chi rimane alla superficie di una cultura non pienamente assimilata (l’insistenza di Otello nell’appellare Iago honest). 

Non a caso, contro l’interpretazione romantica ed eroica di Otello che soccombe di fronte al «male senza ragione» (a motiveless malignity, scriveva Coleridge) rappresentato da Iago, la linea interpretativa inaugurata da T.S . Eliot e seguita da Leavis3 ha avuto il merito storico di mettere in evidenza un tratto di egotismo e di ottusa autocelebrazione di un eroe che nell’ultimo monologo sembra ridotto a stereotipo tragico. 

La fondamentale dicotomia tra una visione prevalentemente idealistica e una visione anti-romantica, riemerge variamente nell’articolato percorso della critica che di volta in volta ha sottolineato (sebbene attraverso sempre nuove prospettive e mode letterarie) aspetti legati all’attitudine visionaria e trascendente della mente di Otello come di lago4, oppure, dall’altro lato, ha evidenziato contingenze ideologiche quali il tema del potere esteso anche alla sfera della sessualità5, e che si riflette nelle interazioni tra i personaggi e nella struttura drammatica. 

Ma ritornando all’impianto tragico della vicenda, soffermiamoci sulla questione della colpa. Perché non è soltanto Iago, tra i più perfetti villains shakespeariani, come ha osservato Harold Bloom6, una anticipazione del satana miltoniano, ad avere la colpa di tessere la caduta dell’eroe, ma è Otello stesso che sin dall’inizio appare segnato da un oscuro peccato originale. 

Questo va oltre il torto ai danni di lago quando Otello gli preferisce Cassio come suo luogotenente, il «peccato» di Otello è quello di uno stranger che ha varcato una frontiera culturale sulla base di una eroica reputazione pubblica: egli è comunque un Moro che si unisce con una bianca e giovane nobildonna veneziana. E la fuga d’amore dei due, nottetempo verso nozze segrete, non basta a cancellare negli altri oscene fantasie di accoppiamento. 

Durante il primo atto lago e Roderigo informano il padre di Desdemona: 

Even now, now, very now, an old 
black ram / Is tupping your white ewe. 
A rise, arise! / Awake the snorting citizens 
with the bell, / Or else the devii will 
make a grandsire ofyou7, (I, I) 

Le fantasie suggerite da lago a Brabanzio si evolvono culminando in un’immagine da bestiario medievale («vostra figlia e il Moro stanno facendo la bestia a due groppe»). 

Prima ancora della nobile e valorosa immagine di Otello, Shakespeare ci consegna, attraverso le parole di Iago, un personaggio il cui colore della pelle si estende a connotazioni peccaminose e bestiali. 

Otello non è certo un «Moor» sanguinario, il «super-villain» Aroon dipinto in Titus Andronicus, ma segretamente, in un’ottica che oppone pubblico e privato, pesa in lui una doppia natura, il soldato valoroso e il Moro lascivo, una doppia immagine che richiama la medesima doppiezza di lago. 

E il tema del doppio coinvolge anche il personaggio di Desdemona che Otello comincerà ad immaginare come prostituta, richiamando così la figura di Bianca nel suo legame con Cassio. 

Was this fair paper, this most goodly book, / Made to write «whore» upon? What committed! / Committed! O thou public commoner!8. (IV, II) 

Eppure nel primo atto Otello aveva difeso davanti al Doge la sincerità del suo amore per Desdemona, ricordando come lei si era innamorata mentre ascoltava il racconto delle sue imprese eroiche in terre lontane. 

She lov’d me for the dangers I had pass’d, / And I lov’d her that she did pity them. / This only is the witchcraft I have us’d9. (I, III) 

È dunque Desdemona che per prima s’innamora di Otello e dal suo desiderio verso uno straniero di colore che nelle parole di Brabanzio è «contro ogni legge della natura» ha origine la sua condanna ad un destino tragico, che viene adombrata nel risentimento paterno: 

Look to her, Moor, if thou hast eyes to see: / She has deceiv’d her father, and may thee10. (I, III) 

Possiamo ipotizzare, nella tessitura della vicenda di Otello e Desdemona, l’utilizzo da parte di Shakespeare di un sotterraneo riferimento mitologico che condurrebbe all’immagine mostruosa del Minotauro e al mito di Arianna, ad esso collegato. 

Shakespeare, che in Otello non menziona mai direttamente elementi legati ai due miti, aveva utilizzato l’immagine del Minotauro nell’Enrico VI (1591), dove il conte di Suffolk si guarda dall’avventurarsi nel labirinto degli intrighi perché lì «si nascondono Minotauri e perfidi tradimenti». L’allusione, che però non viene ulteriormente sviluppata, è probabilmente sia ad una categoria generale di mostri (associati all’idea del tradimento) che al figlio di Pasifae e del toro. E certamente anche all’interno di una autorevole tradizione medievale da Dante a Boccaccio, a Chaucer, compariva variamente questo tema. 

Il Minotauro è un mostro metà toro e metà uomo la cui mostruosità risulta dal modo in cui è stato generato. Ed è la sua preistoria ad essere ancora più significativa della sua storia, che lo vede confinato nel labirinto, fino a che Teseo non lo uccida. Frutto del desiderio illecito della regina Pasifae per il toro che Poseidone reca in dono a Minosse, il Minotauro è il simbolo osceno di una natura bestiale e libidinosa. Nell’attrazione per Otello, Desdemona si proietta in una parabola mitica che apre uno spazio verso un segreto desiderio femminile al di là di un legittimo confine etico e culturale, che già nella scelta di un’ambientazione italiana e soprattutto veneziana11, sembra spostato in avanti: Iago: I know our country disposition well; / In Venice they do let heaven see the pranks / They dare not show their husbands12 (III, III), ma che in ultimo sarà punito. 

E Otello, il «Moro libidinoso» in preda ad una «mostruosa» gelosia e vittima di una altrettanto «mostruosa» cospirazione ad opera di lago, teme il doppio volto di Desdemona, l’idea di una insopportabile sessualità femminile il cui simbolo più eloquente sarà il fazzoletto che la sposa «lascia cadere distrattamente». 

Shakespeare potrebbe essersi rivolto anche al mito di Arianna che aiuta l’amato Teseo ad uscire dal labirinto dopo che il giovane ateniese uccide il Minotauro. 

Nel Rinascimento il mito di Arianna viene celebrato nella duplice immagine di Arianna abbandonata da Teseo e in quella di Arianna sposa di Bacco13. 

Nel caso di una possibile ripresa della figura di Arianna nella Desdemona shakespeariana, il tema utilizzato riguarderebbe l’eroina abbandonata (su di un’isola come recita il mito). Dunque nella canzone del Salice cantata da Desdemona risuonerebbe lo stesso lamento di Arianna vittima dell’abbandono di Teseo. E in effetti Shakespeare introduce un passaggio che afferma un’origine femminile e lontana di quella canzone, nelle parole di Desdemona: 

My mother had a maid call’d Barbara; / She was in love, and he she lo ve ‘d prov’ d mad / And did forsake; she had a song of «willow»; / An old thing ‘twas, but it express’d her fortune, / And she died singing it14 (IV, III) 

In Desdemona convivono due immagini opposte: Pasifae che trasgredisce «contro ogni legge di natura», ed Arianna che piange per il suo abbandono, vittima di un ordine tutto maschile del mondo. E quale, all’ interno di questo schema, il ruolo di lago, se non quello dell’artefice, costruttore satanico (che poi è il rovescio di divino) di una architettura della mente in cui si mescolano realtà e illusione? C’è in lui un’impronta del mitico inventore del labirinto, e la sua malvagità si trascende infine in un’urgenza estetica: 

Virtue! Afig! ‘tis in ourselves that we are thus, or / Thus. Our bodies are our gardens, to the which our / Wills are gardeners15 (I, III) 

Secondo una visione rinascimentale, il labirinto viene collegato ad una esperienza soggettiva intricata ed oscura (l’immagine del labirinto associata al 

tema della foresta compare ad esempio nel XXII canto dell’Orlando Furioso). In Shakespeare il topos del labirinto compare in A Midsummer Night’s Dream (1595). Qui il bosco. teatro dei sortilegi e delle schermaglie magiche tra Oberon e Titania, diventa un luogo abitato dagli spiriti, «haunted grove»; ed è un mondo alla rovescia: il corso delle stagioni sospeso e gli uomini che dimenticano di danzare e di attraversare i labirinti: («And the quaint mazes in the wanton green / for lack of tread are undistinguishable»16 II, I). 

