FILIPPO GIGANTI, Ritorno a Jaffna, collana di narrativa «Meridiana», Ila-Palma, Palermo 1993, pp. 352.

Ci sono tragedie che, volutamente, vengono ignorate e non fanno più notizia, non essendo collegate a quegli interessi di cui si fanno garanti, forse nel proprio interesse, le grandi potenze mondiali. Il genocidio operato da più di un quarto di secolo nei confronti della minoranza di etnia tamil, da parte del governo cingalese di Sri Lanka è una di queste tragedie. 

Con il romanzo Ritorno a Jaffna, Filippo Giganti ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dei Tamil che, in una penosa diaspora, hanno lasciano la loro «Isola splendente», cercando rifugio in altre parti del mondo. Innestandosi sulle vicende di alcuni componenti della comunità vivente a Palermo, l’autore, in prima persona, riesce a condurre per mano il lettore da questa terra di immigrazione a quella di origine con una prosa viva e scorrevole che illustra una vicenda carica di avventure, in cui decine di personaggi, ora abbozzati, ora a tutto tondo, scorrono davanti agli occhi del lettore evidenziando problemi personali e familiari, tradizioni e fede religiosa senza che tutto scada nella tentazione della ricerca folclorica. Questa «opera prima» di un apprezzato notaio di professione, che ha sempre coltivato l’esercizio letterario con particolare inclinazione, sorprende per la naturalezza con cui si passa da momenti di forte drammaticità a situazioni di struggente tenerezza, da descrizioni paesaggistiche a intimi approfondimenti. Quei lettori che hanno già dimestichezza con i Tamil, che lavorano nelle loro case o aziende potranno aprire nuovi orizzonti nel reciproco rapporto quotidiano, mentre gli altri, che forse mai ne hanno sentito parlare, potranno apprendere fatti e situazioni ai quali i brevi trafiletti di agenzia, che raramente appaiono sui nostri giornali, non rendono giustizia alcuna. 

Il romanzo è permeato da una costante vena di suspence che suscita tutta una serie di speranze destinate, in gran parte, a rimanere romanticamente inappagate, lasciando il desiderio di un ulteriore complemento, che ciascuno potrà integrare, interpretando a suo modo lo snodarsi degli eventi. E questo è forse il suo maggior pregio. 

Bettina Agria

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 62-63.




Un monastero ortodosso in Oriente e una toccante storia di solidarietà 

Un monastero ortodosso in Oriente e una toccante storia di solidarietà 

Seydnaya è una storia. Seydnaya è un luogo. Seydnaya è amicizia, misticità. Seydanya può essere la storia di chi cerca di capire chi è, chi vorrebbe essere. Il romanzo è ambientato in un monastero singolare che raccoglie donne di religiosità diversa: cristiane, musulmane, ebree vi pregano per la Vergine, perché credono nella sua maternità e credono che «dal Suo grembo passi ogni figlio come ogni speranza del mondo». 

Ci sono due protagonisti e attraverso i loro pensieri. le loro azioni, il loro passato, il lettore impara a conoscerli e ad affezionarsi ad entrambi, seppure così diversi tra loro. Solamente nell’ultima parte i due personaggi si incontrano e basta un solo sguardo per far nascere una profonda amicizia: «Restarono convinti per sempre che in quei primi attimi della loro conoscenza si fossero detti tutto l’essenziale; le parole che quel giorno seguirono furono semplice conversazione, mentre i molti discorsi degli anni successivi rappresentarono la conferma di ciò che avevano provato nell’attimo del loro incontro». 

Il monastero ortodosso tra la Siria e la Terra Santa diviene luogo d’incontro, fisico e spirituale, di questi due personaggi, Gérard e Kurt, e delle loro anime. Due caratteri diversi ma uniti dal destino. Gérard un borghese alla ricerca di un ultimo congiungimento con sua moglie Anna; Kurt un fotoreporter che insegue il successo, la foto perfetta. Entrambi finiscono per trovare a Seydnaya sé stessi e la loro amicizia. 

Pochissime parole sono spese dall’autore nella descrizione del paesaggio, poiché ciò che importa non è l’esteriore ma l’interiore, non l’apparire ma l’essere. Non è il viaggio, né sono le storie dei protagonisti a costituire il cuore del romanzo, quanto piuttosto le loro anime e la loro crescita spirituale. 

Fabrizio Molina usa termini semplici, consueti, ma finisce per strutturarli in discorsi complessi, profondi, che si addentrano nella ricerca dell’ essere. Questo linguaggio, unito all’arcano monastero, contribuisce a creare un’atmosfera mistica, in cui il lettore si trova immerso. Infine, vale sottolineare anche l’obiettivo umanitario prefisso alla diffusione del libro, il cui netto ricavo è destinato ai bambini di «Nessun luogo è lontano-Onlus», di cui l’autore fa parte e che, sin dal 1998, agisce in campo socio-culturale. 

Bellina Agrìa

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 60.




ANNA BELLINA ALESSANDRO, Caminu di la vita, Repertorio dialettale, Ila Palma, Palermo, 2009.

Immagini che rivivono dal passato col sapore della lingua tradizionale 

Anna Bellina Alessandro con il suo Caminu di la vita ci regala un’emozione, un bagliore che riesce a illuminarci, anche se in poche pagine, l’anima. 

Una raccolta di poesie scritte in un dialetto siciliano elegante, usato come lingua maestra per descrivere diversi aspetti della vita quotidiana. 

Particolarmente emozionante è la poesia A Palermu vecchia. In pochi versi l’autrice descrive la bellissima città ed uno dei suoi rituali: l’arrivo de lu gilataru e del suo A st’ura v’arrifriscanu con il quale, in pochi secondi, riesce a radunare una folla di picciutteddi. Sono versi che nella mente del lettore creano un flashback, un ritorno al passato, a quando si era bambini. Chi infatti da piccolo non ha avuto un gelataio preferito e chi non ha corso sudato sotto il sole, così come perfettamente descritto nella poesia, per accaparrarsi il gelato al primo rintocco della campanella? 

Anche La picciuttedda rivela, nel ritmo dei suoi versi, l’ animo sincero della scrittrice palermitana, un po’ come l’occhi ca sunnu lu specchiu di lu cori. In realtà, tutte le poesie sono interessanti, tutte emozionanti e tutte degne d’essere descritte: Miraggiu, Lu latru, Littra a Federicu II Imperaturi … 

Caminu di la vita è un’opera impegnativa come lingua e come tematica, ma semplice e travolgente nella lettura. 

Svelare più di questo non si può … Tocca adesso al lettore scoprire tutto il resto e le emozioni che il Caminu di la vita riesce a suscitare. 

Agria Bettina

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 65.




