S. Zarcone, La carne e la noia, Palermo, Ed. Novecento, 1991 

In un contesto moderno di contraddizioni e rivendicazioni in continua conflittualità per diverse regioni di ordine sociale la critica di Salvatore Zarcone sulle opere e la vita di Vitaliano Brancati merita un posto di tutto rispetto perché espressione di una complessa e vivace problematica di una sofferta realtà in un periodo che lo scrittore pachinese ha vissuto con intensa partecipazione e fin nei termini ultimi di una speranzosa quanto vana attesa di ottenere consensi al suo innovativo apporto culturale: integrare la politica con la letteratura, in particolare con l’efficacia di rappresentazioni teatrali. 

Stile manierato, accorta ricerca analitica nei trascorsi eventi all’epoca in cui il Brancati scriveva opere condite di varia cultura, sono i pregi salienti dell’autore di La carne e la noia espressi con forza effettiva e determinatezza. Egli riscopre, in chiave di obiettiva valutazione di merito, i principi innovatori della tematica di chi aveva già previsto, assertore della necessità di collaborazione tra cultura e politica, l’efficacia di una reciproca comprensione al fine di dar vita ad una società più giusta, più rispettosa dei diritti altrui, che col suo inarrestabile progresso avanzi di pari passo con le esigenze dell’uomo e spiani la strada a giorni migliori tra i popoli oppressi nei loro squilibri lungamente pervasi da falsi fatui valori, animati da propositi di vendetta, di perverse ideologie, mai cessando di sostenere che gli uomini hanno diritto ad una vita più degna di essere vissuta, libera da strettoie oppressive, più attinente alle loro aspettative di soddisfacimento essenziale, da quello della fame e del lavoro a quello culturale brutalmente represso da un sistema capitalistico, autoritario, subdolo e disumano. 

Contro un sistema così inquinante, che coinvolge i protagonisti del mondo brancatiano Zarcone vi si cala nel fondo dei loro risentimenti senza mai smettere di dare battaglia ispirandosi ai suoi principi secondo i quali la letteratura può convivere con la politica, pur nell’incessante accavallarsi di forze avverse e mistificanti, basando le nostre convinzioni su nuovi metodi di osservazione e deduzioni immuni da deformate angolazioni del pensiero culturale, proprie di quegli esseri che alla logica di una reale obiettività contrappongono assolutismi vecchi e nuovi, ideologici e pratici, nella speranza di un rinnovamento etico religioso dell’uomo conscio della sua dignità in una società più saggia, più ordinata e giusta. 

In polemica contro l’intellettualismo di orientamento hegeliano e contro la filosofia tradizionale staccata dai nostri bisogni e dai problemi esistenziali Zarcone condivide l’impostazione culturale del Brancati, riconoscendogli il suo assunto secondo il quale l’uomo dev’essere in condizione di affrontare la vita con virile consapevolezza e positivo coraggio, in linea col concetto di Heidegger che rivolge la sua attenzione alla ricerca del senso dell’essere il quale ha continue possibilità di aumentare e perfezionare le proprie attitudini di civile progresso in tutti i campi dello scibile, in proficua collaborazione che faccia bene sperare in un futuro libero da discriminazioni. 

Insomma, in un progresso di educazione pedagogico-letteraria tra tutte le nazioni, libere da egoismi e da orgogliose inveterate vanità. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 41-42




 Quando la letteratura diventa infiorata 

Contrariamente alla mia inclinazione a scritti polemici e seriosi, questa volta, con l’accaduto che sto per raccontare in chiave scherzosa ma vera, mi riprometto di esilararvi col preciso intento di farvi dimenticare, sia pure per poco tempo, gli affanni quotidiani. 

Il titolo, invero, per amore di rispetto al nostro idioma, è di ripiego, ché più attinente allo svolgimento dei fatti sarebbe stato ben altro. State certi, comunque, che non starò, novello Erasmo, ad ammalinconirvi con poderose elucubrazioni sulla pazzia, giacché, da quando il filosofo olandese ne trattò, è passato tanto tempo che, essa, la follia, si è talmente diffusa da rendere un inutile perditempo seguirla nelle sue svariate manifestazioni, risultando, invece, più agevole soffermarsi sui casi che se ne discostano, e perciò più facilmente individuabili. 

Ma sia pure come modesto omaggio ad Erasmo, come convalida delle sue teorie, proviamo a trastullarci un po’ su un avvenimento che ha nutrito ampiamente la cronaca, e che meriterebbe di essere tramandato ai posteri, affinché essi, rivolgendo il pensiero ai progenitori – a noi, che allora saremo diventati gli avi – possano sentirsi più orgogliosi di quanto lo siamo noi dei Quiriti, d’essere i discendenti di una eroica schiatta, quella alla quale ora modestamente apparteniamo e che sarebbe stato meglio fosse … schiattata un secolo prima. 

In Italia, com’è noto, vi sono numerosi festival, i più noti dei quali, quello della canzone a Sanremo, quello del cinema a Venezia, quello dei due mondi a Spoleto; ci sono poi: quello dell’uva, quello dei carciofi (auspice il decantatore di un certo amaro), quello dei tartufi, non ricordo dove, senza contare i festival dell’unità (d’intenti), dell’amicizia, che pullulano un po’ dovunque, saturnali, dove non occorre ricercare molto per rinvenire, anche senza cane da fiuto, lo squisito porcino, e che un novello Macrobio non mancherà di immortalare e tramandare ai posteri. 

In un paese così ricco di sagre non potevano mancare i festival del libro e, dopo i primi istituiti, che potremmo chiamare classici, ne sono proliferati, dalle Alpi al Lilibeo, in così gran numero e varietà, che le .denominazioni non bastano più a qualificarli; per cui, continuando di questo passo, andrà a finire che, dal premio bancarella si arriverà, forse, anche al premio deschetto. 

Ora, quello che di particolare pare abbiano questi premi della carta stampata, sembra sia il fatto che tra membri delle giurie e concorrenti da giudicare avvenga una specie di avvicendamento, una rotazione, per cui, ad intervalli di luogo e di tempo, alcuni Tizi vengono a trovarsi al di qua o al di là della barricata: vale a dire, giudici o giudicandi. 

Da questa situazione, in un paese facile ai sospetti tendenziosi (e spesso infondati), si è fatto discendere una conseguenza, non si può affermare quanto ragionevole o quanto calunniosa. E cioè: tu dai (oggi) una cosa a me, io darò (domani) una cosa a te, come usa ripetersi in certi slogan pubblicitari caroselliani. 

Avvenne, qualche anno fa, che in uno di questi festival cartacei, una nota scrittrice, Dacia Maraini, ottenne un premio letterario, non saprei se di I, II o III categoria; fatto sta che l’ottenne. Avvenne pure che, tempo fa, altro non meno noto scrittore, Berto, non saprei se contemporaneamente concorrente al medesimo certame e rimasto escluso dalla candida rosa dei premiati, o rimastone escluso in altro torneo, oppure, escluse tali ipotesi, ma semplicemente perché animato da spirito di giustizia, in omaggio al quale certi accessi fervorosi viaggiano addirittura con un bilancino in tasca, avvenne, dunque, che il Berto si lasciasse andare, un certo giorno, a fare qualche allusione – velata oppure evidente – sul pieno, mediocre e scarno merito con cui la Dacia ottenne, in quell’occasione, il succitato guiderdone. 

Ora bisogna tener presente che, nel Bel Paese è lecito dissentire, e quindi muovere critiche, solo nei riguardi del governo od in merito alle sentenze emanate dalla magistratura, in omaggio alla conquistata – con annose e animose lotte – libertà di opinione, ma non spaziando in altri campi dove l’opinione può tramutarsi in calunnia, ed è bene che ciò sia, altrimenti la ridda delle opinioni richiederebbe che il numero dei tribunali – e quindi dei giudici criticabili – venisse per lo meno centuplicato. 

Stando alle notizie di stampa, non sembra, però, che la Maraini abbia pensato di querelare per calunnia aut similia Berto che, questa volta, non si era limitato a filare, avrebbe intaccato la Dacia nelle latebre più intime. 

Ma la Maraini non ha adito, come suol dirsi, le vie giudiziarie e, per tale rinuncia od omissione, possono farsi soltanto delle supposizioni. 