L’espressione «to tread a maze» riprende l’idea di un uso rituale del labirinto, non solo effetto di un sortilegio, ma anche simbolo del mondo nella sua esistenza ingannevole, metafora stessa del gioco teatrale che svela la continua tensione tra realtà ed apparenza. 

I am not what I am (I, I). 

Realtà e finzione, redenzione e colpa, come bianco e nero, in Otello diventano simboli interscambiabili, archetipi culturali dalle inesauribili possibilità interpretative; e così il «nero» di Otello si riflette progressivamente negli altri personaggi, come è stato evidenziato in una suggestiva rilettura teatrale di Carmelo Bene17, in cui 1’effetto più significativo è proprio lo scambio cromatico tra l’eroe e il villain: un Otello sbiancato e uno lago clamorosamente nero. 

Il peccato dello straniero ritorna attraverso modulazioni diverse, un complesso «teatro dell’invidia», come ha scritto Girard18, il cui motore è infine un mitico desiderio dell’altro da sé. 

Maria Paola Altese

NOTE 

1. «L’unica fonte delle grandi linee dell’intreccio di Othello è la settima novella della terza decade degli Hecatommithi di Gian Battista Giraldi Cinthio (1565), novella della quale non esisteva alcuna traduzione inglese, ma soltanto una francese nel Premier Volume des Cent Excellent Novelles di Gabriel Chappuys (1584)». Alcuni particolari derivano probabilmente da altre fonti: da una novella del Bandello e perfino dall’Orlando Furioso (tradotto in inglese nel 1591). G. Melchiori (a cura di), Teatro completo di William Shakespeare, vol. IV, Le Tragedie, Milano, 1995. 
2. In proposito si veda uno studio fondamentale di A. Serpieri, Otello: ,’eros negato: psicoanalisi di una proiezione distruttiva, Milano, 1976. 
3. T.S. Eliot, Selected Essays, London, 1932; ER. Leavis. Diabolic Intellect and The Noble Hero, 1952. 
4. «Il dramma tragico non deve essere per forza metafisico, ma lago, che dice di non essere altro che critico, non è altro che metafisico. La sua grandiosa vanteria: «Io non sono quello che sembro» ricorda volutamente il «Per grazia di Dio,io sono quel che sono» di San Paolo.» H. Bloom, Shakespeare: l’invenzione dell’uomo (1998), Milano, 2001. 
5. Riflessioni in questo senso si trovano nel libro di Valerie Traub: Desire and Anxiety: Circulation of Sexuality in Shakespearian Drama, London, 1992. 
6. H. Bloom, cit. 
7. Ora, ora, proprio ora / un vecchio montone nero sta montando / la vostra candida pecorella. Su, su, svegliate / con la campana a martello tutti i cittadini. / prima che il diavolo vi faccia nonno (trad. it. di Salvatore Quasimodo, in Teatro completo di William Shakespeare, vol. IV, cit.). 
8. Questa bella carta, questo magnifico libro d’amore / fu fatto per scriverei su la parola «puttana»? / Quale peccato hai commesso? E me lo domandi? Tu, donnaccia pubblica! 
9. Essa si era innamorata di me / al racconto di tutti i miei pericoli, / e io l’amavo per la pietà che mi aveva dimostrato. / E questa è tutta quanta la mia magia! 
10. Non perderla mai d’occhio, Moro, se hai occhi per vedere. / Come ha ingannato suo padre, potrebbe ingannare anche te. 
11. Un’ampia rassegna critica sulle ambientazioni italiane nel teatro di Shakespeare si trova in M. Marrapodi, A. J. Hoenselaars, M. Cappuzzo, L. Falzon (a cura di), Shakespeare’s Italy. Functions of ItaLian location in Renaissance Drama, Manchester, 1993. 
12. Conosco troppo bene i costumi del nostro paese: a Venezia le donne / fanno vedere soltanto al cielo / i peccati che nascondono ai loro mariti. 
13. Cfr. A.G. Word, The questfor Theseus, London, 1970. 
14. Mia madre aveva una cameriera che si chiamava Barbara. / Questa Barbara era innamorata, ma l’uomo che essa amava, / un giorno, commise la follia di abbandonarla. / Barbara cantava spesso “La canzone del salice», / una vecchia canzone, ma che esprimeva bene / un destino simile al suo. E morì cantandola. 
15. Virtù un fico secco! Dipende soltanto da noi / essere in un modo piuttosto che in un altro. Il nostro / corpo è un giardino e il suo giardiniere è la nostra volontà. 
16. E gli ingegnosi labirinti nel verde lussureggiante, / da tempo non usati, più non si distinguono. 
17. Otello (da Shakespeare), secondo Carmelo Bene, è stato rappresentato in due versioni teatrali nel 1979 e nel 1985. 
18. René Girard, Shakespeare, il Teatro dell’invidia (1990), Milano, 1998.

 

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 26-29.




Epifanie isolane Bufalino, il giovane artista e Joyce

Un divario temporale di quasi mezzo secolo, e molte altre cose, come la distanza tra l’Irlanda e la Sicilia, separano Joyce da Bufalino. Una profonda linea di demarcazione che, ricorrendo a troppo facili periodizzazioni letterarie, divide il moderno, anzi il modernismo, dal post-moderno. Ma come già aveva sottolineato T.S. Eliot nel suo saggio-manifesto modernista del 1919, Tradition and The Individual Talent, il possesso del senso storico (che “è senso dell’atemporale come del temporale, e dell’atemporale come del temporale insieme1”) conduce l’artista verso un dialogo necessario con la tradizione, poiché – scrive Eliot – “nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che si dà su di lui è il giudizio di lui in rapporto ai poeti o agli artisti del passato2”. Di questa idea dell’esistenza oggettiva e globale della letteratura, celebrata da Eliot nel concetto di “poesia come unità vivente di tutta la poesia che sia mai stata scritta3”, Bufalino ha sempre dimostrato consapevolezza. Così, nell’introduzione al suo Dizionario dei personaggi di romanzo pubblicato nel 1982, egli riflette su una questione interpretativa, e riconosce uno statuto universale del personaggio letterario, “eroe culturale” che può trovare un senso ultimo nel rapporto con il lettore. Il personaggio è infatti “multiplo e solitario, sempre altro e sempre uguale, corposo come una roccia e perversamente sottile”4: secondo l’autore del Dizionario, la letteratura tutta con gli abitanti invisibili che la popolano, è “la nostra patria più vera”, e coerentemente intitola la sua introduzione all’opera, “Passione del personaggio”5. Questo inventario di 138 personaggi, da Don Chisciotte fino all’Innominabile di Samuel Beckett, viene descritto dallo scrittore come la proiezione fantasmagorica di un “solo grande romanzo-arlecchino, un film-monstre dall’ineguagliabile cast”6, e compare pure il giovane protagonista del Portrait (1916) di Joyce, Stephen Dedalus, mentre su una spiaggia della costa di Dublino sperimenta l’epifania della propria vocazione artistica.

La complessa orchestrazione della scrittura di Bufalino accoglie suggestioni e memorie provenienti da una vita di letture vastissime mai interrotte, e di studi letterari ( che saranno segnati dalla guerra e dalla malattia), un mondo nel quale i confini tra lettura e scrittura appaiono labili, e dove la letteratura e la vita possono sovrapporsi. Similmente, nell’affollata galleria della memoria, un personaggio da romanzo rimanda ad altri personaggi da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi da romanzo, e il mondo fittizio, come scrive Pavel, diventa riflesso di un mondo ontologicamente riconosciuto e dunque possibile7. L’universo narrativo di Gesualdo Bufalino ruota attorno ad uno spazio fondamentale, immaginario e reale insieme: l’isola. La Sicilia. Una marginalità geografica che fa da sfondo al percorso di formazione dello scrittore, che non rinuncia nei suoi romanzi alla tentazione di sperimentarsi nell’io narrante, drammaticamente e ironicamente trasformato in “personaggio”. Sia Diceria dell’Untore, che Bufalino pubblica sessantenne nel 1981, quando, maturo professore di liceo diviene improvvisamente ‘caso letterario’, che Argo il cieco, pubblicato nel 1984, si concentrano sopra un nucleo autobiografico fondato sull’appartenenza isolana dell’autore, uno spirito ineffabile e aristocratico che Bufalino definisce “isolitudine”, e che rende i siciliani “isole dentro l’isola”8. L’isola assume una valenza simbolica, all’interno della quale stratificazioni mitiche e letterarie si collegano ad un piano storico e soprattutto memoriale. Il desiderio di una Sicilia incantata è la premessa fondamentale dalla quale nasce “il sogno della memoria”, filo conduttore di Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, romanzo postjoyciano “dell’artista da giovane”, il cui titolo è già un manifesto di poetica, dove l’idea di una memoria caleidoscopica dai “cento occhi”, come quella del mostro mitologico evocato dalle Metamorfosi, si coniuga con la percezione di una costitutiva evanescenza onirica dell’atto del ricordare9.