Recenti considerazioni sul Giovane in tunica 

Poiché è risaputo che tutte le opere d’arte, sia le figurative che le letterarie (architettura, scultura, pittura, arti minori, letteratura, teatro, spettacolo, etc.), fanno parte dell’attività politico-sociale-religiosa di un popolo, vissuto in un delimitato arco di tempo e spazio, è chiaro che l’arte riflette, come in uno specchio, le caratteristiche materiali e spirituali, e quindi anche estetiche, dei componenti etnici di quel popolo stesso in un certo periodo della sua esistenza, mentre è impopolare nei regimi assoluti, dittatoriali. 

Naturalmente ogni popolo (o regime), portatore di un suo ideale politico-sociale-religioso, coerentemente vissuto, resta eternato nelle opere d’arte figurative o letterarie superstiti, in cui esiste – com’è chiaro – una scala di valori: quelle fatte dai geni più grandi, e le altre fatte dagli artisti via via meno eccellenti, ma che riescono a rimanere vivi lungo i secoli. È poi compito della storia universale registrare tutto al punto giusto per i posteri. 

L’arte di un popolo è quindi espressione di una civiltà storica particolare, di una società particolare, vissuta nel suo tempo particolare. Essa è squisitamente sociale: non può non esserlo! Più importante della patria, della politica, della gloria di azioni eccezionali, del denaro, della scienza, della potenza personale o collettiva, della famiglia, più importante di tutto, è, per la persona singola o per un intero popolo, lo spirito religioso che alimenta il culto dell’eternità di enti divini, superiori al comune destino della morte certa per ogni vivente. 

Nella religione è posta la facoltà di un uomo o di un popolo, che con l’arte esprime l’essenza meravigliosa della sua anima immortale, capace di ben distinguere il sacro dal profano. la facoltà di «captare» la vita oltre l’effimero tempo della permanenza terrena, come era per i Greci nei «misteri» orfici. 

L’arte così diventa espressione del divino, forma non moritura degna della divinità, all’insegna della più sublime bellezza. Così i Greci ebbero i loro Numi immortali, scolpiti in forma antropomorfica ideale adorati in case ideali, i templi, protagonisti nella poesia, di mille miti fantastici. 

L’arte greca ha lasciato nelle sue opere originali (non certo nelle copie) le reliquie di questa fede incrollabile nell’immortalità dell’anima, sfuggendo alla falce fatale del nulla. Reliquie che sono opere sublimi, capaci di nutrire egregiamente i sentimenti di tutti gli spiriti umani di ogni tempo, sia con le opere figurative che con quelle di pensiero. 

Anche i Greci Ionici di Mozia vollero i loro templi policromi, le loro statue di numi torreggianti nel vano semioscuro del megaron (cella del tempio), come in una magica teofania. Alludiamo alla statua marmorea, nota come il Giovane in tunica. che noi crediamo il – nume – tutelare dei Greci di Mozia, scolpita in stile – severo -, nella prima metà del V secolo a.C. 

Vediamo come la statua ionica del Giovane in tunica possa far parte dell’attività politico-sociale-religiosa degli Ioni, di cui una minoranza, certamente marinara, si trovava a Mozia, con le altre minoranze èlime, sicane, puniche, presenti anche a Segesta con i Focei. È noto che i Greci erano divisi in tre stirpi, Dori, Ioni, Eoli. Naturalmente più chiara ne verrà fuori l’indagine se la paragoniamo al diverso modo di vivere e operare dei Dori. I Dori erano montanari, gli Ioni marinari, alle origini della loro apparizione in Grecia. 

I primi erano piuttosto rudi e forti, piantati sulla terra avara del Peloponneso che rendeva ben poco; i secondi erano più evoluti, liberi sui mari sconfinati, dediti al commercio che rendeva fior di quattrini e quindi ricchi anche del superfluo, da Atene fino alle loro 12 città dell’Asia Minore, fiorentissime, e, in occidente, fino alla Magna Grecia, Etruria, Gallia, Spagna. etc. Erano belli, come giovani Apollini, delle cui statue riempivano tutti i luoghi di culto in cui approdavano, essendo Apollo il loro dio, capostipite ionio, l’Apollo padre, nascente dal mare col suo carro del sole, dio della vita e della morte, dio della salute, delle 9 Muse leggiadre, dei coloni di tutte le nuove patrie lontane che sorgevano numerosissime lungo le rive del Mediterraneo, l’Apollo padre, adorato come e più dello stesso Zeus! 

I Dori poveri e malvestiti di ruvide lane, gli Ioni coperti di lini fini ed eleganti. Le donne poi dimostravano maggiormente l’appartenenza alle due stirpi dal modo di abbigliarsi e dal tenore di vita: contadine le prime, ricche borghesi le altre. 

L’arte aveva creato un tempio dorico (dopo l’umile megaron), grave e pesante, e un tempio ionico, svelto, dalle eleganti colonne: aveva creato statue di numi ed eroi dorici, massicci, nudi e violenti nelle metope quadrate staccate l’una dall’altra, e processioni di divinità ioniche nel fregio ininterrotto avvolte in elegantissime e diafane vesti svolazzanti al vento come vele sul mare; pitture doriche (forse molto modeste), e pitture ioniche, celebratissime, alte anche sei metri, al dire dei periegeti che ne parlarono entusiasti. E così ai canti corali dei Dori, gravi e solenni, si alternavano i canti epici dei poemi ionici che raccontavano le gesta degli dei e degli eroi dell’Iliade e dell’Odissea dello ionico Omero, il primo e il più grande poeta dell’umanità. 

Chiaramente, dunque, gli scultori dorici preferirono scolpire gli dei, gli eroi, gli atleti, gli efebi, etc., nudi, o con vestiti sommari molto semplici, mentre gli artisti ionici preferirono coprirli di vesti leggiadre, velate, suggestivamente trasparenti, per ingentilire le asperità dei corpi nudi non sempre impeccabili in certe parti, per renderli più belli, più aerei, più fluttuanti fra cielo e terra, più eterei, lontani dalla caducità dei mortali. 

Dopo il 480 a.C., nel periodo della prima metà del secolo V, detto dello stile severo, si scatenò per tutta la Grecia e le colonie qualcosa che raramente può avvenire nella vita di un popolo. 

La piena coscienza di avere sbaragliato centinaia di migliaia di uomini che li volevano sterminare aveva acceso nell’anima dell’uomo greco dei fermenti straordinari di potenza, di spiritualità, di socialità, di religiosità. Da qui naturalmente un potente afflato artistico mirante ad eternare quel clima di gloria, in tutti gli aspetti, ma soprattutto in quello religioso, avendo gli dei – così tutti credevano fermamente! – deciso di rendere il popolo greco, il primo, il più degno, il più forte, eterno nella storia del mondo. 

Templi e simulacri di divinità diventarono le cose più importanti da erigere in onore degli dei. Poeti e artisti ne decantavano, pieni di gratitudine, le lodi, per tanto magnifico dono. 

Ogni città, anche piccola, nella madre patria o nelle colonie, sentì così il bisogno di mettersi sotto la protezione eterna degli dei, così buoni, così apertamente protettori invincibili della stirpe ellenica! Tutti, quindi, si davano da fare per accaparrarsi gli artisti più universalmente noti per erigere statue che volevano collocare nei loro templi, fondati nelle città a dozzine. 