Sarà stato, probabilmente, per non completa e assoluta fiducia nei giudici dalle facili e criticabili sentenze (ma questa è una mera ipotesi soltanto congetturale – sarà stato perché, dall’alto del suo piedistallo (…de minimis non curat praetor) reggentesi su un consenso che avrebbe potuto vacillare – considerandolo res nullius – lo sconsiderato provocatore, sarà stato per altri eventuali motivi personali, non c’è stato ricorso alle vie legali. Ma se lo è legato al dito, questo torto, la Maraini, evidentemente incline a farsi giustizia da sé, largendo pan per focaccia, anzi, per meglio dire, tocco di sfilatino per focaccia. 

E si arriva così al secondo atto della tragicommedia dell’arte (letteraria) nella quale il colto pubblico e l’inclita guarnigione può vedere come la Dacia Maraini, in un’intervista concessa alla giornalista Lietta Tornabuoni, ha malamente qualificato l’antagonista Berto, il quale, vedendosi, in tal modo, scultoriamente e lapidariamente contrassegnato, è insorto ed ha adito quelle cotali vie. 

Cosa ovvia, se si considera che l’intervistatrice ha messo nero su bianco, diffondendo agli otto venti l’accaduto. Maliziosetta, anzichenò, questa Lietta . . . o no? 

Il suo nome, costituito da un diminuitivo a sé stante, sembrerebbe indicare una bonaria ingenuona, tutt’altro che un’aggressiva enfante terrible, e se ha preferito scrivere, è stato certamente perché, da coscienziosa giornalista, ha voluto attenersi alla completezza dell’informazione e alla più pura obiettività. 

Ed è stato così che, rubando lo spazio alla crisi di governo, ai problemi del lavoro, della scuola, degli ospedali, dell’ecologia, solite solfe che ormai ha perduto mordente, il fatto è assurto all’onore delle prime pagine dei giornali, facendosi largo a gomitate, anche se gomiti non ne ha, tra le altre notizie semiserie, con cui le pagine devono essere riempite prima di andare in macchina. 

Ma, in macchina, in sontuosa Rolls Royce, c’è voluto andare, stavolta, anche il vilipeso scrittore ch’è voluto entrare, trionfante, anche nelle aule giudiziarie di Torino. 

Già prima di arrivare alla discussione dibattimentale, che si era preparata per l’occasione, si fanno indagini etimologiche, filologiche, linguistiche, si considera il vocabolo incriminato da diverse angolazioni, come si fa con la moviola per i falli in area di rigore, per discutere se costituisca ingiuria oppure no, ecc. 

In attesa che più profondi conoscitori, con alate e filosofiche argomentazioni, espongano – quando si terrà il processo – le loro teorie, noi, come fanno gli scolari ai quali l’insegnante ha insegnato un argomento, per svolgere il quale devono fare opportune . . . ricerche, abbiamo voluto appunto eseguirne qualcuna, della quale esponiamo il risultato: senza, con ciò, voler formulare e anticipare giudizi, ma semplicemente perché, essendo l’argomento apparentemente nuovo, suscita una certa curiosità che merita di essere appagata senza, però, manipolazioni o vivisezioni, ma con la raccolta di documentazioni fatta con lunghe pinze automatiche onde restare a debita distanza. 

Non riferiamo, per un certo riserbo, il vocabolo oggetto della disputa. Ma consultandolo nel vocabolario della lingua italiana, edito da Curcio, e nel Dizionario Enciclopedico Treccani, riteniamo la definizione di quest’ultimo abbastanza esatta. 

Da notare, infine, che sono previsti anche i diminuitivi, con terminazioni variate e ce n’è per tutti i gusti. 

In ogni caso, però, è ancora da notare che ha non poca importanza l’intonazione di voce, l’inflessione, la maggiore o minore intensità e musicalità che accompagna la parola, nonché l’aggiunta, a contorno, di eventuali gesti espressivi. 

Ma, come si fa con la lingua, la quale, spesso, sdegna la forma puramente letteraria, per attingere alla parlata viva del popolo, allo scopo di rendere con più evidenza un’idea, conviene lasciare da parte i vocabolari scritti da gente troppo seriosa, prima di sentenziare se la parola incriminata sia da considerarsi impura oppure un babà intriso di rum, e cercare riferimenti più semplici ed obiettivi. 

Questa volta conviene risciacquare i panni, anziché in Arno, nel Tevere, che per quanto riguarda acque torbide e fangose, non la cede al gemello toscano. 

Conviene andare nell’Urbe che, d’altra parte, può considerarsi madre putativa di tale poco nobile rampollo, a giudicare dall’uso assai diffuso che i cupolonisti fanno dell’espressione che Coty avrebbe certamente disdegnato. 

Se a un ragazzino romano de Roma si chiederà che cosa significa la frase: “… ma è proprio bbona” riferita a una gagliarda passante, non risponderà certamente che trattasi di persona di buon cuore, umana e pia: risponderà, invece: “, , . a me pure me piace cce starìa … “! 

Allo stesso modo, se al solito ragazzino de Trastevere, si domanderà: “Che significa che quel passante è uno…”, risponderà, siatene certi, in modo poco lusinghiero per l’inconsapevole passante usato come cavia.

 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 45-48.




 Popolo e Cultura 

Il popolo è una comunità umana caratterizzata dalla volontà degli individui che la compongono di vivere sotto lo stesso ordinamento giuridico, e più propriamente, come dice Cicerone (Rep. 1, 25, 39), non è un qualsiasi agglomerato di uomini in qualsiasi modo riuniti, ma di gente associata dal consenso allo stesso diritto e da una comunanza d’interesse. Ciò premesso consegue che, allorquando proprio per mancanza di interesse il consenso a questo diritto viene a cessare, per diffidenza verso abili e inveterati approfittatori del bene comune, che operano per loro esclusivo tornaconto, ai cittadini defraudati dal loro Stato altro non resta che privarli del mandato, non rinnovando loro la propria fiducia e nulla concedendo per sostenerli in vita. 

E intanto si continua a governare male, senza seguire uno schema prestabilito. Nel contempo il popolo, in nome del quale il sommo Arpinate si appellava nelle sue ardenti requisitorie per rilevarne la sovranità, ha meno titolo che mai senza una guida che dia finalmente fiducia e lo sproni alla ricerca di quegli ideali propri degli uomini liberi. Siamo ancora a più di duemila anni fa, quando Plutarco, nelle sue Vite parallele, volendo denunciare certi comportamenti dei mortali, lamentava che molti uomini sono come le pecore: laddove si dirige una, tutte vi convergono le altre. Epperò i motivi di simili comportamenti sono sempre gli stessi, da ricercarsi nei problemi rimasti irrisolti per fini esclusivamente speculativi e per imperdonabile mania di dissacrare i miti al fine di indebolire le istituzioni di ogni civile progresso. 

Si è detto altrove che senza una famiglia e una scuola sana, senza una politica oculata, che non soggiaccia a favoritismi, senza una giustizia ben funzionante, qualsiasi nazione sarà travolta dallo squallore morale e materiale, indi dall’anarchia, fonte di sciacallaggio e di ogni scelleratezza, di ogni turpidine. 

È urgente rivisitare le fonti del passato culturale, riprodurre testi e studi accettati e tesaurizzati da milioni di uomini non certamente da meno di noi, se pensiamo che sulla credenza dell’infinità dei mondi e dell’affascinante concezione atomistica già parlava, con felice e sorprendente intuito di scienziato, Tito Lucrezio Caro. Occorre nutrirsi di opere concettose, dense di esperienza vitale, tirarle fuori del dimenticatoio della dissennatezza di noi moderni, chè, ammesso e non concesso che fossimo tutti concordi nel ritenere operetta l’Institutio oratoria di Quintiliano, non otterremmo niente di concreto. Nemmeno l’irriverenza di altri venti secoli di storia potrebbe minimamente offuscare la gloria del tarraconese. Ma noi siamo superiori, non stiamo a rispolverare le mummie del passato, viviamo di ben altro, noi, disponiamo di alta tecnologia, siamo arrivati sulla luna, approderemo su altri pianeti, che ce ne facciamo della scienza infusa di tempi remoti, oggi le cose sono cambiate, a distanza di millenni il nostro cervello si è sviluppato (in peius) e poi siamo presi dal flagello dell’AIDS, dall’amica droga, dai sequestri di persona, dalla lupara, dalla ‘ndrangheta, dai buchi neri cosmici e bancari, dagli ammanchi, dagli scandali di vaste proporzioni, dai febbrili connubi delle multinazionali sostenute da correnti collettivistiche con tendenze iugulatorie e di esasperante egoismo. 