L’immagine di un paese siciliano nell’estate del cinquantuno (“un paese in figura di melagrana spaccata, vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all’altro”) apre il racconto di un tempo lontano che può cominciare grazie alla rievocazione di uno spazio costruito in un evidente sistema di opposizioni: alto/basso, terra/ mare, campagna/città; simbolicamente diviso in due, metà reale e metà fiabesco, e che esiste ‘fotografato’ solo in quel sogno memoriale, perché, come scrive l’autore nell’epigrafe introduttiva al primo capitolo, questo è un paese “che non c’è più”: “L’autore, per rallegrarsi la mente ripensa antiche letizie e pene d’amor perdute in un paese che non c’è più”.

Si configura quello che Coletti definisce “uno spazio del desiderio regressivo” 10, una nostalgia di paesaggi che sono inscindibili dall’acuto (proustiano più che ungarettiano) sentimento del tempo. La memoria ha per Bufalino un doppio significato, da un lato nostalgica rievocazione del passato, dall’altro volontaria e terapeutica finzione, che sembra suggerire un implicito riferimento al grande mito della modernità romanzesca rappresentato da Don Chisciotte, dal suo modello di riflessione metalinguistica e degradazione parodica, che rende la realtà una costruzione culturale.11

«L’arte arto, che ne pensi? Un arto artificiale, s’intende, e non solo per rendere più ghiotto lo scioglilingua ma perché questo a me veramente serve: un surrogato di vita durante il giorno e un surrogato di sonno, quando non posso prendere sonno la sera.» (cap. III bis, p. 263)

In Argo il cieco il dialogo con la memoria si svolge in un aperto gioco di specchi tra autore e personaggio, un costante frammezzarsi nella storia da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi di capitoli “bis”, che rappresentano una controvoce metanarrativa, la voce dell’autore attuale che a distanza temporale e spaziale dalla vicenda narrata ( trent’anni dopo, in una “matrimoniale senza bagno” di un albergo romano) riflette sulla propria scrittura e su se stesso, svelando al lettore le impalcature dell’edificio letterario costruito sulle parole: culturale11.

«Parole, si. E me n’ero costruito un glossario, quasi i ruoli d’un esercito: depravate, timide, tracotanti, dolorose; tutte ugualmente disciplinate fino alla nausea» (cap. XXVII bis, p. 395).

Una sorta di self-conscious novel, che nella definizione del critico Stonehill è la forma più rappresentativa della narrativa postmoderna: una narrazione focalizzata sull’artificio letterario, sul suo status di fiction.12 Nello spazio metanarrativo occupato dall’autore riconosciamo un ‘dopo’, un passaggio in direzione temporale e dunque storica. Non c’è immobilismo letterario in Argo il cieco, che fu accolto dalla critica13 con qualche riserva rispetto al primo romanzo, e venne infatti accusato di scarsa originalità; ma al contrario, qui Bufalino sperimenta la definitiva insostenibilità di un modello narrativo stabile, ancorato alla realtà di un racconto autobiografico.

Lo spazio della memoria è sogno, finzione e dunque letteratura. Ricreando l’esperienza, l’artista conquista dolorosamente la parola (le “mostruose fantasticherie” che invadevano la mente di Stephen Dedalus14) e la restituisce attraverso la scrittura, pagando il suo debito, che riscatta da un lato e fa rivivere la ‘colpa’ dell’arte dall’altro.

«Questo miracolo di creare con un po’ di suoni e segni una bolla d’inesistenze ciarliere, come non finisce di apparirmi un’azione losca, una colpa» (Argo il Cieco, cap. VI bis, p. 295).

Il giovane poeta, protagonista di Argo il cieco, oggetto dello sguardo disincantato del suo anziano doppio, si trova alle prese con un amore non corrisposto e con memorabili epifanie isolane, che nella scrittura colta e infarcita di preziosismi evocano il barocco architettonico dei palazzi e delle chiese del profondo sud di Sicilia (di Modica e dintorni) facendo risuonare, come ha osservato Sciascia, “accordi da rondò”15.

Lo svolgersi della storia appare come una “dilatazione dell’io”16, un percorso che svela una realtà molteplice, fondata sulla trasformazione: “Questo è ora, guardatelo, il ragazzo di cento pagine fa” (XVII bis, p. 398).

Il giovane artista del tempo che fu è un personaggio che allo sguardo retrospettivo dell’autore appare un “giovane zufolo”, una dolceamara parodia siciliana dello Stephen Dedalus joyciano, che occupa la pagina 393 del Dizionario dei personaggi di romanzo.

La letteratura si ripiega su se stessa, e tra le molte citazioni occulte e rimandi intertestuali, il titolo del capitolo VI bis (“Ritratto dell’artista come giovane zufolo”) è un intenzionale ritorno al Portrait di Joyce, la volontà (e la necessità) dello scrittore di stabilire un dialogo con il passato, con quel modello fondamentale di Ritratto d’artista novecentesco, sperimentando però, nello stesso tempo, la sua irreversibile inattualità che si esprime in una tragicomica parodia17. E così in apertura del capitolo VI bis, l’autore si presenta “com’era allora”:

«Ero uno zufolo capace di due note sole allora. Facile da suonare, ma bisognava impararmi. Erano due, le note, una d’afflizione, da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi uì uì uì, come quando bastonano un cane; l’altra di letizia trallalà trallallera, che veniva da una violenza di fame per ogni fumante rosso ragù della vita.» (cap. VI bis p. 293).

La vita è per Bufalino una costante oscillazione tra tanatofilia e tanatofobia, un dualismo che si fonda sulla predilezione retorica per l’ossimoro, contenuto nello stesso titolo Argo il cieco, e legato soprattutto a temi esistenziali, che secondo Enzo Papa18 farebbe di Bufalino un ultimo epigono della grande stagione del decadentismo europeo. E se nel Ritratto di Joyce l’estetismo dannunziano fin de siecle ha per molti aspetti influenzato una concezione estetica che ferma il tempo nella folgorazione di un’epifania, in Argo il cieco l’incorruttibile bellezza di un attimo (la stasi joyciana derivata dalla filosofia tomistica19) diventa un illusorio desiderio di vita minacciato dall’attesa della morte.

«L’inganno cioè che il sole s’impietri dov’è, e la luna; che nel nostro sangue nessuna cellula invecchi di un attimo in questo attimo stesso che sembra passare e non passa, sembra non passare ed è già passato». (cap. VIII, p. 306).

L’epifania della ragazza sulla spiaggia chiude il quarto capitolo del Portrait di Joyce (è il passaggio riportato da Bufalino nel suo Dizionario) e rivelerà a Stephen Dedalus, che poco prima in un colloquio con il direttore del collegio gesuita era stato invitato ad entrare nell’ordine, la strada definitiva e profana dell’arte. Questo momento rappresenta la piena realizzazione letteraria del concetto di epifania, definito nel capitolo XXV di Stephen Hero (1905), incompiuto romanzo d’artista, la cui redazione venne interrotta da Joyce per poi confluire nel nuovo progetto di A Portrait of the Artist as a Young Man: “Per epifania intendeva Stephen un’improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso o in un gesto o in un giro di pensieri degni di essere ricordati”20.