Ma chi erano gli artisti preferiti, più inequivocabilmente grandi? Non potevano essere altri se non quelli che, animati da fervore religioso, riuscivano a far emergere dalle pietre e dai bronzi i sentimenti più nobili, degni degli dei e degli uomini che li adoravano. Così coloro che ci tenevano veramente ricorrevano ad artisti ben noti, rifuggendo dalle opere degli artigiani, dozzinali e spesso insignificanti. 

Nel periodo dell’arte «severa» l’artista cercava di dare il meglio di sé, in maniera egregia e originale. Ma possiamo veramente dire che nelle opere «severe» non ci fosse qualcosa di comune come stava accadendo via via nel campo politico-sociale e religioso del «dopoguerra antipersiano, antibarbarico in genere» in tutte le città della Grecia? 

La guerra aveva unificato, la vittoria aveva glorificato, l’arte ora puntava all’esaltazione degli dei, protettori e salvatori di tutti i Greci della madrepatria e di quelli che vivevano in terre lontane, in Asia e in Italia! Gli artisti, i poeti, i filosofi viaggiavano in un clima di euforia universale, si ritrovavano poi alle olimpiadi, nei santuari panellenici, alle corti dei principi. Tutto ciò doveva sfociare via via nella grandezza del «secolo d’oro», degnamente rappresentato e reso universale da una sola città greca, Atene, capitale e guida della grande nazione ellenica in patria e nelle terre d’oltremare. Le «scuole d’arte» pullulavano, dirette da insigni maestri per rispondere alle richieste dei committenti. Prima fra tutte la scuola di Fidia. 

In genere si parla, da parte degli studiosi, della scuola di Fidia, operante solo nella seconda metà del V secolo a.C., periodo dello stile classico e della creazione del Partenone in Atene, eretto da una quantità di scultori, diretti da Fidia. Ma è lungo la prima metà del secolo che il grande Maestro crea il colosso crisoelefantino dello Zeus di Olimpia, 454/448 a.C., mentre è nella seconda metà che crea l’Athena Parthenos, 447/438 a. C., sull’Acropoli di Atene. 

È chiaro che l’acme di Fidia, 448/438 a.C., e dei suoi discepoli-collaboratori, venne raggiunta a seguito di tutta un’attività artistica svolta nella prima metà del secolo, in cui era in voga lo stile severo. In particolare, se fissiamo la data di nascita di Fidia nel primo decennio del secolo (495 a.C.), e quella dei suoi discepoli-collaboratori nel secondo decennio (490/485 a.C.), si ricava che il Maestro e i discepoli Alcamene, Peonio, Agoracrito, Colote, etc., si siano formati nella prima parte del secolo. I maestri di Fidia, Hegias e Hageladas, scultori, Polignoto, pittore, dovettero nascere nell’ultimo ventennio del VI sec. a.C., sicché, a metà del V, dovevano avere un’età fra i 60-70 anni. Potremmo allora fissare l’epoca degli studi di Fidia fino al 470, (a 25 anni d’età), anno in cui, tenendo conto dell’innata genialità, il grande artista dovette formare la propria scuola di stile severo, dal 470 al 450. 

L’affiatamento fra il Maestro e i suoi discepoli, presto passati al rango di collaboratori ad altissimo livello, diventa così elevato che le opere in marmo, in bronzo, in tecnica crisoelefantina, in toreutica, negli avori, nelle oreficerie, etc., acquistano un alto grado di perfezione e di eccellenza, tanto che potevano essere firmate indifferentemente da tutti, maestro e collaboratori, senza far torto a nessuno. 

Il Tempio di Zeus di Olimpia (Prima metà del V sec. a.C.) 

Essendo quello d’Olimpia il primo di tutti i santuari panellenici, sede delle Olimpiadi, non poteva essere trascurato da Pericle, che aveva in mente idee imperialistiche da realizzare con prudenza, però. Nel 454, volendo trasformare la Lega marittima Delio-Attica in impero, egli fece trasportare i tesori della Lega da Delo in Atene, che, secondo lui, doveva diventare la capitale. A questo punto diamo spazio a una nostra idea. 

Riteniamo che intorno al 454 a.C. Pericle dovette proporre al suo coetaneo e amico Fidia – il Maestro doveva essere quarantenne, mentre i suoi collaboratori fra i 35/30 anni d’età – di adornare il tempio di Zeus d’Olimpia, costruito dal 471 al 455 dall’architetto Libone oltre che delle opere marmoree, anche di una statua crisoelefantina colossale, mai vista al mondo, che doveva essere il simbolo imperiale della Grecia. 

Il tutto senza badare a spese: marmi, oro, avorio, pietre preziose, etc., e soprattutto con l’opera eccelsa dei più grandi artisti dell’epoca, scelti da Fidia, e solo da lui, scultori, toreuti, cesellatori, pittori, bronzisti, etc. Il lavoro doveva essere portato a termine nel più breve tempo possibile, ma egregiamente, in modo da ingrandire il suo prestigio e dare la massima soddisfazione a tutti i Greci della madrepatria e delle colonie. 

Fidia dovette accettare il lavoro delle opere d’arte per il tempio di Zeus di Olimpia, e ne studiò la divisione fra i suoi aiuti così: la grande statua crisoelefantina di Zeus l’avrebbe fatta lui stesso con gli artisti competenti nella tecnica specifica; i marmi del frontone orientale li avrebbe affidati a Peonio; quelli del frontone occidentale ad Alcamene; le mètope agli altri; ma il tutto sempre sui propri «cartoni», in stile severo, o meglio in uno stile severo-fidiaco, che possiamo chiamare di transizione. Anche per la Nike di Peonio. 

A conforto di questa nostra impostazione ci sono le fonti storiche di Pausania che citano Peonio e Alcamene espressamente come autori delle statue dei rispettivi frontoni. Ma i critici moderni non sono d’accordo con Pausania e attribuiscono queste opere ad un ignoto maestro di Olimpia. Come si può ribattere a queste affermazioni? 

È risaputo che certi critici si divertano un mondo a denigrare gli storici, per imporre se stessi, magari basandosi su cervellotiche attribuzioni di copie romane, che naturalmente lasciano il tempo che trovano dal punto di vista stilistico, estraneo al copista. Si potrebbe rispondere che l’unificazione dello stile severo-fidiaco, dovuto ai «cartoni» di Fidia di quel primo periodo della prima metà del V secolo, potrebbe superare facilmente le critiche degli studiosi. 

Alcamene e Peonio scolpiscono come comandano i «cartoni» di Fidia, ma con accenti personali lirici, che non possono essere paragonati alle copie romane di presunti originali dei due artisti, mai trovati! Non resta allora che ribaltare il metodo delle indagini, e veramente attribuire a Peonio ed Alcamene le statue dei due frontoni. 