D’accordo: si scelga pure il libertinaggio, ognuno è artefice della propria fortuna, con tutti i rischi e le conseguenze possibili e immaginabili, però non deve mettersi a disquisire, chè senza l’assimilazione di certe anticaglie si fa presto a farsi notare per leggerezza di contenuto speculativo e, di riflesso, per cortezza d’ingegno. È inutile provare a camminare se si hanno i piedi bruciati, a volare se le ali sono tarpate, a dare di penna se si è digiuni persino delle regole più elementari della grammatica. È vero che i soldi fanno parlare le bestie e che, per ibridi connubi politici ci sono delle eccezioni che culminano in un’infiorata di oltraggi alla nostra lingua, come quelli di una deputatessa con funzioni nel Dicastero degli esteri e, perché no?, di un ex direttore di un noto quotidiano romano, i quali facevano a gara a chi più commetteva errori, ma è un’eccezione, anche se ricorrente altrove, in personalità di cotanto senno! 

A voler essere obiettivi, ci sono varie cause che inducono a non sperare che gli Italiani siano in maggior parte determinati a scuotersi dal torpore in cui vivono. L’accentramento delle testate gionalistiche, l’informazione televisiva … Altro che pluralismo! L’Italia della televisione può essere paragonata ad un immenso stadio moderno dove però si svolgono antichi baccanali tra aneddoti e scipitaggini, approcci, lamenti e contorsioni di cantanti osannati sino al parossismo, anche se il più delle volte crocidano o ragliano – absit iniuria verbo. 

Questa miopia mentale, questa arroganza distruttiva di credere inarrestabile il processo di industrializzazione al servizio di un selvaggio progresso che non è più tale perché sta portandoci alla rovina. Lo Stato, bonificato, deve subito provvedere a bonificare. Diversamente non ci sarà niente da fare. 

Il progresso, il benessere seguono la cultura e non viceversa, per quanto attiene allo scopo di migliorarsi e raffinarsi, dacché non vi potrà essere progresso se non prima questo abbia progredito culturalmente, onde, secondo Kant: «La produzione di un essere ragionevole, della capacità di scegliere i propri fini (e quindi di essere libero) è la cultura. Perciò la cultura soltanto può essere l’ultimo fine che la natura ha ragione di porre al genere umano» (Crit. del Giud., 83). Ma non di una cultura ridotta a puro addestramento tecnico in un campo limitato di cognizioni professionali, altrimenti non è più cultura, dovendo questa occuparsi di tutti i gradi e le forme dell’educazione, sino a quella più specializzata, tralasciando nozioni vacue e superficiali che non arricchirebbero la personalità dell’individuo e la sua capacità di comunicare con gli altri. 

L’uomo colto ha lo spirito libero, aperto a comprendere idee e credenze altrui, egli è per una cultura formativa, volta al futuro e saldamente ancorata al passato, mettendone in evidenza luci e ombre, somiglianze e divergenze, ben guardandosi dal disprezzare le glorie dei nostri precedessori. Senza di loro oggi saremmo ancora all’età della pietra e non avremmo capacità di predire e formare progetti di vita a lunga scadenza. Ma cultura è soprattutto civiltà, e questa, come spiega Spengler, è il destino inevitabile di una cultura. Le civiltà sono gli stati estremi e più raffinati ai quali possa giungere una specie umana superiore. «Esse sono una fine: sono il divenuto che succede al divenire, la morte che succede alla vita, la cristallizzazione che succede all’evoluzione. Sono un termine irreversibile al quale si giunge per una necessità interna» (Untergang des Abendlandes, l pag. 147). 

Ora, dopo questa parentesi, dopo aver cercato di spiegare che colto è colui che ha lo spirito aperto e libero, che sa comprendere le idee e le credenze altrui, anche quando non può accettarle né riconoscerne la validità, dopo aver tentato di dare, per sommi capi, un’idea della connessione tra civiltà, cultura, conduzione della cosa pubblica, non resta che affidarci al buon senso dei nostri politici, i quali, tralasciando gli interessi di parte e quelli privati, devono far di tutto per espletare con correttezza il mandato che è stato loro accordato, tenendo conto del saggio consiglio di Democrito, secondo il quale «non si deve aver rispetto per gli altri uomini più che per se stessi né agir male quando nessuno lo sappia più che quando tutti lo sappiano, ma devi avere per te stesso il massimo rispetto e imporre alla tua anima questa legge: non fare ciò che non si deve fare» (Fr., 264, Diels). 

Imperativo di alto significato morale, questo, ma ai nostri giorni, nell’imperversare delle lotte per opposti interessi, sembra utopistico obbedirvi, e ciò a causa della rottura delle due culture: quella tradizionale e quella moderna. Se non si è rispettosi neppure di se stessi, come si può esigere rispetto dagli altri, imbevuti di idee balzane, disorientati nell’aria cimiteriale di un subdolo progresso, in gran parte travaglio e dannazione del ventesimo secolo? Bisogna far di tutto per scuotere le coscienze sopite, è doveroso denunciare ibridi connubi tra multinazionali e gruppi di potere, compresa la mafia e il collettivismo librario, quasi che i frutti dell’uomo colto non abbiano altra irridente fortuna che quella di essere venduti deprezzati da impietosi opportunisti. 

È soprattutto, più specificatamente, una questione morale oltre che culturale in senso lato, chè la cultura senza la morale non può dare buoni risultati. Un qualsiasi uomo dotto, un qualsiasi scienziato, se non è mosso dall’assenso o dal rimprovero della propria coscienza, se disprezza la sacralità della vita del suo simile e non ha alcun terrore di attentarvi, i misfatti, le sovversioni, le congiure, le guerre, le stragi aumenteranno a dismisura, e la possibilità che l’uomo si sostituisca alla belva anche nel comportamento, un giorno diverrà realtà. In tal senso si è già fatto un gran passo avanti. 

Senza morale non c’è diritto, non c’è amore, non c’è prossimo, non c’è commiserazione né pietà. E allora siano pure chiuse le scuole, i tribunali, le chiese, tanto sono inutili. A che vale tenere in vita queste istituzioni? Forse che si è degni di vivere trascurando il culto della morale nelle scuole, e che senza giustizia dettata dal profondo della retta coscienza possa esservi uomo di legge? E che le chiese, da sole, possano convertire la canaglia del nostro secolo? 

Solo una giustizia libera e indipendente, imparziale e irreprensibile, potrà salvare la nostra democrazia dai morsi tenaci di tanti falsi amministratori che vogliono ridurci alla bancarotta. 

In una sua recente opera1 l’economista Umberto Villari fa rilevare che «la crescita e lo sviluppo della democrazia moderna saranno caratterizzati dall’abbandono dell’ambiguità nel cui senso spesso la politica viene ad agire nei confronti delle relazioni interne e degli altri Stati». E continua: «Nessuno deve potersi porre al di sopra delle stesse leggi. In primo luogo coloro che hanno ricevuto il mandato di fiducia dei cittadini elettori. Certo, se si vuole rinnovare la società occorre ristabilire il diritto. Bisogna risanare lo Stato e, quindi, in primo luogo, chi amministra le istituzioni dello Stato, la politica che emana dall’alto». 

Soltanto allora, quando tutte queste invocate e auspicate trasformazioni avverranno, l’umanità potrà dirsi finalmente al sicuro da una possibile catastrofe che l’imperscrutabile prodiga Natura, nella sua infinita creatività sta già ritorcendo a sua difesa contro di noi, per disfarsi, forse, di una stirpe che ha scelto la strada dell’autodistruzione, dopo che nella mente degli uomini si sono moltiplicati i germi della follia criminale. 

Donato Accodo 

1 U. Villari, L’economia. nella partitocrazia, Roma, E.I.L.E.S., 1989, pagg. 314-315. 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 11-15.




 Paola Saltarelli 

Paola Saltarelli è approdata alla pittura sin da tenera età, quando ai sogni fiabeschi seguono i primi impulsi di esprimersi popolando di immagini preferite il proprio mondo, fatto di semplicità e di emozioni. 

La spontaneità e l’immediatezza di questa ormai affermata pittrice ci dicono quanto ella ben conosca le peculiari tecniche e i mezzi d’impiego della difficile pittura ad acqua o di quella ad olio, se riesce a farci gioire con opere soavi e dall’originalità inconfondibile. 

Alla scioltezza del tracciato grafico la Nostra assomma una vivificante luminosità suffragata da una delicatezza cromatica a tratti quasi fuggente, come nel delineare scene di mare, a tratti con più accentuate tinte, col preciso intento di indurre a maggior riflessione suggerita da accurate trasparenze da ben resi chiaroscuri come in genere nella prospettiva e nei profili di bimbi ingenui e festosi o nel ritrarre altre scene di vita quotidiana sotto un cielo che apre al respiro dell’anima. Segno della padronanza dei suddetti mezzi tecnici che permettono all’Artista di dissertare con disinvoltura sia nel campo della figura che nel paesaggio. 