L’immagine della ragazza ferma sulla riva di un mare smeraldino è costruita secondo un sensuale estetismo che crea un parallelismo simbolico tra la fanciulla (“angelo della gioventù e della bellezza mortale”) e un piumato uccello marino:

«Una ragazza gli stava davanti in mezzo alla corrente: sola e immobile, guardando verso il mare. Pareva una creatura trasformata per incanto nell’aspetto di un bizzarro e bell’uccello marino. Le sue lunghe gambe nude e sottili erano delicate come quelle di un airone e intatte, tranne dove una traccia smeraldina di alga era restata come un segno sulla carne. Le cosce, più piene e sfumate come l’avorio, erano nude fin quasi alla anche, dove gli orli bianchi dei calzoncini erano come un piumaggio di soffice pelurie candida21 ». (cap. IV).

Nel XIII capitolo di Argo il cieco, durante una passeggiata nella cava antica di Ispica con l’amata Maria Venera, il giovane protagonista replica il sensuale lirismo dell’epifania joyciana, ma da candido ed etereo uccello marino la ragazza viene trasformata in una più prosaica e scura allodola canterina:

«Era vestita di nero, come sempre. Il solito abitino liso, una mussola da rigattiere. Ma come le stava bene, la faceva sembrare un uccello. Con le gambe sottili e snelle ed un aire naturale di volo. Una cicogna, una gru. Se non un’allodola, per come cantava». (p. 347).

La degradazione ad un livello di quotidiano realismo dell’epifania joyciana non è soltanto un gioco parodico, ma la necropoli, luogo di confine tra la da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi vita e la morte (proprio come la riva del mare rifletteva in Joyce un confine tra essere e apparire ) diventa un simbolo della tragica condizione del vivere, che inevitabilmente (e persino allegramente) procede verso la morte:

“Noi ci spingemmo avanti, catecumeni di un felice e verde Al di là. Senza i rumori di catene, i lamenti, i flosci voli di pipistrelli che accompagnano i viaggi sotterra d’ogni Enea o Vas d’elezione.” (XII, p. 345)

Come ha evidenziato Margaret Doody22 esaminando i tropi del romanzo a partire dall’età classica, ambientazioni di paludi o spiagge, la presenza del mare o di tombe, caverne o labirinti, rappresentano spazi liminali (dal latino limen, soglia), luoghi cioè che per loro costituzione comunicano un’idea di confine, di indeterminatezza tra uno stato ed un altro. Il luogo della sepoltura richiama un concetto di Morte in Vita, una realtà dominata da un’idea di decomposizione, dove anche l’identità si sbriciola. E il personaggio è condannato alla lacerazione, come il protagonista di Argo il cieco, imprigionato nel sogno memoriale dell’autore (“scrivere è stato per me solamente un simulacro del vivere”; XVII bis ) che solo il lettore può condividere nella malinconica scoperta dell’infelicità.

Ed infine l’isola è protagonista, al pari degli stessi personaggi, delle storie d’artista di Joyce e di Bufalino. Stephen Dedalus ha compiuto un viaggio simbolico-rituale dentro il ‘labirinto’23 della sua isola irlandese, e la stessa formazione dell’artista può leggersi come iniziazione cultica attraverso riferimenti al mito di Dedalo, la cui storia rimanda proprio alla presenza di un’isola (Creta e anche la Sicilia). La percezione labirintica dello spazio suggerisce l’idea di un passaggio sotterraneo, o di un luogo segreto, in cui il meraviglioso si fonde con il mostruoso, come quello abitato dal Minotauro.

Un cordone simbolico lega l’artista all’isola in una perenne oscillazione di colpa e desiderio, che nel Portrait culminerà nella scelta di Stephen dell’esilio nel mondo, nella necessità di abbandonare l’isola, per poi però ricrearla nella letteratura: la profetica immagine di “nubi screziate sul mare” che sembrano “nomadi in marcia” verso occidente24. E infine, l’isola Giulia o Ferdinandea, sprofondata nel mare per poi un giorno riemergere, compare nel romanzo di Bufalino, e rappresenta l’isola come luogo della natura magico e inquietante, teatro del disorientamento spazio-temporale; un non-luogo mitico che appartiene alla memoria collettiva e che rimane sospeso tra assenza e presenza, morte e vita, sogno e storia.

«Allora cominciai a dirle dell’isola Giulia ovvero Ferdinandea emersa da queste acque fra Sciacca e Pantelleria un secolo addietro e passa. Di sabbia fine, nera e pesante, con un ponticello nel mezzo e un laghetto d’acqua bollente nella pianura. Il mare la circondava, un mare color celeste ma untuoso come d’olio. E l’isola visse qualche tempo, poi il mare se la riprese. Un giorno riemergerà ». (cap. X, p. 237).

Note

1 T. S. Eliot, Tradition and the Individual Talent (1919), trad. it. Tradizione e talento individuale in T. S. Eliot, Opere 1904-1939, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 2001, p. 394 e segg.
2 Ibidem.
3 Ibidem.
4 Gesualdo Bufalino, “Passione del Personaggio”, introduzione al Dizionario dei personaggi di romanzo da Don Chisciotte all’Innominabile, (1982), Milano, Rizzoli, 2000, p. 15.
5 Bufalino aveva in mente gli studi di G. Genette, Figure III, Torino, Einaudi, 1976; G. Lukàcs, Problemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976; M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977; M. Robert, L’antico e il nuovo, Milano, Rizzoli, 1969; J. Rousset, Forme e significato, Torino, Einaudi, 1976. Tutti compaiono in nota all’introduzione cit.
6 G. Bufalino, Introduzione al Dizionario dei personaggi di romanzo, cit. p. 2.
7 Cfr. Thomas Pavel, Mondi di Invenzione (1986) trad. it. a cura di Andrea Carosso, Einaudi, Torino, 1992.
8 Cfr. Gesualdo Bufalino, Giuseppe Leone, L’isola nuda, Bompiani, Milano, 1998.
9 Gesualdo Bufalino, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, Sellerio, Palermo, 1984, ora in Gesualdo Bufalino, Opere 1981-1988, a cura di Maria Corti e Francesca Caputo, Bompiani, 1992. Le pagine indicate si riferiscono a questa edizione.
10 Vittorio Coletti, “Spazio e tempo nel romanzo italiano contemporaneo” in Le configurazioni dello spazio nel romanzo, Bulzoni, Roma p. 205.
11 Cfr. Alfonso Berardinelli, “L’incontro con la realtà”, in Il Romanzo a cura di F. Moretti, vol. II, “Le Forme”, Einaudi, Torino, 2002.
12 Brian Stonehill, The Self-Conscious Novel. Artifice in Fiction from Joyce to Pynchon, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1988, p. 3: “the self-conscious novel is an extended prose narrative that draws attention to its status as a fiction”.
13 “ci troviamo davanti a non molto di diverso per le situazioni e i materiali, da tanta arcaica letteratura neorealistica” L. Mondo, “Argo, vecchio e cieco alla ricerca degli anni felici”, in “Tuttolibri”, 23 febbraio 1985.
14 “His recent monstruous reveries came thronging into his memory.” J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, cap. II, edited by S. Deane, Penguin, 2000, p. 95. 15 Leonardo Sciascia ha definito Argo il cieco un “racconto rondò” nell’articolo “La memoria è musica”, L’Espresso, 23 dicembre 1984.
16 Cfr. Angelo Guglielmi, “La dilatazione dell’io”, in “Nuove Effemeridi” n. 18/1992/II.
17 Sui “Ritratti d’Artista” di Joyce e Bufalino e sulla presenza di uno spazio narrativo simbolico Cfr. Maria Paola Altese, Portrait della memoria. Lo spazio come simbolo, Ila Palma, Palermo, 2005.
18 Enzo Papa, “Gesualdo Bufalino” in “Belfagor”, Firenze 52, 5, 1997.
19 Maurice Beebe, “Joyce and Aquinas: the Theory of Aesthetics”, in James Joyce: the Dubliners and A Portrait of the Artist as a Young Man, Morris Beja (editor), Macmillan, 1973.
20 Trad. it. di Cesare Pavese in Joyce. Racconti e romanzi, Mondadori, 1974.
21 James Joyce, Dedalus: Ritratto dell’Artista da giovane, trad. it. di Cesare Pavese, Mondadori, Milano,1974. Versione inglese cit. p.185. “A girl stood before him in midstream, alone and still, gazing out to sea. She seemed like one whom magic had changed into the likeness of a strange and beautiful seabird. Her long slender bare legs were delicate as a crane’s and pure save where an emerald trail of seaweed had fashioned itself as a sign upon the flesh. Her thighs, fuller and softhued as ivory, were bared almost to the hips where the white fringes of drawers were like featherings of soft white down.”
22 Margaret Doody, The True Story of the Novel, trad. it. La vera storia del romanzo, Sellerio, Palermo, 2009.
23 Diane Fortuna, “The Art of the Labyrinth” in Critical Essays on James Joyce’s A Portrait of the Artist as a Young Man, Brady-Carens editors, Macmillan, 1998.
24 “Disheartened, he raised his eyes towards the slowdrifting clouds, dappled and seaborne. They were voyaging across the deserts of the sky, a host of nomads on the march, voyaging high Ireland, westward bound.” 