Pausania (IX, 11, 6) riporta che dopo il 403 a.C. – la data è ricavata dal fatto storico – Trasibulo consacrò un .gruppo scultoreo di Athena ed Eracle nel tempio dell’eroe tebano, in Tebe, gruppo attribuito sempre da Pausania ad Alcamene. Questo è impossibile perché Alcamene non poteva esistere, o creare, alla fine del secolo! Forse era un omonimo. Ma un’opera destinata al culto non è né poteva essere stata fatta molti anni prima della sua consacrazione, specialmente se c’era stata nel mezzo una guerra, per esempio, come quella del Peloponneso (durata circa 28 anni, 431-404). 

L’argomento si presta a tanti ricordi storici. Migliaia di statue bronzee, rapite, come bottino di guerra, dagli eserciti invasori, collocate nei propri templi come trofei, venivano restituite ai legittimi proprietari dai nuovi conquistatori, come avvenne nel 146 a.C., dopo la presa di Cartagine, i cui templi furono spogliati dei trofei rubati nei secoli passati ai Sicelioti, i quali neanche a dirlo, li riconsacrarono, ringraziando i Romani di tanto prestigioso evento. C’erano statue di Fidia nel tempio della «Fortuna huiusce diei» del Palatino, in Roma, al dire di Plinio (34, 54), fra cui un’Athena, riconsacrata dal console Paolo Emilio Lucio Macedonico, dopo il trionfo della fine del 167 a.C. 

La «cerchia fidiaca» e il Giovane in tunica di Mozia del periodo severo 

Il Giovane in tunica di Mozia è ispirato all’Apollo del frontone occidentale del tempio di Zeus in Olimpia, opera, come abbiamo visto, di Alcamene, su «cartone» di Fidia, liberamente interpretato dall’Autore. 

La posa, con un braccio al fianco e la lancia nell’altro braccio, si riscontra nella figura del frontone orientale, riconosciuta come il personaggio di Enomao, frontone scolpito da Peonio. Ambedue artisti della «cerchia fidiaca» del «severo» e del «classico». A questo punto diventa suggestiva l’idea di accostare il Giovane in tunica all’Apollo di Alcamene, i cui volti, ambedue nobilissimi, si richiamano fra loro nei tratti fisionomici e artistici, mentre le vesti aderenti sono trattate in modo raffinato, le fluttuanti più scioltamente. Infatti sarebbe grave negare ad Alcamene, o ad altro artista di pari merito, la perizia di avvolgere la statua con una tunica aderente e trasparente (secondo ben noti schemi fidiaci), la capacità di creare un’opera d’arte di gran classe, dietro espressa richiesta dei committenti, ché forse pretesero, per il loro dio, un «cartone fidiaco». 

L’accostamento estetico fra l’Apollo d’Olimpia e il Giovane in tunica ci suggerisce l’idea della decisione, presa dai Greci lonici di Mozia, di affidare a una scuola famosa ellenica la realizzazione della statua del loro «dio» tutelare. Secondo lo scrivente, ad una di esse, a quella di Fidia, attiva in Olimpia, proprio dentro il recinto del Tempio di Zeus, dove sorgeva l’officina del Maestro, un giorno vennero i Moziesi per risolvere il problema che li assillava. Volevano un simulacro del loro dio protettore, per un tempio della loro terra, Mozia, in cui costituivano una minoranza di Greci lonici, entro i domini dell’eparchia cartaginese della Sicilia occidentale. Volevano un’opera d’arte, di prim’ordine, dalla migliore scuola del tempo, da artisti ionici, come loro, una statua di Apollo Patroo. 

Ai Moziesi, espressamente venuti a trovarlo nella sua officina, Fidia dovette additare l’Apollo di Alcamene sul frontone dirimpetto l’officina stessa, alla presenza dello stesso Autore, finendo per accordarsi su tutti i particolari. 

Così diciamo che potrebbe essere stato Alcamene l’artista a cui Fidia affidò l’incarico di esaudire la richiesta dei Moziesi (greco-ionici, come erano appunto Fidia e i suoi seguaci), dell’Apollo Patroo di Mozia, dio capostipite della stirpe ionica, venerato anche in un tempio dell’agorà di Atene. I committenti vollero il dio completamente vestito dato che dovevano trasportarlo in un paese di «barbari», ostili al nudo figurativo. 

Ci fu nella statua del Giovane in tunica qualche intervento di mano dello stesso Fidia? A volte il Maestro interveniva, altre volte no. Non resta che ammirarla in tutta la sua bellezza. 

Analisi estetica della statua del Giovane in tunica 

C’è molto di «severo fidiaco» nel Giovane in tunica di Mozia, da noi proposto come simulacro di Apollo Patroo. Che cosa in particolare? Il volto, i capelli a chioccioline, la forte ossatura del volto, mostrano ancora l’aspetto severo della composizione. Ma il movimento dinamico del corpo insieme alle vesti trasparenti, «bagnate», increspate, sottili ed elegantissime, non sono ignote allo stile velificato fidiaco che esploderà nelle opere classiche del periodo seguente, della seconda metà del V secolo a. C. 

D’altro canto, se paragoniamo la staticità degli Apollini (Pamopios, del Tevere) di Fidia, e la cattura degli spazi somatici vibranti e profondi da parte dello scultore del Giovane in tunica, ci accorgiamo della formidabile personalità di quest’ultimo che mette al servizio della «teofania» del suo personaggio la nobiltà dell’espressione, la potenza fisica calma e sicura, invincibile, l’eleganza delle vesti, la bellezza straordinaria delle forme, le proporzioni ideali delle masse muscolari avvolte flessuosamente dai lini che fasciano un floridissimo campione umano-divino della stirpe ionica, fattori tutti di rara perfezione, che si possono scoprire soltanto negli originali purissimi dei grandi artisti. 

Nel Giovane in tunica lo scultore è riuscito a rendere palpitante perfino il respiro del torace, gonfio per un’inspirazione profonda, la quale «svela», pur sotto la tunica, l’anatomia fino al basso ventre infossato, traendone spunti estetici raffinatissimi. A tal fine l’artista usa le piegoline sottili, fluenti, spezzandole ogni momento in corrispondenza d’ogni minimo avvallamento del corpo, di cui egli si serve per mettere in evidenza l’anatomia del bellissimo modello, non permettendo mai alla luce di oscurare, con macchie nere e profonde, la fluidità della composizione, resa diafana, sfumata, dolcissima, per raggiungere la teofania nel simulacro, sentita come mediata da una luce interna, d’origine soprannaturale, nullificatrice della materia. Meraviglioso artifizio di membra umane chiamate alla vita dal marmo luminoso, che, in questo caso, si prestava meglio del bronzo al fantasma poetico dell’artista, per il più bello e giovane iddio dell’Olimpo greco! 