Chi nella pittura della Saltarelli cerca suggestioni cerebrali non le troverà mai, come del resto in nessun’altra di qualsiasi autore nel sortire l’effetto di parlarci in chiave romantica con i temi di limpida e fresca genuinità in un felice rapporto linea-colore, specie poi se la spiccata personalità dell’artista è insensibile alle mode degli «ismi» e ai sortilegi dell’astratto e dell’effimero. 

Tradizionalista, quindi, la Saltarelli ha una produzione che difficilmente finirà per varcare i confini della realtà nell’estrinsecarsi in forme di accorto verismo, ma resta il più possibile fedele alle sue aspirazioni di interprete innamorata della sua opera e della sua serietà, in un certo senso anche solitaria, che non rivolge attenzione alle cosiddette pitture innovanti, a volte gelide esaltazioni prive di larghi interessi estetici. Per lei essenziale è rendere il colore addolcito da singolare levità con tocco sicuro e convincente. ancor più se delinea litografie con oculato senso volumetrico. 

Nell’insieme una pittura piacevole, salda all’ancoraggio di un’arte pura, costantemente tonale, che esercita fascino immediato e che non ha bisogno di elucubrazioni per essere assimilata. Pittura soprattutto basata su salda linea e su oculato dosaggio dei colori. Pittura giovane, infine, non in contrasto coi desideri di tutte le età perché permeate da una sensibilità che, a volerla mantenere sempre presente, non è poi tanto facile, specie se nell’impegno di produrre in prevalenza opere di appagamento spirituale, mere composizioni macchiaiole in cui cielo, mare, rustici prospetti, bozze di fiori, squarci di natura viva e morta concorrono a determinare validità e personalità nell’estrinsecarsi di molteplici doti. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 45-46.




 Morte di un Gladiatore 

Non troviamo né la disposizione mentale né, tantomeno, le parole per dire il dolore dovuto alla perdita così inaspettata quanto desolante del socio del Centro Internazionale “Lilybaeum”, del collaboratore redazionale di “Spiragli”, dell’amico vulcanico, buono, Davide Nardoni. 

La notizia della morte ci ha colti di sorpresa, essendosene «andato in punta di piedi». Impotenti dinanzi al triste evento, mentre ci stringiamo, partecipi al loro lutto, attorno alla cara Signora Ermelinda, ai figli e ai nipotini, ringraziamo Donato Accodo che prontamente ha colto il nostro invito a ricordare il compianto prof. Nardoni, essendogli stato per più di un decennio molto vicino come amico ed editore, avendo avuto modo di conoscere, meglio di altri, l’uomo e il grande cultore di latinità che fu o, meglio, è per le opere già pubblicate e quelle ancora inedite che, speriamo, possano vedere quanto prima la luce. 

Se n’è andato in punta di piedi, senza nemmeno darci alla lontana il benché minimo indizio dalla sua imminente dipartita; si può dire ch’è morto in piedi, forte e tetragono qual era, alla maniera dei gladiatori romani, di quegl’indomiti lottatori che amava di un amore smodato e dei quali scrisse in una delle sue tante opere dal titolo appunto I Gladiatori romani, esaustiva e originale in una superba interpretazione storico-filologico-sperimentale, unica e irripetibile, un autentico gioiello del suo multiforme ingegno, oggetto di consultazione e di studio nelle varie università e accademie di numerose nazioni. 

Chi scrive ben sa che la scomparsa di Davide Nardoni è stata una grave perdita per tutta l’umanità. Chi in lunghi anni di sodalizio gli è stato vicino e lo ha seguito in tutte le sue affascinanti scoperte, non può fare a meno di sentire il vuoto incolmabile della mancanza di un uomo che, stravolgendo il metodo di ricerca tradizionale, rivisitando tutte le fonti del passato, infliggeva un duro colpo alla nefasta filologia classica, spiazzandola dal soglio della sua pretesa infallibilità del “principio di autorità”, sempre da lui avversato con fermezza e inoppugnabili argomentazioni alle quali, di certo, non è mancata l’ispirazione degli uomini eccezionali. 

Col metodo anabatico e cotabatico della filologia sperimentale (sorregge il diacronico crivello nardoniano), rifacendosi al significato delle parole che gli uomini prima inventavano e poi impietosamente abbandonavano all’incuria del tempo nel secolare cimitero dei fossili linguistici, egli le ripescava e risuscitava dando loro il giusto posto di connotazione e descrivendone i vari mutamenti e il perché di tali trasformazioni nel ciclo millenario dell’eterno divenire. Con questo suo sistema Davide Nardoni ha ricostruito la storia di Roma e della romanità, volendo dimostrare quanto sia stato infausto alla verità il temerario ardire di coloro che si sono lasciati traviare da pregiudizi con i quali per secoli hanno invano tentato di oscurare la fama dell’Urbe. 

Ora che non c’è più il Maestro di vita e di battaglie combattute insieme nel fervore di dimostrare la fondatezza dei nostri sforzi, saranno in molti a voler ricredersi e a seguirlo nel fascinoso mondo delle sue ricerche, rinunciando a quel perverso “principio di autorità” e alle sue mostruose contraddizioni. Gli daranno ragione e col tempo la grideranno ai quattro venti anche perché e soprattutto perché da morto – credono i sofoni sofastri, com’egli era solito definirli – più non darà loro fastidio, avendo deposto per sempre, nel segreto della tomba, la magica chiave che ha dischiuso le porte a incontrovertibili verità da altri mai nemmeno una sola volta sospettate. Ma la loro è solo illusione, ipocrita illusione di chi avvezzo a denigrare i vivi e a offendere la memoria dei morti! Nessuno potrà mai riuscire a confutare e a stravolgere le sue certezze tenacemente radicate nel più profondo sostrato linguistico della storia dell’umanità, se è vero, come incontestabilmente vero, che nulla è più potente della parola, scintilla di facoltà divina, che tutto eterna col trascorrere dei secoli. 

Nel corso della sua laboriosa esistenza, sorretto da una ferrea volontà e da una competenza di vero e proprio scienziato, Davide Nardoni è riuscito a dimostrare che la storia dei popoli è la storia di quel che la parola ha detto e fatto scrivere senza mai alterare il significato delle proprie origini, se non per deviante volontà degli uomini e quindi per loro crassa ignoranza. Altrimenti, alterando o eludendo questo significato, anche le nostre, prima o poi, diverrebbero origini ignote, insufficienti a farci conoscere chi realmente siamo perché prive di elementi che ci riportano al principio di quando con la parola e per la parola avemmo un nome e, via via, una connotazione in tutta la gamma della sua significatività espressiva. 

La nostra collaborazione e le nostre fatiche non sono cessate con la morte né mai cesseranno, se è vero che questa non spegne la fiamma della verità che ha sempre spinto i generosi a conoscere nuovi orizzonti. Di concerto con Lui di là e noi di qua continueremo insieme a parlarci e a sorreggere finché non avremo compiuti i compiti che ci prefiggemmo di raggiungere sin dal nostro primo incontro, sempre caparbiamente uniti nell’unico desiderio ch’è stato sempre il nostro più grande amore: liberare la storia dalle incrostazioni della menzogna, ritrovare verità sepolte e dimenticate per incuria degli uomini e dei secoli, tramandare ai posteri una visione più chiara e più credibile delle trascorse società per consentire loro di capire quella dei nostri giorni sempre più alla deriva per aver voluto “rompere” ad ogni costo con quel che di meglio c’era della tradizione dei nostri padri. 

Credenza e fede popolari vogliono che per ogni anima che sale in cielo una luce si accende e brilla con le altre: se ciò è vero, è allora altrettanto vero – ci sia consentito almeno per pio desiderio e ancor più per arcano presentimento -, è vero che, nel momento in cui il gladiatore del pensiero e della penna pervenne ai superni lidi del mondo ultraterreno in cui non c’è posto per le passioni e per le meschinità degli uomini, le elette schiere dei trapassati Latini esultarono di viva allegrezza, facendo ala ad un confratello di sì grande ingegno. 