 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 5-10.




MADRE, MADRE

La tristeza u hoyo en la tierra,
dulcemente cavado a fuerza de palabra,
a fuerza de pensar en el mar,
donde a merced de las ondas bogan lanchas ligeras.

Ligeras como pájaros núbiles,
amorosas como guarismos,
como ese afán postrero de besar a la orilla,
o estampa dolorida de uno solo, o pie errado.

La tristeza como un pozo en el agua,
pozo seco que ahonda el respiro de arena,
pozo. – Madre, ¿me escuchas?: eres un du1ce espejo
donde una gaviota siente calor o pluma.

Madre, madre, te llamo:
espejo mío silente,
dulce sonrisa abierta como un vidrio cortado.
Madre, madre, esta herida, esta mano tocada,
madre, en un pozo abierto en el pecho o extravío.

La tristeza no siempre acaba en una flor,
ni esta puede crecer hasta a1canzar el aire,
surtir. – Madre, ¿me escuchas? Soy yo que como alambre
tengo mi corazón amoroso aquí fuera.

Vicente Aleixandre Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratura 1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ámbi-to, Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Dialogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 48.




LA PALABRA

Esas risas, esos otros cuchillos. esa delicadísima penumbra…
Abe las puertas todas.
Aquí al oído voy a decir.
(Mi boca suelta humo.)
Voy a decir.
(Metales sin saliva.)
Voy a hablarte muy bajo.
Pero estas dulces bolas de cristal,
estas cabecitas de niño que trituro,
pero esta pena chica que me impregna
hasta hacerme tan negro como un ala.
Me arrastro sin sonido.
Escúchame muy pronto.
En este dulce hoyo no me duermo.
Mi brazo, qué espesura.
Este monte que aduzco en esta mano,
este diente olvidado que tiene su último brillo
bajo la piedra caliente,
bajo el pecho que duerme.
Este calor que aún queda, mira lo ¿ves?, allá más lejos,
en el primer pulgar de un pie perdido,
adonde no llegarán nunca tus besos.
Escúchame. Más, más.
Aquí en el fondo hecho un caracol pequenisimo,
convertido en una sonrisa arrollada,
todavía soy capaz de pronunciar el nombre,
de dar sangre.
Y…
Silencio
Esta música nace de tus senos.
No me engañas,
aunque tomes la forma de un delantal ondulado,
aunque tu cabellera grite el nombre de todos los horizontes.
Pese a este sol que pesa sobre mis coyunturas más graves.
Pero tápame pronto;
echa tierra en el hoyo:
que no te olvides de mi número,
que sepas que mi madera es carne,
que mi voz no es la tuya
y que cuando solleces tu garganta
sepa distinguir todavía
mi beso de tu esfuerzo
por pronunciar los nombres con mi lengua.
Porque yo voy a decirte todavía,
porque tu pisas caracoles
que aguardaban oyendo mis dos labios.

Vicente Aleixandre

Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratura

1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ámbito,

Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Dialogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 47-48.




IDA

Duerme, muchacha.
Láminas de plomo,
ese jardín que dulcemente aculta
el tigre y el luzbel
y el rojo no domado.
Duerme, mientras manos de seda,
mientras paño o aroma,
mientras caídas luces que resbalan
tiernamente comprueban la vastedad del seno,
el buen amor que sube y baja a sangre.

Amor.
Como esa maravilla,
como ese blanco ser que entre flores bajas
enreda su mirada o su tristeza.
El paisaje secunda el respirar con pausa,
el verde duele, el ocre es amarillo,
el agua que cantando se aproxima
en silencio se marcha hacia lo oscuro.

Amor,
como la ida,
como el vacío tenue que no besa.

Vicente Aleixandre Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratu-ra 1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ambi-to, Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Diálogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 49.




La colonia inglese di Marsala. Annotazioni bibliografiche

l. I Viaggiatori stranieri. – L’attenzione degli studiosi sulla presenza e sulle attività dei commercianti imprenditori inglesi in Sicilia tra Sette e Ottocento è considerevolmente cresciuta da quando Raleigh Trevelyan, sollecitato dall’ultima rappresentante di una delle più prestigiose dinastie di quei mercanti anglo-siciliani che avevano fatto fortuna nell’Isola, col noto saggio “Principi sotto il vulcano”1, ha richiamato l’attenzione, anche di un vasto pubblico, su questo aspetto fino allora assai trascurato della storia di Sicilia. 

È noto che nell’ambito della più vasta presenza britannica in Sicilia, una comunità inglese, forse complessivamente trascurabile per consistenza numerica ma certamente non per il volume degli affari trattati, si stabilì assai precocemente anche a Marsala. Ma essa finora non ha trovato tra gli studiosi quella attenzione che indubbiamente meriterebbe e soltanto qua e là nelle opere di carattere generale sulla storia economica della Sicilia è possibile rintracciare delle informazioni sulla colonia inglese di Marsala. 

In tale mancanza di una specifica bibliografia assume valore di fonte storica di primaria importanza la memorialistica dei numerosi viaggiatori stranieri, soprattutto inglesi, che sulla scia del Brydone2, vennero in Sicilia attirati ‘dal fascino dell’antichità classica e dal gusto dell’avventura. 

È evidente però che Marsala, posta in una posizione geografica periferica e scarsa di vistose vestigia di antichità, come quelle che potevano vantare altri centri isolani, più che una meta ricercata risultava una tappa di passaggio nella quale i “turisti” sostavano poche ore. Dopo aver appreso con stupore l’esistenza di connazionali che qui avevano fatto fortuna o annotato con un sentimento a metà tra l’orgoglio e il disappunto che la Chiesa Madre era dedicata ad un vescovo cattolico inglese3, che qualcuno definisce addirittura ribelle4, scendevano nella cosiddetta grotta della Sibilla5 o visitavano l’oscillante campanile del Convento dei Carmelitani6, quindi si recavano in uno degli stabilimenti inglesi, solitamente quello di Woodhouse7, per gustare un bicchiere di buon vino e ripartivano per altri luoghi artisticamente più interessanti o più pittoreschi. Di conseguenza solo pochi viaggiatori, andando al di là del pittoresco o della mera annotazione archeologica, hanno saputo lasciarci delle informazioni sulla realtà economica e sociale della città in generale e sulla colonia inglese in particolare. 

Tra questi ultimi va ricordato L. Simond, che, passando da Marsala nel 1818, non ebbe modo di visitare alcuno stabilimento vinicolo ma annotò la “curiosa circostanza”8 che il famoso vino Marsala fosse preparato da alcuni inglesi, i signori Woodhouse. Questa circostanza lo confermò nella sua analisi sui mali della Sicilia che il Simond individuò nella mancanza di libertà economica: 

[La Sicilia] sarebbe tuttora in grado di nutrire una popolazione cinque volte maggiore, se tal popolazione fosse lasciata in pace e se le sue industrie non fossero soffocate da assurdi regolamenti, dal momento che le sue innate capacità sono ben superiori alla cattiva amministrazione(9)

Richard Church, comandante generale delle truppe borboniche in Sicilia, in fuga da Palermo in rivolta nel 1820 giunse a Marsala dove fu accolto ospitalmente da John Woodhouse, il quale 

diede ordine che si preparassero vino, cibo e munizioni per rifornire l’imbarcazione, li portò a casa sua per cenare con loro, assicurandoli che non dovevano temere né per sé né per lui, e ciò perché in primo luogo la gente di Marsala gli doveva troppo per volergli arrecare offesa, e in secondo luogo egli disponeva di un numero sufficiente di operai per difendere la propria casa anche contro l’intera popolazione10. 