Questo spiega anche il «motivo alto della fascia pettorale», che avrebbe annientato, se fissato alla vita, l’armoniosa fluidità e imponenza «dell’apparizione». E spiega anche il «motivo» della tunica talare, che rendeva superfluo qualsiasi puntello alla base delle gambe, necessario invece nelle statue marmoree. Le statue degli atleti erano in bronzo e bastavano di solito due tenoni sotto i talloni per ancorarli alla base (come i bronzi di Riace), per svettare liberi nello spazio. Portata in patria dai Greci di Mozia, la bellissima statua dovette adornare un tempio della città per oltre mezzo secolo (450-397 a.C.). Durante l’assedio famoso, abbattuta, rimase sepolta fino al 1979, data della scoperta. 

Noi diciamo che il simulacro di Mozia è uno dei tanti simulacri degli dei del periodo «severo» (480-448 a.C.), nobilissimo, come lo furono tutti gli altri di quel tempo felice. Un tempo veramente felice e straordinario che venne completato con la più bella immagine del «dio» per eccellenza. Zeus olimpico, di Fidia, l’opera più viva della stirpe ellenica. 

«Ciascuno di voi consideri una infelicità la morte, senza aver 

visto lo Zeus di Fidia»; tali sono le parole di Epitteto, filosofo 

(Arriano, Epitteto, 1, 6, 23). 

Certamente la più eccelsa delle sette meraviglie del mondo! 

Così si chiuse il periodo «severo» dell’arte greca, il Periodo degli Dei, e degli uomini vittoriosi contro le più immani avversità che la storia ricordi, uno dei periodi più belli di tutti i tempi, presente anche nell’isoletta di Mozia, col suo bellissimo Giovane in tunica, il più splendido «dio» della mitologia greca! 

Quante altre statue fidiache sono nascoste fra le rovine di Mozia? 

Giuseppe Agosta 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 41-50.




Vertigine di un equilibrio 

Se tragedia è la presa di congedo, la presa d’atto di una scissione dell’io dal mondo, di una lacerazione nell’io e nel mondo, insomma di una conflittualità non risolvibile, labirintica, Padron ne “I cerchi dell’inferno” (*) tematizza l’umana tragedia ben sopportando quel peso dell’etica che è la volontà di impotenza, pur se, nel funzionamento del testo e nelle sue articolazioni di senso, si avverte il titanismo di un intento che può essere riassunto nel motto di Freud: flectere si nequeo superos, acheronta movebo. Ma mentre Freud postula che la coscienza condiziona l’esistenza, Padron si affida alla parola e non per mimare i ritmi della quotidianità, lesi e inutilizzabili ad affrontare la problematica dell’esistere, ma per dire quelli ottativi della progettazione ove, formalizzandoli, abita e palpita la possibilità della bellezza. Senonché la bellezza è veramente l’esodo da questo mondo, discesa agli inferi: da affrontare ed esperire e da cui risalire (anche a costo di tradire gli occhi di Euridice) – e “i suoi occhi erano luce e tenerezza”1 e “con un’ascia fendettero gli occhi della tenerezza”2, ma padrone del canto, se non “dei mondi / e dell’eternità”3. 

In equilibrio sull’abisso, Padron sta innamorato della notte e della morte che vuole riscattare con la parola. 

La notte che si attraversa in queste pagine non è quella dei romantici, né quella dell’accoglienza: non è né rifugio né riparo, ma luogo ostile, invivibile: una “trappola del tempo”4 ove si perde la coincidenza e la coerenza con se stessi e si resta smarriti e senza identità e l’io non è più certificabile, ma privo di volto e di nome. 

Tanto che, con Agostino, Padron potrebbe dire: amor mortis conturbat me: ma il fascino e l’esperienza della morte – punto d’incontro fra creatività e identità -, il lorchiano gusto di morte, altro non sono che lussuria perché diventano un cupio dissolvi per il quale si rovescia la sentenza dell’Ecclesiaste, onde qui auget dolorem, auget et scientiam. Ed allora, attraversare il dolore è appunto discesa agli inferi ma anche disinganno barocco per il quale si esperisce ciò di cui non si vorrebbe fare esperienza. Percorrere ” I cerchi dell’inferno” significa visitare un luogo non abitabile: un luogo, direbbe S. J. Perse, flagrant et nul comme l’ossuarie des saisons, dove il labirinto è letteralmente smarrimento necessario per avanzarvi. 

Luogo di inappartenenza, perché, pur occupandolo “tra i vivi, /non mi appartengo più”5: dove, poi, “l’ombra è immutabile”6 e non esiste posto “per l’intimo abbandono”7 e “tutto è deserto. / Ormai è senza uscite questo labirinto”8: laborintus che ribadisce “la solitudine che urla”9. E la scoperta della solitudine ne comporta l’assimilazione al labirinto: nel labirinto della solitudine – dove “la memoria dei giorni / è quasi un nonnulla”10 perché “lettere d’amore e i loro progetti / sono ormai indecifrabili per sempre”11, sono “perdute memorie”12- Padron rimane “immobile, identico al silenzio”13, verifica l’asserzione di O. Paz. per il quale soledad y pecado original se identifican. Da questa constatazione prende avvio l’umana tragedia: ma la catastrofe apre al nuovo, è preludio, perché ogni compimento è cominciamento, attesa dell’e-vento e la scrittura di Padron sceglie come statuto quello di orientare, ogni volta in modo diverso, la parola per recuperare la disperazione o per scommettere su di essa e abolirla non già annullandola o rimuovendola. ma trascendendola, facendone una perifrasi della speranza, della “speranza impossibile”14: dire è esprimersi, uscire da sé, spezzare la solitudine. 

L’esaltazione polisemica che succede in questo work in progress fondato sull’ambiguità (nell’accezione e nelle direzioni che Empson imprime a questo termine) e slittamenti di senso, comporta il rischio, non sempre evitabile, di traboccare in un inquinamento semiotico per sovrabbondanza di significati spesso contraddittori e per il quale la metafora, talvolta, si pietrifica in enigma generando l’angoscia delle opzioni possibili. 

In altri termini, questa poesia mentre arriva a sfiorare il mistero e a farsi (quasi) mistica, ripropone anche il sempre latente conflitto fra Letteratura e Linguaggio che in altro non consiste se non nel tentativo perenne di conciliare, in esiti d’arte. facilità di lettura e densità di scrittura, di coniugare trasparenza e occultamento, armonia e allusività, incarnazione e astrazione e, cioè, (insostenibile) leggerezza dell’essere e ineludibile pesantezza del vivere: “quell’immenso affanno/di armonizzare la vita con la parola”15. 

In questa antitesi platonica di lògos e grafé, nel contesto più generale di correlazioni e inferenze che il testo di Padr6n suscita, la lingua viene funzionalizzata a partecipare contemporaneamente a un massimo di realismo e a un massimo di espressività: onde le rotture del ritmo, il variare delle strutture, l’effrazione continua del tessuto lessicale, gli strappi, le trasgressioni, gli eccessi e gli aggiustamenti e accorgimenti strategici della scrittura, finalizzati a spezzare la prigionia della lingua per aderire alla realtà rappresentata e/o immaginata, evitano brillantemente la deriva entropica e la caduta nell’omogeneo o nel monotono. 