A noi, scrivendo da queste pagine dalle quali Egli ci ha spesso deliziato e illuminato con le sue dotte argomentazioni ora seriose, ora inconfutabilmente vere e comunque tutte di un’acutezza che sa dell’incredibile, a noi piace chiudere l’elogio di Lui con un tacitiano giudizio di uno dei suoi tanti estimatori, il quale, interrompendo un nostro collaboratore che aveva cominciato a intessere i pregi dell’insigne vallecorsano, si espresse dicendo: «Lei non mi parli di Nardoni. Nardoni è un genio». Una breve pausa, e poi annuendo: «Il genio della Filologia sperimentale, il più spaventoso mostro della storia di Roma e della romanità». 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 3-5.




 Mala tempora currunt et peiora premunt 

A questa espressione ricorrevano gli antichi romani per esprimere difficoltà in tempi presenti, prevedendone in futuro altre peggiori, e cioè nella traduzione: corron cattivi tempi e peggiori incalzano. 

C’è in quel premunt il precipitare di eventi connessi all’ineluttabile e all’indeterminato, ma anche dovuti alla volontà degli uomini ed al loro comportamento nel prevenire e quindi evitare i mali, quando non inclini a darsi ferocemente battaglia per fini utilitaristici. per libidine di potere, il più delle volte con ostentazione di falsi ideali, spinti da risentimenti se non addirittura da vendetta e quindi da propositi criminali. 

C’è in quel detto una malsopportata arrendevolezza al ripetersi di eventi inevitabili, una sorta di rassegnazione per ciò che si teme che accada nell’ora fuggente, in cui tutto si compie col ritmo dei ricorrenti cataclismi nel ciclo dell’eterno divenire. Ma i nostri antenati, quei casci Latini sapevano reagire alle avversità, con fortezza d’animo e, all’occorrenza, con biblico furore: noi, invece, abbiamo perduto l’orgoglio, tralignando dalle loro virtù, e ci siamo lasciati andare per le tortuose strade del malcostume. 

Non è certamente motivo di consolazione il non voler rimediare ai conflitti che travagliano l’umanità, e se le cose non vanno come dovrebbero andare, la non mai morta speranza di poterle in qualche modo renderle accettabili nel migliore dei modi non dovrebbe farci desistere dalle buone azioni e dalla determinazione di opporci, con ogni mezzo, alle forze del male. 

Di queste, in casa nostra e in ogni angolo della terra, se vuol essere di conforto il detto “mal comune mezzo gaudio”, ce ne sono tante e così perniciose da far pensare che non ve ne siano altre peggiori, se non fosse che il peggio, si sa, non è mai morto né morirà, forse perché rientra nella logica di un disegno arcano riservato ai mortali che con i loro strani comportamenti interrompono vecchi equilibri di usi e costumi per ricominciare in seguito un nuovo ciclo che, almeno nelle speranze dei più, agli inizi dovrebbe essere diverso dal precedente. In effetti, però, sin da principio si ripete l’eterno copione di fatti e misfatti che si moltiplicano in un clima di squallida ipocrisia, all’insegna dell’irrazionale e dell’incomprensibile. 

Gli è che l’uomo è uno strano animale, tanto strano che non lo si è ancora potuto definire, sia pure per sommi capi, nei confini del suo complesso mondo di luci ed ombre, di forze oscure, generatore di vita e di morte col mutare le sue forme attraverso cataclismi e indefiniti periodi di stasi, un mondo a tutt’oggi pur esso altrettanto strano, insensibile alle lamentose disperazioni di chi vuole vivere una vita intensamente operosa. Sta di fatto, d’altro canto, ch’egli, se andasse sempre avanti per fede prima che per religione, agirebbe diversamente perché la sua secolare esperienza, accumulata per quanto si voglia con discutibili teoremi, non è sufficiente a dargli assoluta certezza nemmeno del movimento degli astri, se cioè si muovano in maniera uguale e la stessa velocità. Nulla è definito in questo nostro pianeta, nulla è certo nell’esperienza, tutto è mutabile quando meno ce l’aspettiamo nel periodo della nostra esistenza, forse equivalente neppure a un miliardesimo di secondo del tempo universale. Come ci si potrebbe fidare, quindi, dell’esperienza di ciò che accade all’uomo nello spazio infinitesimale di una frazione di tempo e dargli credibilità di esperienza, quasi se la fosse portata dietro da millenni? Solo la fede può sorreggerci, la fede che ci rende credibili e ci eleva a superare altezze, la fede che dentro di noi non è esclusivamente nostra, invisibile leva possente delle nostre azioni, dalle più umili alle più esaltanti. 

Ma la fede, questa potenza vitale e polivalente implica anche una coscienza di sé, una morale che ci guidi nell’incerto andare della vita, ci distingua nelle nostre azioni, anche se a volte ci è causa di tormento, specie nel dubbio di non aver fatto appieno il nostro dovere, o di esaltazione se riteniamo di averlo fatto bene. 

Da questo stato d’incertezza della nostra coscienza, da questo interrogarci nel profondo del nostro io consegue un disagio, un travaglio che condiziona la certezza della nostra dignità. Da questa lotta interiore, da questo anelito di ricerca della verità, da questa incessante aspirazione ad essere soprattutto noi stessi ha origine la moralità e l’umanità, i soli tesori che non hanno prezzo. 

Questi concetti di kantiana memoria ritornano negli scritti di F. Schiller, Grazia e Dignità (1973): la denominazione degli istinti mediante la forza morale è la libertà dello spirito e l’espressione della libertà dello spirito nel fenomeno si chiama dignitàl. 

Sono pensieri e valutazioni che nel mondo di noi moderni hanno un fondamento di non poca incertezza rafforzato dall’irrefrenabile libidine di velleitario protagonismo di uomini che con le loro vuote ideologie. manifeste o implicite. stravolgono il significato primario di questi principi basilari, dimostrandosi rovinosi per sé e per gli altri con l’imporre una conduzione dissennata della cosa pubblica, culminante nella negazione dei diritti e della morale. in barba alla scienza o all’arte del governare. con evidente trascuratezza dei comportamenti intersoggettivi in seno alla comunità. 

Sicché l’onestà che in teoria dovrebbe essere la suprema virtù della sana politica, in pratica finisce per irridere alla rettitudine e ai buoni propositi quando non più in grado di determinare la forma del migliore stato possibile. 

E difatti tutti parlano di doveri da e per ogni dove attraverso i mezzi di divulgazione, accampando diritti che uno Stato che si rispetti dovrebbe riconoscere sì a tutti, purché dietro comprova che ognuno possegga alto il concetto morale di obiettività nel giudicare il proprio e l’altrui operato. 

Invece l’ambizione, l’arrivismo, la spregiudicatezza, l’equilibrismo di intriganti faccendieri offuscano gradatamente il prestigio delle istituzioni senza che la parola “Stato” sia sostituita da nulla di più ragionevole, che potrebbe essere, ad esempio, il risultato di un’azione compiuta non tanto per rispetto della legge, quanto per richiamo spontaneo di una retta coscienza. Altrimenti, che dovere è quello che ci si sforza di addimostrare soltanto perché costretti da condizionamenti legali quasi sempre illegali e da contratti sociali? Laddove il dovere non è spontaneo ivi viene a mancare la nobiltà dell’azione stessa e quindi l’essenza altamente morale in essa implicita. Ne consegue che allorché la dottrina del dovere è collegata a quella di un ordine nazionale necessario, di norme o di leggi, tendente a dirimere il comportamento umano, ponendo la felicità a fondamento etico, ad incremento della vita individuale e collettiva, la nozione di dovere non trova più posto. E maggiormente se consideriamo che l’etica non è un insieme di immotivati desideri o di preferenze senza costrutto, bensì dignitosa coscienza primigenia che distingue – o almeno dovrebbe distinguere – l’uomo da tutti gli altri esseri e lo eleva a quelle altezze dello spirito cui egli incessantemente anela. 

Purtroppo, ai nostri giorni, si è stravolto anche il concetto di Stato che, come ordinamento giuridico dovrebbe avere limiti di azione, non potendo raggiungere particolari fini se non coi soli mezzi di cui dispone, col ricorso, cioè, alla tecnica della coercizione, pur di mantenere in vita un sistema di strutture frananti, anche quando nel limaccioso pelago della corruzione languono i cittadini alla deriva. Ma uno Stato che si prefigge una stabile governabilità con l’impiego della forza aumentata tempo per tempo con sempre nuovi e massicci arruolamenti che ne consolidino l’efficacia repressiva, è già in declino e potrebbe rivelarsi rovinoso e quindi funesto per la società. E c’è di più grave nel nostro mastodontico Paese, non costituisce garanzia d’imparzialità, se è vero che tra loro, della stessa famiglia, non si mordono, specie quando di essa fanno parte corrotti e avallanti dei corruttori. 