Troviamo qui enunciato per la prima volta e in maniera esplicita l’atteggiamento che sarà tipico degli inglesi nei confronti della comunità marsalese: da un lato c’è fiducia nella popolazione locale nella convinzione che i benefici ad essa arrecati dovrebbero renderla riconoscente, dall’altra c’è il timore di una rivolta improvvisa e di saccheggi. 
Uno sforzo maggiore di comprensione della realtà locale troviamo nel tedesco Justus Tommasini11, pseudonimo di un tal H. Westphal, che visitò la città nel maggio 1822 e che ci ha lasciato un’interessante ma non molto nota testimonianza su John Woodhouse e più in generale sull’economia siciliana di quegli anni: 

Ieri sera dal nostro padrone di casa [Woodhouse) è venuto ancora un altro ospite che sembrava conoscerlo molto bene, era un maltese che… faceva frequenti viaggi in Sicilia dove era molto conosciuto. Molto presto si awiò un discorso… e ti comunico per esteso ciò che disse. “I Siciliani sono un popolo molto inattivo, senza alcuna industriosità ed essi volentieri vorrebbero che cadesse nelle loro bocche la manna dal cielo così come accadde agli Ebrei in modo tale da non aver bisogno né di seminare né di arare. “Siamo ridotti all’estremo della miseria!” questa è la loro eterna canzone e le pallide ed affamate figure, avvolte in pochi e miseri stracci che contrastano enormemente colla natura esuberante rendono veritiera questa affermazione. Se si cerca però la causa di una tale miseria, la si troverà quasi certamente nella poltroniera del popolo. Certamente, chi vede correre avanti ed indietro questa gente ai mercati e sulle strade e soprattutto la sente infuriarsi, gridare, potrebbe pensare che non esiste gente più attiva dei Siciliani. Chi ha visto le grandi città come Palermo, Messina e Catania non vorrebbe neanche credere che la miseria del popolo sia così grande com’è in realtà, perché lì la classe meno abbiente trova tuttavia sempre la possibilità di guadagnare qualcosa per il sostentamento giornaliero. Ma se si va nelle piccole città, soprattutto nelle città interne dove non c’è alcun traffico si nota che nonc’è la possibilità di guadagno correndo qua e là, ma bisogna occuparsi di un certo lavoro per alcune ore del giorno e ciò è per loro faticoso e penoso. Così ci si convince che i Siciliani preferiscono vivere nella più grande miseria e privazione anziché avere una vita comoda per mezzo di una attività ordinata ed intensa. Certamente il governo ha la sua colpa e contribuisce con un sistema finanziario non adeguato e pesanti tasse alla miseria generale, ma la causa vera della miseria sta nel popolo stesso. (…) Il contadino che vive nella piccola città (i villaggi si trovano soltanto nella regione dell’Etna) spesso molte miglia distante dal suo campo, ogni settimana va fuori per due o tre giorni per coltivarlo e curarlo e la notte resta in una piccola capanna sul campo stesso e quindi per i giorni che rimangono resta in città e si dedica al suo far nulla. Come può prosperare l’agricoltura con un sistema di lavoro di questo tipo? Non mi si contraddica col dire che la gente sarebbe più attiva se ci fosse più traffico e potesse sperare in un mercato più sicuro per i suoi prodotti: ma il traffico si potrebbe trovare soltanto se prima ci fosse l’attività interna e se i Siciliani avessero prodotti da ofIrire … Il modo in cui il nostro padrone di casa [Woodhouse] è giunto alla sua ricchezza, fornisce un bell’esempio di cosa si può conquistare in questo paese con una attività vivace; ve lo voglio raccontare poiché per il momento non è presente.Circa venti anni fa egli arriva a Malta come povero bottaio, ma ha conoscenze riguardanti la coltivazione delle vigne, così prosegue per la Sicilia, perché ha sentito dire che qui c’è una grande quantità di buoni vini che nessuno sa come trattare. Si stabilisce a Marsala, apre un piccolo negozio senza tanti soldi e poi lo amplia a poco a poco, in quanto la sua attività gli consente un certo profitto. Ora è un uomo che possiede molto più di un milione di piastre spagnole, ha vigneti qui ed a Malta e possiede mille botti enormi piene fino all’orlo. (…) Quest’ultimo non ha avuto né aiuto né incoraggiamento da parte dello Stato, anzi ha dovuto pagare tasse molto alte, dimostrando di essere più attivo dei Siciliani i quali mettono le mani in tasca e si lamentano. Però Mr. Woodhouse non è l’unico straniero che si è arricchito in questo paese, a Palermo a Messina ed a Siracusa, si possono trovare parecchi stranieri che si sono arricchiti”12 

Tra i viaggiatori inglesi del primo Ottocento va ricordato ancora Richard Grenville, Duca di Buckingham13, venuto a Marsala nel giugno 1828, cui dobbiamo alcune utili informazioni sulla produzione e sul commercio del vino: 

Il Signor Barlow, un socio della ditta vinicola Woodhouse e C.. venne da me con campioni del loro vino. Adesso qui vi sono non meno di tre stabilimenti di commercianti inglesi di vino. Woodhouse esporta annualmente in media sulle 3.000 pipe. Vendono una grande quantità in America, così come in Inghilterra. Essi pongono molta attenzione alla crescita dell’uva, alla loro coltivazione e alla vinificazione. Possiedono grandi vigneti. ma oltre a questi sopraintendono alla coltivazione di una quantità di viti appartenenti a piccoli proprietari, di cui acquistano i raccolti e a cui anticipano i capitali per la coltivazione. Il vino è buono di per sé, ma, a mio giudizio, è molto danneggiato dalla quantità di brandy che vi aggiungono per i mercati americano e britannico. Per questa ragione vendono molto poco ai nativi o agli italiani, ma ne spediscono molto a Malta e alle navi inglesi nel Mediterraneo. La ditta Woodhouse e C. impiega regolarmente, per tutto l’anno, novantasette persone nel suo stabilimento, oltre agli addetti alla vendemmia e alla regolare coltivazione dell’uva. I siciliani stanno cominciando a diventare gelosi degli stabilimenti e perciò lamentano che i loro soldi vadano nelle mani degli stranieri. Essi non hanno ancora l’acume di capire che il capitale degli stranieri crea capitale in casa loro, e questa è la vera origine della prosperità di una nazione14 

Non sono molto interessanti le informazioni che ci forniscono altri viaggiatori come J. F. d’OsteIVald15, Girolamo Orti16, il Marchese d’Orrnonde17, Giovanna Power18 o J. Galt19 i quali si limitano a ripetere le medesime notizie, per lo più apprese dagli occasionali accompagnatori locali. Un discorso a parte merita George Dennis autore di un Handbook far travellers in Sicily, manuale prezioso per la ricchezza e la precisione delle notizie che contiene20. Il Dennis, che fu anche console inglese a Palermo, aveva una buona conoscenza della realtà isolana e si intendeva di agricoltura ed economia. oltre che di arte e di storia antica e moderna. 

Gli stabilimenti vinicoli di Marsala, – egli scrive – che sono fuori città, sono di grandi dimensioni, essendo dei larghi recinti quadrangolari di alte mura. con torri agli angoli e fiancheggianti le porte di ingresso, così costruite in modo da offrire difesa dai tumulti popolari; e possono essere presi per una serie di fortilizi isolati lungo la riva del mare. La maggior parte di essi sono di proprietà di Inglesi. Quelli dei signori Gill e Corlett e del signor Lipari sono a Nord della città; quelli a Sud sono i più grossi ed appartengono a parecchie ditte Wood, Woodhouse, Florio ed Ingham. Il primo stabilimento è stato quello del signor John Woodhouse, il quale risale al 1789. Per opera sua il vino marsala è stato introdotto, nel 1802, nella flotta inglese nel Mediterraneo e per cortesia di Lord Nelson ricevette l’appellativo di “Bronte-Madeira”, sotto il quale nome è stato in seguito importato in Inghilterra, dove, pur non essendo tenuto in così alta considerazione come lo sheny, attualmente raggiunge un prezzo quasi altrettanto alto. L’ammontare annuo del vino prodotto in Marsala e nel suo territorio, prima che l’oidio degli scorsi anni diminuisse il raccolto, era di circa 30.000 pipe, dei quali 20.000 venivano esportati: 8.000 circa di vino superiore in Inghilterra, Francia e Stati Uniti, e la differenza di inferiore qualità a Malta ed in Italia. La vite è coltivata nei declivi delle colline dei dintorni ed è generalmente di uva bianca, con qualche aggiunta di nera, la quale è ritenuta essere un conservante dell’aroma. Il viaggiatore non dovrebbe mancare di visitare l’uno o l’altro di questo baglio. Quelli di Ingham, Woodhouse e Florio sono i più grossi, ed impiegano circa 100 uomini ciascuno. Egli otterrà il permesso d’entrare mandando il suo biglietto da visita e sarà ricevuto con grande cortesia e attenzione. Ciascun baglio è in sé una piccola città. Ogni cosa è fatta all’interno delle mura, salvo il vino. Questo è acquistato dai coltivatori da un capo all’altro della campagna e ammassato qui per la esportazione. La grande estensione dei locali, le grandi dimensioni delle volte, qualcosa come 150 yarde in lunghezza, e molte migliaia di pipes sistemati in file e file e piani sopra piani, non possono non suscitare meraviglia; mentre l’attività degli operai, dei bottai e dei distillatori, l’impiego del vapore, la divisione del lavoro, l’ordine e la regolarità osservabili dappertutto, sono lusinghevoli per i visitatori, tali da offrire uno straordinario spettacolo di britannica industriosità in una terra indolente. Il baglio di Woodhouse contiene una cappella ed un cimitero per gli inglesi che muoiono a Marsala, nel quale vi è la tomba del vecchio John Woodhouse. il fondatore della colonia21. 