In una realtà di segni già interpretati o esausti, Padron inserisce l’implacabile ossimoro della sua autenticità, della sua originalità: la sua esigenza di una diversa ragione del mondo che non sia “solo il pianto, il pianto”16 per onorare l’appuntamento a un luogo dove il tempo si inverta per farsi forma e ritmo – là dove convergono tutte le sirene. Tempo, tuttavia, questo di Padron, che si manifesta come “la lussazione del tempo”17, vale a dire come struttura intem1edia fra quello oggettivo in cui l’Autore è “con mistero e senza ira, / condannato ad esistere, ad essere parte”18: il tempo di Kronos che divora i suoi figli, tempo di distruzione, di strazio e di insufficienza; e quello soggettivo, il vissuto della malinconia e del lutto di aver perso irrecuperabilmente il senso dell’eternità, “nella totale assenza della vita, / … trasformato/nell’eternità morta”19. 

Anche per questo aspetto, Padron riconduce la poesia alla sua organizzata condizione di temporalità organizzata che, cioè, da potenziale si fa attuale in quanto, alludendo a ciò che manca, a ciò che è assente, ne evoca l’essenza e l’attualizza, elide la contraddizione fra vuoto e vastità (nel senso in cui l’intese Rilke) identificandoli e, con ciò, risolve il silenzio nel testo che instaura, traduce il silenzio in parola, forma spuria e scarto del silenzio. 

Perciò i gesti si placano in “una immobilità inestinguibile”20 e si placa il grido che attraversa tutte queste pagine: si placano, componendosi in una catarsi, in una poesia che è recupero del silenzio, “retorica del silenzio”, come dice Genette: eccesso che la parola consegna alla dissipazione. 

Parola che, animando la struttura dei testi, indugia a organizzare epifanie e magie, secondo una personalissima erotografia che non si limita a veicolare significati facendo parlare d’amore la scrittura, ma che producendolo, l’amore, persegue l’evento del segno. Ed è nella semiofania che, pur ubbidendo rigorosamente allo strutturarsi delle condizioni tecnico-espressive che consentono la materialità dello scrivere, la fisicità del prodotto, il testo di Padron suscita imprevisto, crea e innesca attesa, ostende e inventa onde esso e le sue letture non sono mai identici ma di valenza mimetica e di spessore simbolico cosi marcati che, rispecchiandosi reciprocamente, infinitamente riverberano, moltiplicandosi perché “voragine e gelo hanno gli specchi”21 e riflettono nunc et semper – in modo istantaneo e permanente – “la nostra perdita sfrenata”22, sono “abisso del mio inferno”23. 

In questa ottica, la scrittura, fra tensioni e tentazioni, diventa ricerca di un dire che coincida con l’essere, onde la parola, inseguendosi, si fa sull’abisso – vertigine di un equilibrio fra il grido e reco che lo prolunga, secondo un paradigma dell’inconclusione: tragicamente, si conferma l’impotenza pratica del poeta che, come Edipo, non può, non potrà mai, trasformare il cammino in regno. 

La parola, attesta questo libro di Padron, deve tendere a sbocciare in luce, rischiando che essa sia oscura: nil obscurius luce, perché sempre in bilico fra attesa e oblio, fra il dire e il tempo, fra essere e tempo; e il rapporto con la morte – che stabilisce – diventa il suo statuto definitivo: dice – con L. Chestov – le rivelazioni della morte.Perciò a me pare che col titolo “l cerchi dell’inferno”, J. J. Padron non si limiti a sintetizzare, alludendovi, il contenuto del testo senza, peraltro, esaurirlo, sicché l’oggetto ne risulta citato, ma voglia costituire una epigrafe di commento e di compimento: dunque. riassumere i testi riproponendoli in un paradigma dell’attesa, dell’e-vento, promessa di un nuovo inizio, in una conclusione inesauribile dalla quale tutto ricomincia. Perché è là, dalla chiusura del cerchio che tutto ha eternamente, inizio, per ripetersi: e il ripetuto è simbolo di ciò che diventa, della parola (in principio erat verbum) che sempre in se stessa muta: qui – richiamando Paul Valéry – te remords l’étincelante queue/ dans un tumulte au silence pareil. 

Giuseppe Addamo

*. Le note si riferiscono all’edizione italiana edita dalla Libera Università Mediterranea, Trapani, 1990. 
l. La donna della terra – pag. 37 
2. Tra noi crescono – pag. 52 
3. Il sogno del sesso – pag. 39 
4. La trappola del tempo – pag. 50 
5. Non so per quanto tempo – pag. 60 
6. Fetore – pag. 21 
7. Forse il fango stesso – pag. 46 
8. Fetore – pag. 21 
9. La città della morte – pag. 32 
10. Consiglio per il viandante – pag. 64 
11. Dove, dove andare – pag. 57 
12. La trappola del tempo – pag. 50 
13. L’invasione degli atomi – pag. 19 
14. Il grande iride – pag. 34 
15. Un’immobilità inestinguibile – pag. 27 
16. Il pianto – pag. 70
17. L’invasione degli atomi – pag. 20 
18. Quel frondoso peso – pag. 23 
19. Forse il fango stesso – pag. 46 
20. Un’immobilità inestinguibile – pag. 27 
21. Voragine e gelo hanno gli specchi – pag. 68 
22. E se Dio si stancasse di noi – pag. 31 
23. Voragine e gelo hanno gli specchi – pag. 68

 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 17-21




QUANDO FA GIORNO 

Nella notte distesa come un manto 
il fischietto del vigile notturno 
è un sibilo lungo ed uno breve. 
Latra una cagna quasi di paura 
al giorno che rivela le sue astuzie. 
Sdraiata sull’asfalto, con le zampe 
in alto, 
si lecca . .. Si ripete 
il fischio acuto nella notte vuota. 
Silenzio nelle case 
ad avvolgere il sonno della gente 
chiusa tra quattro mura 
a covare segreti di famiglia. 
A un angolo di strada fa le fusa 
la gatta e pare voglia dire cose 
confidenziali. 
La cagna sulla soglia d’un portone 
già veglia sulla notte che dirada. 
Un uomo 
si rifugia nel sogno e il materasso 
ritma frasi d’amore, mentre lente 
rientrano le amiche della notte. 
Sotto la mia frnestra fa due fischi 
il vigile notturno 
e tira oltre misurando il passo. 
Nella mia solitudine raccolta 
ascolto i fischi e penso 
a chi è solo e vive chiuso in sé. 
Sul mio letto distesa, qui, al riparo 
delle lenzuola, vago col pensiero … 
Nel giorno che si apre mi accompagna 
il vigile notturno 
con la gatta e la cagna.

Abou Adel Adani

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 43.




Fame

 Un uomo camminava per la strada, 
i passi incerti. 
Gridava: fame fame 
ho tanta fame. 
Nessuno 
gli dava ascolto. E lui: ho fame, fame. 
Ho fame, fame. 
Poi ci fu qualcuno 
che gli si mise accanto 
e disse: fame 
abbiamo fame. 
E così in due 
continuarono per la stessa strada. 