Nella storia repubblicana italiana, ad esempio, non è bastato più di mezzo secolo per far capire ai governanti di turno che l’ordine è basato sul rispetto reciproco derivante da una sana cultura che determina il buon andamento delle istituzioni, non già sulla forza di una imposizione perversa, generatrice di gravi lutti e tanto meno su una giustizia che, come nella maggior parte dei casi corrotta e corruttrice, è sempre causa di numerosi mali. 

Non si può parlare di giustizia in uno Stato che mentre da una parte promette imparzialità a tutti i cittadini, dall’altro difende l’autogoverno della Magistratura, conferendo ai magistrati uno strapotere che è fuori della più elementare logica di un governo che si rispetti. Altra regolamentazione dovrebbe avere il Consiglio Superiore della Magistratura, ben altro il suo ruolo nell’applicare o fare applicare la legge che sia emanazione della volontà del popolo sovrano. Uno solo il criterio nel sentenziare uguale per tutti: che anche i giudici siano sottoposti a giudizio collegiale di altrettanti giurati scelti tra cittadini di accertata onorabilità. Meglio ancora che i giudici vengano eletti direttamente dal popolo. 

Tutti i mali di una società – lo dicemmo altre volte dalle pagine di questa rivista – derivano da una democrazia malgovernata particolarmente nella scuola e nella famiglia, basilari istituzioni dell’apparato equilibratore di una politica illuminata, non condizionata da scelte programmatiche di proprio tornaconto. 

Finché si farà politica di mirati e perversi accomodamenti per ingannare il prossimo con spergiurate promesse mai mantenute, l’ansia di non subire più le indiscriminate vessazioni un giorno o l’altro spingerà le folle alla disobbedienza civile: l’arma più micidiale di cui si è a conoscenza ed alla quale si ricorre come ad estrema ragione, se è vero, come è altrettanto sacrosanto, che non è permesso ad alcuno di calpestare i diritti altrui. E finché riterremo indispensabili metodi del genere per risolvere i mali che ci affliggono, senza piuttosto lasciarci guidare dalla tenace volontà di sfatare l’ineluttabilità del male contrapposto al bene, quando è d’obbligo invece rilevarne a gran voce l’abissale differenza del loro significato per farci meglio capire, senza nulla nascondere, il subdolo comportamento di chi trama per proprio tornaconto, le cose dell’umano stato continueranno a peggiorare in quel ciclico alternarsi dell’eterno divenire di cui abbiamo scritto all’inizio, tra poche luci e ombre secolari riproponendo trascorsi nelle spire materialistiche dell’esasperato egoismo che un giorno, non si sa quando, ci spingerà prematuramente nel buio che mai più cederà alla luce. 

Sulla infinita strada dell’ignoto il cammino del progresso subirà allora interruzioni e vuoti di tempo spaventosi e la progenie degli uomini subirà contraccolpi e scompensi per disarmonie dell’ordine universale delle cose. 

Il mondo è in fermento, non sappiamo più che cosa vogliamo né dove andare 

perché abbiamo dimenticato la nostra origine, ci siamo lasciati adescare dal culto dell’effimero, sperperiamo miliardi per fini goderecci: per follia di sterile esibizionismo orgiastico a suon di musica· dopo esserci sfibrati al ritmo forsennato di motivi assordanti e, al colmo dell’indifferenza, nemmeno ci curiamo di aiutare chi muore sotto i nostri occhi, povero e alienato, abbandonato e solo nel grigiore di un gelido mattino, con sul petto il muso di un fido dagli occhi pensosi e pieni di malinconia! Questo è il nostro mondo. Questa è anche una cattiva parte della nostra Italia nel pantano della corruzione e nella farsa di un diritto grottesco. 

Siamo certi che i governi che contano sono quelli impersonati da autorità forgiate nella fucina dell’imparzialità e dell’onestà, capaci di imprimere carattere alla compagine che rappresentano e scongiurare interruzioni e, peggio ancora, disfacimenti. Sappiamo pure che questi governi sono possibili solo a condizione che i componenti siano determinati ad interrompere ogni legame, qualora ci fosse stato, coi loro predecessori implicati in malaffari e ad instaurare un clima di fiducia che affranchi i giusti dalle ingiustizie subite e diano prova di ricercare la strada del vero diritto uguale per tutti libero da vincoli di privilegio, quale l’odiata immunità parlamentare – tuttora prevista anche se condizionata, causa di scontento e motivo di provocazione alla dignità altrui. Compito arduo per realizzare tanto ardite conquiste, ce ne rendiamo conto, specialmente se consideriamo che la giustizia, intesa come severa e imparziale giudicatrice, non è mai esistita, ma almeno la si applichi il più approssimativamente possibile, nei limiti raggiungibili da una retta coscienza. E non ci sfugge nemmeno il pericolo di una giustizia troppo punitiva che escluderebbe persino indulgenze che fanno parte della morale cristiana quando il perdono deve subentrare alla vendetta e l’espiazione diventa balsamo nell’esacerbato cuore dei mortali. Ma se manca la voce della virtù primaria, quale appunto è la coscienza che durante la vita di ciascuno di noi si evolve, si rafforza e ci guida sulla strada dell’amore e della comprensione, non ci potrà essere giustizia né rispetto per i propri simili, né istituzioni volte al bene dei cittadini né iniziative di pace e di salutare progresso tra le nazioni; non ci saranno aneliti religiosi puri e tanto meno consultazioni dal cui esito si possa bene sperare. A noi moderni quel che manca è la luce che viene sempre dall’alto, mitigatrice degli umani affanni, fonte di vita serena e di divine armonie. 

Ma la coscienza non si sviluppa nei parlamenti o nelle fredde aule dei tribunali, va invece protetta sin dall’esordio della persona alla quale integralmente appartiene, coltivata come una pianta che viene affastellata per rinforzarla, alimentata – non ci stancheremo mai di ripeterlo – nelle famiglie e nelle scuole per poi sentirne e goderne i benefici da grandi, una volta al servizio della comunità. A tal fine, per un sereno e soddisfacente insegnamento, è saggio non far mancare mai i mezzi sufficienti per raggiungere traguardi di vita operosa e di sia pur sofferto appagamento. 

Qualcuno di noi o dei nostri posteri, se un giorno gli capiterà di leggere questo scritto, forse scoprirà che coloro i quali furono ritenuti paranoici perché dissenzienti dal pensiero dei più furono invece i veri saggi, se è vero, secondo la logica di Portoreale, che anche qualche pazzo dice a volte la verità e che chiunque dice la verità merita di essere seguito, per cui, in conclusione, meritano di essere seguiti alcuni che non cessano di essere ritenuti pazzi2. E quanti saggi sono stati ritenuti pazzi! 

Donato Accodo

1. Werke, ed. Karpeles, XI, pag. 202.
2. Arnauld, Logique, III, 8

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 11-16.




 L’arte di Filippo Maggiore 

La pittura di Filippo Maggiore, bagherese, si inserisce in un lavoro indirizzato a precisare diversi aspetti della realtà che lo circonda e con la quale conserva un legame stretto, autentico. 

Emerge una indiscutibile capacità di unire, di comporre opere non soltanto con linee e colori, ma anche con idee e rappresentazioni tali che arte, cultura e vita si fondono magistralmente. 

Vedere le tele del Maggiore è come muoversi in un poliedrico stadio dove ogni opera esprime emozioni e stimoli, ricordi e partecipazione. Ove volessimo cercare di identificarlo, connotarlo e non confonderlo con altri, oseremmo definirlo una sorta di “candido metafisico” che. pur partendo sempre da una puntuale osservazione del reale, giunge a valicare i confini quasi che, dinanzi al pennello del pittore, il creato e la vita si spogliassero della loro storia e della loro estemporaneità rendendo universali i suoi schemi compositivi. 

Infatti, nelle composizioni pittoriche sono fissate spiagge e barche, vecchi casolari, viottoli di campagna, i mostri di Villa Palagonia, un carretto, un pupo siciliano, una casa illuminata, scorci di paese, il tutto in modo atemporale, suggerendo la realtà nell’immaterialità delle idee o delle forze che lo costituiscono. 

Le vibrazioni del “vero” appaiono più pregnanti nella tela raffigurante un “vecchio pulitore di fave”. È una raffigurazione dolente e nel contempo viva di luminosità ove il trionfo della luce non sfuma la struttura reale, ma rende all’osservatore la percezione cosmica della solitudine e la sensazione sgomenta della vita. 