Quest’aspetto turrito, da avamposto isolato in territorio nemico che aveva impressionato il Dennis, si poteva cogliere ancora alla fine dell’Ottocento quando a Ronny Gower il baglio sembrò “più simile a una fortezza o a un carcere che a uno stabilimento vinicolo”22. Agli inizi di questo secolo D. Sladen dedicava oltre due capitoli di un volumetto intitolato Segesta, Selinunte and the West of Sicily alla colonia britannica di Marsala e all’attività degli stabilimenti enologici inglesi23. Il resoconto dello Sladen, assai interessante per la gran massa di informazioni che ci fornisce. meriterebbe di essere tradotto e ristampato. L’autore comincia col mettere in risalto l’influenza positiva che la secolare presenza inglese a Marsala ha avuto sui costumi locali: 

Non c’è niente di più insopportabile che arrivare in una stazione siciliana, dove gli impiegati possono metterci un’ora per portare i tuoi bagagli dal bagagliaio alla strada, mentre stai difendendo il tuo bagaglio a mano da tutti i banditi del posto. Ma abbiamo trovato Marsala una gradevole eccezione. Il posto è stato battuto dagli inglesi per tanta parte del secolo che è diventato proprio efficiente24. 

Un altro effetto della presenza inglese l’autore la vede nel tenore di vita della popolazione, che risulta notevolmente diverso e superiore rispetto a quello degli altri isolani, e nell’assenza del brigantaggio: 

Sparse qua e là c’erano piccole villette bianche o rosse appartenenti ai facoltosi commercianti di Marsala, tutte con alti vasi sui loro tetti piatti e alcune con alte palme all’angolo del giardino. Marsala e Trapani sono così progredite che la gente può vivere fuori città senza paura dei briganti. In Sicilia il brigantaggio è in rapporto inverso ai salari25 

Non meno ricca e interessante è la parte del libro in cui sono descritti i sistemi di conduzione aziendale della ditta Ingham Whitaker. Gli imprenditori inglesi, nota lo Sladen, non coltivano il vigneto che in quantità assai limitata di conseguenza sono costretti ad accaparrarsi il prodotto in anticipo attraverso un sistema di obbligazioni: 

I signori Ingham, Whitaker e C. “obbligano” gli agricoltori in anticipo per le loro uve, ed inviano i loro mediatori in giro ad intervalli durante !’inverno e la primavera per essere sicuri che le vigne vengano correttamente potate e coltivate; ma essi stiano specialmente attenti nel periodo della vendemmia a che gli agricoltori non raccolgano le uve fino a quando non siano mature26. 

Nella descrizione che l’autore fa dei rapporti tra inglesi e siciliani affiora un senso di separatezza, quasi una necessità di guardarsi da una popolazione di tipo levantino abile ad escogitare espedienti per rubare: 

Ogni lavoro viene effettuato nello stabilimento, e il baglio dall’alba al tramonto per sei giorni alla settimana è come se fosse una piccola operosa cittadina. Gli uomini, all’uscita dal baglio ogni sera. vengono perquisiti da uno del personale, e questo è necessario a causa della straordinaria brama che essi hanno di portar via dei souvenir nella forma di una vecchia lima, di una pialla o cose simili, anche se a volte i loro furti prendono una forma più seria. Essi sono, in realtà, occasionalmente fatti con positiva ingegnosità, come, per esempio, quando è stato scoperto che alcuni di loro avevano abilmente costruito piccoli recipienti di latta da adattare al torace sotto la camicia, capaci di contenere una o due pinte di vino o alcool, il cui frequente contrabbando poteva in breve raggiungere una considerevole quantità27. 

L’ultima descrizione dell’attività degli inglesi di Marsala, prima che la grande crisi li travolgesse, è offerta da Alec Tweedie28. La Tweedie dopo aver espresso il proprio compiaciuto stupore per aver trovato a Marsala presso i Whitaker una “deliziosa e confortevole casa inglese nel mezzo di contrade così forestiere”, nella quale ha potuto godere le indescrivibili gioie che possono assicurare “un vero bagno caldo, un caminetto inglese con legno scoppiettante e carbone nel pomeriggio e marmellata a colazione”, ricorda che l’onore della scoperta del vino Marsala spetta ad un inglese29. Descrive quindi con precisione le varie fasi della coltivazione della vite e della preparazione del vino e trova modo di ricordare l’atteggiamento dei lavoratori negli stabilimenti vinicoli inglesi: 

I lavoratori al “baglio” o stabilimento hanno il loro proprio refettorio come i monaci nel monastero; qui cucinano e consumano il loro pasto di mezzogiorno ed alla fine fanno la siesta pomeridiana sul manto erboso. Essi hanno avuto una certa quantità di vino ma non è permesso aiutare sé stessi. Quest’ultima era l’occupazione favorita un tempo, perciò adesso ogni uomo è perquisito all’uscita. Qualcuno di genio ha fabbricato da se stesso un bricco di latta stagnata di circa un pollice e mezzo, nel travasava una bottiglia di vino giornalmente fino a quando non fu scoperto. Altri rubano spago, chiodi, e cose insignificanti di qualsiasi tipo, articoli di così poco valore che è sembrato insensato rischiare il licenziamento per tali bagatelli 30 

Accanto alla letteratura memorialistica dei viaggiatori stranieri che si esaurisce agli inizi del secolo, quando il viaggio in Sicilia finisce di rappresentare un’esaltante avventura, vanno ricordati gli scritti, ricchi di notizie e riflessioni, di Tina Whitaker Scalia. Essa fu la prima a dare un’immagine dall’interno della colonia inglese di Sicilia in un articolo dedicato a Benjamin Ingham, suo prozio31. 

La Whitaker Scalia dopo aver ricostruito la genealogia della famiglia, delinea la figura e l’opera dell’Ingham. Per quel che riguarda il nostro tema, Tina ricorda che Ingham abitò quasi sempre a Marsala nel primo periodo.