Adani Abou Adal 

da «L.B .» n. 27, Sào Paulo, 2002

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 42.




 Vittorio Morandini, Cronaca di un’amicizia, Edigraf, Roma, 2005. 

È la storia fedele che muove non da ispirazione unitaria di un patriottismo soltanto a parole e da un’amicizia al limite del sublime, bensì da una fattiva e intensa partecipazione a straordinari eventi tra innumerevoli sofferenze in una guerra che non le risparmia a vincitori e vinti. La morte dell’amatissimo Piero colpito da piombo nemico genera nel protagonista un angoscioso turbamento che lo accompagna tutta la vita, nell’incessante ricordo dei giorni trascorsi con l’amico del cuore, quando, ardimentosi entrambi, profondevano energie per il raggiungi mento dei loro ideali. Nell’estremo tentativo di salvarlo: «Quel corpo Vittorio sollevò con fatica, sotto quel corpo scivolò nel fango e l’acqua motosa entrò nella bocca del vivo e del morto; avvinti i due amici avanzarono lentissimi nella melma fino alla scarpata! Qui Vittorio cedette, la carne esausta, lo spirito affranto. Un pianto lungo, convulso, urlato, chino sopra l’amico che giaceva sulla riva del gran fiume con tutta la propria morte addosso.»

Prodigo di ricordi, ora tristi ora lieti, l’Autore ce li fa conoscere attraverso carrellate di lontane memorie, con descrizioni che esaltano la sua narrazione ricca di rincorsi ideali, di audaci speranze, di affetti profondi ampiamente espressi anche nei fluidi versi di Momenti lirici, oltre che nella limpida prosa delle sue varie vicende. 

Particolare commozione suscita la raccolta dei miseri resti del citato Piero Menichetti sottratti all’inclemente incuria del tempo, dopo essere stati a lungo sul margine del Po, finché ricuperati e tumulati accanto a quelli del padre e della madre. Il tutto in un clima di religiosa compostezza, nel rimpianto struggente dell’adorato commilitone caduto nel fiore degli anni. 

In questo diario di guerra, amore e morte dominano lo scenario di contrapposti ideali: un valido stimolo per allargare la conoscenza dei tanti fatti e misfatti che i deprecabili conflitti comportano con distruzioni devastanti, come quella, ad esempio, di Amburgo, orrenda e inespiabile, e di tante altre volute in forza di un presunto diritto di superiorità e di preminenza, diritto che in ogni tempo, tirate le somme, non ha mai avuto obiettivi riscontri di vera giustizia per vinti e vincitori, né mai è stato foriero di pace duratura tra la stirpe degli uomini. 

Diario pieno anche di esuberante freschezza giovanile, di sincerità, di altruismo: sentimenti gentili eppure non privi di disapprovazione per il mancato riconoscimento di quegli ideali di patria negati ai ragazzi della R.S.I. che avevano operato fino all’ultimo giorno, saldi nella loro fede per la quale «il nemico rispettoso e ammirato concesse loro l’onore delle armi in quei campi di Conselve, quella notte del 29 aprile 1945». 

Mai retorica, mai posizioni di parte, mai vedute distorte nelle pagine di tutto il diario, ma fedele corrispondenza dai resoconti inalterati, all’insegna della più scrupolosa obiettività, la stessa che spinse il Maresciallo Montgomery, visconte di El Alamein e comandante dell’VIII armata inglese, ad affermare: «Penso che l’armistizio del Savoia e di Badoglio sia il più grande tradimento della storia.» Distacco sereno di chi prende le dovute distanze da coloro che, esibendosi col pretesto di fare ad ogni costo cosa gradita ai fuoriclasse del trasformismo e voltagabbana al cambiar dei venti, spesso stravolgono verità storiche dando a divedere lucciole per lanterne, in un intreccio di improvvisati soloni, figli della menzogna, squallidi nel cuore e nella mente ottenebrata dalla torbidezza d’insane passioni. 

Si può dire che, prima di essersi dato cura di trovare uno stile e una forma di distinzione a lui ascrivibile, il Morandini ha preferito esprimere la propria umanità lontano dal fare accademia. Scelta, questa, che può essere sgradita a chi è abituato ad esprimersi con magniloquenza, viceversa gradita presso un pubblico che apprezza l’arte dell’onestà in una narrativa lontana da inflazionistici premi letterari e comunque ricca di appropriate capacità espressive di un’apprezzabile tecnica che ci riporta a un verismo più vicino ai sentimenti del Nostro. 

Habent sua fata libella, avverte Terenziano: i libelli hanno un loro destino, ed anche i libri che tali non sono, aggiungiamo noi, augurando all’autore il successo che merita per avere scritto qualcosa di buono. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 47-48.




 Uno strumento di prestigio 

Signore e Signori, buona sera, sono qui con voi per onorare “Spiragli” della cui Redazione faccio parte sin dal 1989. L’inizio del percorso non è stato facile, come non facile, del resto, per molte realizzazioni al primo impatto con la realtà. Epperò, come spesso accade nelle comuni durezze, con tenacia e coraggio anche gli ostacoli più duri vengono superati. Lo ha dimostrato Salvatore Vecchio, fondatore e direttore della Rivista, al quale va il nostro vivo ringraziamento per le sue interessanti pagine dense non solo di sicilianità ma anche di orgogliosa italianità 

Coadiuvato dalla prof.ssa Maria Di Girolamo, sin dai primi numeri della Rivista, ha ricevuto apprezzamenti di studiosi di varie correnti culturali, con conseguente crescita dell’indice di gradimento anche in diversi stati esteri: Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Spagna, Canada, Brasile, Giappone, Messico ed ora anche in Cina, tanto per citarne alcuni; e l’elenco sarebbe ancora troppo lungo, come altrettanto lungo il tempo per illustrare il lavoro svolto dagli studiosi che hanno contribuito a fare della Rivista uno strumento di prestigio nell’ambito della cultura nostra e internazionale. A costoro il plauso nostro e di tutto il Comitato di Redazione. 

Del prof. Vecchio numerose le opere di elevato valore culturale. Ne cito alcune: Vincenzo Cardarelli l’etrusco di Tarquinia, Pirandello e Ionesco, La Terra del Sole, La letteratura siciliana (vol. I). Molti i riconoscimenti di merito, tra i quali il “Premio della Cultura” della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Accademico Honoris causa dell’Accademia Siculo-Normanna di Palermo e Monreale. 

Sorge spontanea una domanda: ma che c’èdi più propriamente diverso che in “Spiragli” desta particolare interesse e aumenta il numero dei lettori? 

A chi è abituato a penetrare le profondità del pensiero dei vari scrittori non sfugge il fondamento di una cultura umanistica, intesa come continuazione del ruolo educativo e formativo che nella società possono svolgere ovunque, e in ogni tempo, coloro che attingono alle limpide sorgenti di un sapere che è stato sempre fonte di civile progresso. 