Alla luce di una profonda acquisizione del mezzo tecnico, ancorché arricchita di un linguaggio artistico che diviene poesia, si può ammirare un affresco, realizzato nella Chiesa di Porticello, raffigurante Maria S. del Lume. In tale affresco, della grandezza di mt. 8,50 per 4,50, Maggiore ha sintetizzato i motivi fondamentali della iconografia della Madonna del Lume, imprimendo alla sua produzione artistica una carica di inquietudine mistica. 

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pag. 47.

 




 Inquinamento di coscienza e inquinamento ecologico 

In questi ultimi tempi l’ex Presidente del Consiglio Giovanni Goria, parlando a Genova, è ritornato a proporre la scelta nucleare nell’alternativa energetica. Anche se l’opzione ha suscitato polemiche e non poca indignazione tra coloro che già si sentivano al sicuro per i nuovi propositi di liberazione dal silenzioso killer nucleare che sinistramente minaccia l’intera umanità, la sortita del parlamentare democristiano non ci ha colto del tutto di sorpresa. 

Le multinazionali, le grandi imprese, i grandi industriali datori di lavoro, ma altresì dispensieri di scempi, di rovina e di morte, non possono rassegnarsi a mutamenti radicali, a nuovi corsi, a rimedi o a rinunce che liberino i mortali dall’incubo dell’olocausto; per loro qualsiasi battuta di arresto sulla strada del profitto è fuori della logica di quel consumismo che ha contribuito non poco ad ottenebrare le menti di gran parte dei consumatori col sottile e subdolo inganno di un progresso che tale non è più quando, col passare degli anni, risentiamo dei suoi effetti funesti. E tuttavia si continua imperterriti ad inquinare, a predisporre le strutture di un immenso cimitero per noi e per le generazioni future e ci sottoponiamo al giogo di chi per la vita non ha il minimo rispetto. 

Ovviamente, la significativa sortita dell’On. Goria dovrebbe far meditare a lungo gli sprovveduti elettori, inducendoli a considerare se non sia giunta l’ora di esigere dagli aspiranti reggitori della cosa pubblica il loro programma durante le campagne elettorali, a che se ne discuta ampiamente prima del voto e gli stessi elettori si regolino in tempo nel decidere se accettarlo o non e se, in conseguenza della scelta, accordare o negare loro la fiducia. Un elettore che non abbia venduto il cervello all’ammasso, ha il sacrosanto dovere di guardarsi dagli avventurieri irresponsabili e di non rilasciare una cambiale in bianco della quale, una volta ottenuta l’elezione, si servono a loro piacimento. Quanti arbitri in meno ci sarebbero! 

Da più parti si sente dire che indietro non si può tornare, ed è proprio da questa abusata espressione che si deduce quanto sia ormai vuoto il cervello di quegli uomini dediti ad imporre, in spietata concorrenza, prodotti che congiurano contro il genere umano. Per legge naturale indietro si tornerà, invece: vi si ritornerà, eccome, se consideriamo che la Natura stessa ci spingerà a meditati ripensamenti col rimproverarci temerarie responsabilità allorché la terra, attraverso i suoi prodotti non più genuini, comincerà a restituirci il veleno che le propinammo un tempo. Allora gli uomini si pentiranno del loro disprezzo verso l’alma Mater e forse sarà troppo tardi: a noi, alla nostra generazione resterà pur sempre la patente di criminali, il torto imperdonabile di avere ordito e attuato un’abominevole congiura. Ed accadrà, a voler ragionare e riflettere, che quando con la complicità delle nostre menti insane e del nostro operato perverso non rispettiamo, non tuteliamo nemmeno il bene supremo ch’è la vita, quando questo viene messo a repentaglio dalla spregiudicatezza di incalliti e squallidi speculatori, quando non ci si rende conto che la società dovrebbe finalmente trarre maggior profitto soprattutto dall’agricoltura sana e genuina e non soltanto dall’industria che da sola, senza un razionale sfruttamento della terra, avrebbe assai poco o nulla da dire, quando non ci si avvede, non ci si rende conto di tutto ciò, sarà la stessa natura a decretare la fine e a spingerci nel buio d’un presunto progresso. Nessuno potrà illudersi di andare avanti indefinitamente, continuando a congiurare contro la grande Nutrice, ch’è poi, come dire, contro Dio. 

Non dimentichiamo che in passato tutti i popoli più progrediti, giunti all’apice delle conquiste più avanzate, arrivati al sommo della parabola, hanno poi cominciato a discendere, fino a raggiungere i gradi estremi della loro decadenza e spesso, con essa, l’estinzione totale. Meglio quindi regolarci per tempo, lottare tenacemente per impedire che le conseguenze dell’eccessivo progresso si ripercuotano negativamente su noi, sui nostri figli, sulle future generazioni, se avranno la fortuna di sopravvivere. 

Sappiamo, del resto, che molte di quelle conquiste, sia nel campo della tecnica, sia in ogni altro, non sono sempre state causa di notevoli squilibri, così numerosi che in certi momenti verrebbe voglia di dire che le sole branche della scienza da incoraggiare siano la medicina e la biologia, purché volte al solo scopo di proteggere e di prolungare la vita dell’uomo. Traguardo raggiungibile, questo, se al ricercatore non sfuggirà mai il fascino della sua origine. 

Ogni altro sforzo tendente ad agevolarci nell’espletamento delle nostre attività, che non abbia il fine di preservarci la salute, è ingannevole invito che mira a distoglierci dall’obiettivo più importante della vita, nel tentativo di convincerci che l’unica realtà sia il facile guadagno cui fanno capo i filibustieri, gli speculatori e quanti, insieme a loro, sono abituati a sfruttare, da tempo immemorabile, l’ingenuità altrui. 

Ma in tutta questa faccenda di progresso con fini esclusivamente consumistici il ruolo di protagonista perverso è lo spietato egoismo. Questo spinge a credere che interessante e indispensabile è produrre, smerciare, vendere per trarre utili sempre maggiori, non importa se i mezzi di locomozione ci avvelenano, se le ciminiere delle fabbriche divengono sempre più insidiose a causa della densità delle loro scorie, se dal cielo cadono piogge acide, se le nubi tossiche stringono in una morsa mortifera intere popolazioni private di tutte le sostanze, allontanate dai luoghi di nascita per andare a vivere altrove, con nel cuore la struggente speranza di un lontano quanto improbabile ritorno. Poco importa se non potremo più bere l’acqua per l’alto tasso d’inquinamento, se l’industria dei micidiali detersivi e di altri potenti ritrovati fa strage del patrimonio ittico, se la fauna scompare per la disseminazione di questi nelle campagne, se gli alberi incancreniscono e muoiono per sclerosi delle foglie, se l’insidiosa nevrosi si diffonderà nella misura in cui aumenterà il frastuono, con conseguente alterazione del nostro equilibrio neuro-vegetativo, se i popoli più progrediti conosceranno nel giro di un secolo – poco più poco meno – il tormento della pazzia a causa delle alterazioni o lesioni provocate al cervello bombardato quotidianamente e senza tregua da assordanti rumori, poco importa se il sistema uditivo. a furia di subire le violenze dei fragori della moderna civiltà (!), rimarrà danneggiato fino ad atrofizzarsi del tutto, se la prodiga Natura non interverrà in suo aiuto, modificandone la struttura per rafforzarne le difese. Quel che interessa è produrre, sempre produrre, pur consapevoli di non poter continuare all’infinito nello sfruttamento industriale se non si riconoscerà all’agricoltura il ruolo primario nello sviluppo economico- sociale dei popoli. 

Gli uomini non hanno bisogno di ulteriori progressi che li uccidano. Se il progresso deve apportare miserie, lutti e illusioni di vita migliore, è bene che si arresti, almeno per consentire riflessioni, ripensamenti e nuovi propositi di meglio operare. Potremo, in tal modo, frapporre riparo al gran male che stiamo perpetrando a noi stessi e alla società in genere. 

Ma non tutti sono d’accordo, non tutti ascoltano la voce della ragione. A questo invito odo già le proteste degli industriali colpiti nel vivo dei loro interessi, né mancano le critiche negative dei lavoratori, minacciati nella stabilità della loro occupazione. Eppure una decisione di riparo bisogna in tal senso, se non vogliamo andare incontro al suicidio. 

Convinti che nulla è difficile a colui che vuole, sorretti dalla comprensione e dall’aiuto fattivo degli onesti, lavoreremo ugualmente in altri settori, se necessario, ma in ambienti sicuri. Viceversa, avallare l’operato di uomini senza scrupoli, che pur di accrescere le loro ricchezze, tengono in disprezzo la vita degli altri, dando ad intendere necessario ciò che non è, significa congiurare contro se stessi e contro l’umanità. 