Giovanni Alagna

(1) R TREVELYAN, Principi sotto Uvulcano, trad. italiana, Rizzoli, Milano 1977.
(2) P. BRYD0NE, Viaggio in SicUia e a Malta. 1770, trad. italiana, Longanesi, Milano 1968.
(3) R. COLT HOARE, A classical tour through ILaly and SicUy, London 1819, p. 347.
(4) W. H. SMYIll, SicUy and its islands, London 1824, p. 232.
(5) Tra i tanti chc visitarono la grotta della Sibilla ricordiamo: C. DE BORCH, Lettres surla Siclle, t. II, Turin 1782, p. 42; J. BOUEL, Voyage pittoresques des isles de Sicile, Paris 1782- 1787, pp. 19-20; G. BELLAS GREENOUGB, Diario di un viaggio in Sicilia 1803, Siracusa -Palermo 1989, p. 68.
(6) J. HOUEL, Voyage pittoresque cit., p. 19; R; COLT BOARE, A classical tour, cit., p. 346. (7) G. COCKBURN, A voyage to Cadiz and Gibraltar up the Mediterranean to SicUy and Maltain 1810 & Il, voI. 2, London 1815, p. 33; DE f’ORBIN, Souvenirs de la Sici/e, Paris 1823, p.70.
(8) L. SIMOND, A tour through ltaly and Sicily, London 1828, p. 473.
(9) Ibid.
(lO) E. M. CIIURCH, Sir Richard Church in ltaly and Greece, Edinburgh 1895, in R. TREVELEYAN, Principi cit., p. 50.
(11) J: TOMMASINI. Bliq[e aus Sizilien. Bcrlin und Stcttin 1825.
(12) Ibili, pp. 111-118.
(13) R. GRENVILLE. The private diary oj Hichard, Duke oj Buckingham and Chandos, voI. II, London 1862.
(14) [bid., pp. 104-105.
(15) J. F. D’OSTERVALD, Viaggio pittorico in Sicilia. trad. italiana, Giada, Palermo 1990.
(16) G. ORTI, Viaggio alle Due Sicilie, ossia il giovane antiquario.
Verona 1825.
(17) J. D’OSSORY, MARCHESE D’ORMONDE, An autumn in Sicily, Dublin 1850.
(18) G. POWER, Guida per la Sicilia, Napoli 1842.
(19) J. GALT, Voyages and travels in the years 1809, 1810. an.d 1811 containing statistical,commercial, and miscellaneous observations on Gibraltar, Sardina, Sicily, Malta, Serigo andThrkey. London 1812.
(20) F. DENNIS, A handbook for lravellers in Sicily, London 1864.
(21) Ibid., pp. 182-183.
(22) R. GOWER, Old diaries. London 1902, riportato da R. TREVELYAN, Principi cit., p. 263.
(23) D. SLADEN, Segcsta. Selinuntc and (Ile West c!f Sici/y. London 1903.
(24) Ibid. p. 58.
(25) IbicL p. 73.
(26) IbicL p. 64.
(27) Ibid, p. 68.
(28) ALEC-1WEEDIE, Sunny Sicily, its rustics and its ruins. London 1904.
(29) Ibici., p. 228.
(30) Ibid, p. 231
(31) T. WHITAKER SCALIA, Be,.yarnin lngharn di Palermo, irad. di R. zanca, in Beryaminlngharn nell’econornia siciliana dell’Ottocento, Marsala 1985.
 

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 48-57.




SABINA CARUSO, Sale cinematografiche a Palermo. dalle origini al 1953. Campo, Alcamo, 2007.

I luoghi di uno spettacolo che fiorì a Palermo nella prima metà del ‘900 

Questo libro, oltre che studio storico-architettonico delle sale destinate a cinema, dalle origini a metà degli anni ’50 del ‘900, sembra dare l’idea di un documentario-manifesto per rilanciare, con la rievocazione degli anni d’oro del cinema, l’interesse per questa forma di spettacolo. Il cinema, infatti, ha esordito a Palermo in un momento in cui la città viveva un periodo felice, grazie alla forza trainante della dinastia FIorio che, coinvolgendo l’imprenditoria locale e straniera, aveva risollevato le sorti dell’intera isola, facendo del suo capoluogo una capitale dal respiro rrlltteleuropeo: Floriopoli. 

L’atmosfera brillante della Belle Époque favorì più che altrove il veloce attecchimento del cinematografo, che entrò nelle abitudini dei palermitani modificandone gli stili di vita. Il fenomeno si protrasse anche dopo il declino dei Florio e la grave crisi economica, sociale e culturale che investì la Sicilia a ridosso del primo conflitto mondiale. 

L’evoluzione di una tipologia architettonica per i cinematografi, messa a punto nel 1913-1925, rispecchia il perdurante entusiasmo di quegli anni alimentato da una committenza privata lungimirante (Biondo, Finocchiaro, Utveggio, Bonci, Mangano, per citare i più rappresentativi) che seppe intuire la forza di espansione di questo mezzo di comunicazione e vi investì risorse per assecondare le istanze di un pubblico sempre più esigente e numeroso. 

I progetti per le sale cinematografiche vennero affidati alle firme più prestigiose dell’ epoca, a cominciare da Ernesto Basile che, col Kursaal Biondo, cominciò ad allontanarsi dallo schema del teatro ottocentesco, ponendo le premesse di una ricerca tipologica atta a connotare questi edifici sia strutturalmente sia per il linguaggio architettonico. 

Passare in rassegna attraverso documenti fotografici i vari locali dall’origine sin quando televisione e discoteche ne hanno contratto la frequentazione assume un doppio significato: da una parte far rivivere le immagini di quella che può definirsi un’epopea che ha caratterizzato la nostra storia urbana; dall’altra indurre riflessioni sulla necessità di recuperare quel che resta di un patrimonio storico-culturale che rischia di disperdersi per incuria o disinteresse. Ne ricordiamo i nomi più rilevanti: 

Gran Salone Biondo – Teatro Olympia – Kursaal Biondo – Cinema Excelsior, – Palazzo-Cinematografo Utveggio – Palazzo- Cinema Massimo – Palazzo Finocchiaro – Supercinema – Cinema «II Modernissimo» – Cinema Imperia – Cine- teatro Diana – Cinema Orfeo – Cineteatro Dante – Ci ne-teatro Colajanni – Cinema-teatro Arena Trianon – Cineteatro San Lorenzo – Cinema Gaudium – Cinema Astoria. 

Oltre il profilo architettonico, lo studio ha contestualizzato la società dell’ epoca e i suoi rituali mondani, di cui il cinematografo divenne il luogo più rappresentativo. 

E opportune ci sono parse le rievocazioni di vari interventi nella produzione cinematografica di alcuni gestori e architetti, come Paolo Bonci e Raffaello Lucarelli. 

Per completare il quadro, ricordiamo le principali sale di spettacolo. 

Agria Bellina

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 57-58.




 Giuseppe Palmeri, Giornali di Palermo. Settimanali d’opinione dal dopoguerra agli anni ’80, Ila Palma, Palermo. 

 

Giuseppe Palmeri nei Giornali di Palermo, tra un gelato di scorzonera e cannella sotto le Mura delle cattive, le stigghiole arrostite dello Spasimo e della Kalsa e i primuneddi salati, descrive in maniera puntuale gli odori ed i sapori della sua città, nel trentennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Partendo dalle bombe che hanno devastato Palermo nel 1943, passando poi al dopoguerra e all’autonomia siciliana e finendo con la rinascita della città ed il boom edilizio incondizionato, l’autore crea una breccia nella realtà politico-culturale del capoluogo siciliano. Interessante soprattutto il modo in cui Giuseppe Palmeri incrocia la descrizione dello stato in cui giace la Palermo del dopoguerra alla carta stampata locale del periodo; si sofferma soprattutto su I vespri d’Italia (1949-1963), Semaforo (1961-1964), La Rivolta (1965-1968), Il Domani (1957 1985) e Voce Nostra (1968-1980), emblemi di un giornalismo politico palermitano libero e spontaneo. La prosa di Palmeri è quindi una lettura educativa, oltre che piacevole, perché permette di capire, attraverso i suoi settimanali di opinione, una parte importante della storia della città di Palermo in un periodo in cui, secondo l’autore, si predilige «clientelismo, particolarismo e spreco di risorse». 

Agria Bettina

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 56-57.

 




Un poeta fertile e di rara sensibilità

Un poeta fertile e di rara sensibilità  

Giovanni Monti, con il suo A due voci, in poche pagine riesce ad emozionare ed a creare nello spirito del lettore un varco, quel «qualcosa» che fa riflettere sulla vita, sulla morte ed in generale sull’esistenza. 

Il testo è un’unica poesia, anzi un poemetto, di colloquio con il padre malato; un discorso silenzioso, impercettibile con cui sembrano darsi l’addio. 

Versi semplici sia nel linguaggio che nello stile ma che creano un contenuto ricco e denso di significati profondi, di emozioni contrastanti che lasciano un segno nel lettore. 

Poco altro resta da aggiungere sulla raffinata prosodia di Giovanni Monti, se non l’invito a leggere A due voci non solo con la mente ma soprattutto con il cuore ed a lasciar penetrare nel proprio spirito la dolcezza e insieme l’amarezza dei suoi versi. 

Bettina Agria

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 63