Sono questi i principi racchiusi in “Spiragli”, propugnati e trasmessi da Salvatore Vecchio, sensibile ai bisogni degli afflitti, degli umili, dei bisognosi, di chi vessato da una giustizia iniqua e assai spesso cinica, e aperto alle varie problematiche sociali. 

Liberalità umanità rispetto per la Natura, amore per tutto ciò che di buono e di bello eleva ad agognate altezze, sono gli elementi che danno vita alle nobili iniziative della Rivista, in linea con quanto stabilito sin dal suo esordio. Questo il segreto. 

“L’illuminismo teorico e l’empirismo conoscitivo accendono i fari dell’intelligenza” soleva dire il compianto Romano Cammarata, uomo di elevata cultura e di spiccate qualità morali, esempio di umiltà nell’espletamento delle sue alte funzioni nel Ministero della Pubblica Istruzione, grande innamorato della sua Sicilia. Lo stesso amore, le stesse idee dell’amico intellettuale sono quelle di Salvatore Vecchio da Lui indirizzato alla ricerca di approfonditi studi nel complesso panorama storico della vetusta Trinacria. Di quell’illuminismo non sono mai mancate, e mai mancheranno nella Rivista, anche pagine di vita dedicate all’Isola e ai suoi uomini migliori. 

Sulla spinta di condivisi ideali per mutare in meglio la società sono certo che, nella ricorrenza del futuro trentennale di “Spiragli” coloro che vi parteciperanno avranno contezza di aver creduto all’esistenza di un mondo extramentale da cui molte idee, balzando con forza alla nostra coscienza, ci sproneranno sempre a sperare in meglio e a bene operare. 

Ancora un elevato pensiero a coloro che non sono più con noi, a Giovanni Salucci, Davide Nardoni, Romano Cammarata, Mario Caruso, e a quanti altri in questo momento mi sfuggissero, ancora un grazie agli affezionati collaboratori, lunga vita ai nostri lettori, a quegli autori che, dall’alto delle loro cattedre ci trasmettono, coi loro scritti, esempi di probità e di civile progresso. Auguri. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno XXII n.1, 2010, pagg. 3-4.




 Un dramma di elevata potenza descrittiva 

Romano Cammarata, Dal buio della notte, Armando Editore, Roma, 1983. 

A chi ancora non si fosse soffermato a meditare sul significato della parola supplizio sin nei termini ultimi delle comuni possibilità interpretative e per mancanza di amore verso il prossimo, o per semplice apatia non abbia provato, almeno una sola volta nella vita, effetti benefici dopo essersi compenetrato nel dramma di una qualsiasi creatura, che al martirio della Croce non pari sol perché a tutte le innumerevoli sofferenze fisiche non si è potuto aggiungere il barbaro rito della vera e propria crocifissione, quest’opera sortirebbe nient’altro che un freddo e alquanto distaccato interesse. Viceversa lascerà una traccia indelebile nel cuore e nella mente di tutti coloro che, avendo provato l’intensità del proprio dolore, delle proprie afflizioni esistenziali, giudicheranno meritevole di esaltazione il calvario del protagonista minato da un terribile male, risorto a nuova vita, grazie alla sua tenacia, alla sua resistenza agli assalti della malasorte nella tempesta di timori e pensieri funerei, oppresso dall’assillo di un’ipoteca totale a garanzia di un viaggio senza ritorno, a lungo tempo e puntualmente rimandato ogni volta che il responso delle analisi cliniche ed istologiche lasciavano spiragli ad un esile filo di speranza vitale. 

Andrea, questo straordinario sopportatore del dolore e artista della penna, ha saputo ovviare alla fragilità di detto filo con una resistenza che più volte – miracolo? – ha retto persino agli attacchi della ghignosa signora, impaziente ora più ora meno, ma sempre pronta a ghermire la preda nel silenzio delle interminabili notti insonni, tra il timore inconfessato di una imminente dipartita o di una non più possibile procrastinazione, tra una carezza e l’altra di Francesca che con bisbigli di consolazione e di amore si mostrava desiderosa di appropriarsi i dolori dello sventurato sposo come a lenirgli il travaglio dell’incessante tormento. 

In una esposizione lineare e rispettosa del migliore uso della lingua italiana, Romano Cammarata ci ha trasmesso un dramma di elevata potenza descrittiva in tutti i risvolti e rilievi di un’allucinante esperienza. Ed è senza dubbio merito da riconoscergli senza riserve, se pensiamo che altri, al posto suo, avrebbero potuto avere persino timore di descriverla per non rivivere, ai confini dell’umana sopportazione, una lotta tante volte ritenuta impari e tuttavia combattuta dalla ferrea volontà di non demordere, di continuare a vivere pur tra i rantoli della disperazione, di dimostrare, nel modo e nel senso più credibili equalmente certi, che quando si è sorretti da una forza morale l’attesa di sublimi miracoli non è poi sempre vana. In Dal buio della notte è difatti dimostrato che competenza, tecnica e dedizione di valenti luminari della medicina e dell’alta chirurgia fanno ottenere risultati sorprendenti se il paziente reagisce all’idea della capitolazione. L’odissea di Andrea ne è una comprova. 

Privo di un occhio asportatogli, devastato in viso, in ansia nella speranza di guarire e l’avvilente incertezza della buona riuscita, con la metà del palato e una mascella ricostruita, finalmente vittorioso sulla morte in agguato, il degente che oltre che per i suoi mali soffriva per quelli dei compagni che non rivedrà mai più e che ricorderà con sentita commozione, oggi, nell’espletamento delle complesse mansioni attinenti alla sua professione, è un uomo di una serenità olimpica, che infonde fiducia e coraggio con l’eleganza del suo dire, pago d’aver dimostrato che a colui che vuole nulla è impossibile e che, in definitiva, l’amore per le cose e per le persone amate, l’attaccamento alla vita, il rispetto per i propri simili, il disprezzo per gli impietosi che non si rattristano nemmeno in casi disperati, avranno la meglio nel superare qualsiasi ostacolo. Tanto più se sorretti dall’ardente desiderio di non lasciare orfani i propri figli e maggiormente se spronati a resistere dalla santità di una donna, senza l’abnegazione della quale il nostro protagonista non ci avrebbe potuto raccontare il suo dramma perché, probabilmente, già morto. 

Storie del genere saranno accadute già altre volte, pochissime a lieto fine, per la verità, ma la Via Crucis di Andrea può a ragione ritenersi un esempio di ricupero ad un passo dalla fine, di riconquista del proprio equilibrio psicofisico, una dimostrazione di come comportarsi quando più aspra si fa la lotta nel periglioso pelago delle sventure umane. Sì, la riconquista di un bene prezioso strappato alla morte, il superamento di se stesso forgiato dapprima dalla fucina del dolore e dalla tribolazione, indi sospinto a novella vita dalla ritrovata felicità. 

Donato Accodo 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 62-63.