Dobbiamo distinguere l’industria utile alla salute dell’uomo, che lo aiuta nei suoi lavori, nello svolgimento delle sue funzioni, che gli cura preventivamente i mali, dall’industria nociva di quei prodotti molto spesso decantati dalla stampa di corrente o da altri mezzi di diffusione. Quanti ambienti acquatici seriamente compromessi, quanti disastri ecologici e quante vittime non ha provocato, difatti, il loro uso sconsiderato! E quanti innocenti, già predestinati a prematura morte negli anni a venire! 

Occorre andare molto cauti, meditare prima di definire utili i benefici di un qualsiasi ritrovato. Nell’innumerevole varietà delle sue possibilità creative, la Natura, se ingannata, può sempre riservarci delle sorprese, può addirittura, in un secondo tempo, respingere ciò che noi, ai primi risultati, riteniamo una grande conquista. Spesso, a distanza di molti anni, ci avvediamo degli effetti sconvolgenti, delle disastrose conseguenze dovute alla leggerezza con la quale abbiamo fatto ricorso all’impiego di sostanze nocive. Nessuna faciloneria, quindi, nessuna improvvisazione, ma molta cautela nel dichiarare utile e di avanzato progresso qualsiasi scoperta scientifica. La suprema Natura opera con le sue leggi severissime, collaudate sin dalla notte dei tempi nella molteplice, inesauribile attività evolutiva. Tutto in essa è armonia e nulla è stato creato e stabilito a caso. 

Invece noi diamo poca importanza a questa armonia. Pur di produrre il dieci per cento in più, permettiamo che la terra continui a ricevere i potenti veleni di una concimazione chimica dissennata e a subire il ricatto delle grandi società produttrici. Il risultato è che veniamo ripagati con frutti vistosamente belli, ma altrettanto pericolosi. Quelli ottenuti con trattamenti chimici, non esclusi i mortiferi pesticidi, sono difatti meno saporiti di altri ottenuti con sostanze organiche. 

Amici lettori, non lasciamoci convincere della propaganda interessata. A quanti intendono persuaderci della genuinità dei loro prodotti ottenuti con sistemi di sia pur dubbia utilità rispondiamo che è nostro intendimento continuare ad affertilire i campi con l’umile e generoso stallatico e con altri concimi naturali organici, sulla scorta di secolari e positive esperienze. Rispondiamo, con tutta franchezza, che vogliamo ancora inneggiare alla salubrità dell’aria, alla limpidezza delle acque, al culto della buona terra, prima che sia troppo tardi. Rispondiamo che c’interessa un’agricoltura sana, genuina, senza forzature che minino la salute della collettività, un’agricoltura come la voleva il sommo Cicerone per il quale nulla è meglio di essa, nulla di più produttivo, di più soddisfacente, di più degno di un uomo libero. Predichiamo l’agricoltura di Federico il Grande: la prima di tutte le arti, senza la quale non esisterebbero più né mercanti, né banchieri, né artigiani, né poeti, né filosofi. E nemmeno, può sembrare un paradosso che incontestabilmente non è, esisterebbe la stessa industria. 

Con Platone concordiamo che quando la terra rimane sterile, tutte le altre attività rimangono paralizzate. E noi, di questo passo, corriamo il grave rischio di renderla improduttiva, di ucciderla. In tal deprecato caso l’umanità andrebbe incontro a sicura estinzione, vittima espiatrice delle sue stesse colpe; i cieli non verrebbero più solcati dai pennuti, i mari resterebbero senza fauna, tutto il nostro mondo cesserebbe di pulsare nel sinistro immobilismo dell’eterna notte alla quale mai più seguirebbe l’alba. 

L’abuso di alcune sostanze chimiche, per quanto controllate con scrupolo, porterà, prima o poi, allo snaturamento e alla scomparsa della genuinità dei prodotti, alla rottura di quel tanto prezioso equilibrio di produzione del mondo dei batteri, senza il quale la fame, le malattie più impensate affliggerebbero uomini e cose. 

Sono prospettive spaventose, che dovrebbero far riflettere con sacro timore coloro che per l’eccessivo progresso restano annebbiati nel cervello, retaggio sì di tanta evoluzione, ma privo della sua antica saggezza che oggi impedirebbe di elevare osanna alle conquiste e agli effetti biologicamente perversi. 

Nel nostro mondo c’è un terribile nemico, c’è lo spettro della fame, perciò, si potrebbe obiettare, occorre produrre sempre di più per sopperire alle esigenze di prima necessità. È questa, si voglia o non, una conclusione di comodo, frutto d’ipocrisia e di egoismo elevati all’ennesima potenza! Ma basterebbe che i popoli più ricchi non sprecassero i loro prodotti e mangiassero di meno sottraendosi, tra l’altro, ai pericoli di un’eccessiva nutrizione, per aiutare i bisognosi. Ne guadagnerebbero, oltretutto, in salute, non più minacciata da squilibri alimentari. 

L’uomo, però, è purtroppo adescato dalle mollezze dello sbandierato progresso; dimentico della sua origine «è l’unico animale al mondo a sfidare il proprio ambiente: egli, in poco più di un secolo ha superato moltissime barriere ambientali, favorendo l’aumento demografico e sfuggendo al controllo di precisi fattori del suo habitat. Ma un giorno, non si sa quando, la resistenza dell’ambiente finirà per ritorcersi contro di lui con imprevisione di contraccolpi che gli tenderanno un’imboscata mortale, culminante in cataclismi naturali e sconvolgimenti sociali». Allora egli pagherà il prezzo del vantato progresso dei suoi predecessori e amaramente li maledirà e li additerà ai posteri, se pur ve ne saranno, come i responsabili della congiura contro l’umanità del ventesimo secolo. 

Ma forse l’uomo, col pensiero ad altri mondi, ad altri pianeti, crede di poter fare a meno della sua impareggiabile Nutrice. Non si illuda: per quanto possa andare in lungo e in largo dappertutto, fino a raggiungere gli abissi siderali, egli resterà comunque sottomesso alla terra, sarà sempre un mammifero che per vivere ha bisogno, nei suoi spostamenti, di un ambiente simile a quello in cui è andato evolvendosi sin dal giorno della sua comparsa, onde non potrà mai fare a meno di essa, essendo parte vitale del suo corpo che non vivrebbe se ne fosse privato. 

Alla base di tutto questo discorso resta pur certo il fatto che non possiamo sanare i mali del nostro ambiente se non prima avremo sanato noi stessi nel cuore e nella mente, se non prima avremo operato con rettitudine, se non prima avremo amato la terra e imparato a consolarci delle quotidiane fatiche, a rinfrancarci lo spirito nel culto secolare che il genere umano ha sempre avuto per essa. 

Donato Accodo

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 8-13.




I sentieri della pace

Vivere in pace significa vivere in libertà tranquilla: «Pax est tranquilla libertas», diceva Cicerone nelle sue filippiche. Ed invero la pace non è soltanto la cessazione di uno stato di guerra, come voleva Hobbes, o più generalmente la fine del conflitto universale tra gli uomini. bensì una situazione instabile di pace. non essendo in essa stessa durata perenne per legge di natura. Da ciò la necessità di istituire lo stato di pace perché «la mancanza di ostilità non significa ancora sicurezza. e se questa non è garantita da un vicino ad un altro (il che può aver luogo solo in uno stato legale) questo può trattare come nemico quello a cui tale garanzia abbia richiesto invano». 

Ma nel suo disquisire metafisica è il Whitehead che ha dato la definizione più completa del concetto di pace. Questa, egli dice, non è altro che l’armonia delle armonie, quella che placa la turbolenza distruttiva e completa la civiltà. Ed in effetti quest’ultima definizione rispecchia ed integra quella ciceroniana, quel vivere in libertà tranquilla, intesa come espressione di maturità dei popoli liberi nel rispetto reciproco, senza tumulti e travagli che ne condizionino lo sviluppo. 

Libero è veramente colui che ha per sé tutta la libertà di azione e di pensiero, che la difende in pace scongiurandone frizioni e tentazioni conflittuali, ma più libero è colui che crede nell’inutilità di questi perniciosi malanni e si adopera per annullarne completamente le cause che li determinano. 

Credere che, deposte le armi e cessato lo sterminio di vite umane in guerra, la pace possa essere più che garantita è un’ingenuità e nel contempo un errore molto grave perché si dimentica che alla guerra ci si prepara proprio in tempi di pace, non è che quella esplode all’improvviso, senza motivi che ne abbiano determinato lo stato di belligeranza. 

Volere quindi bandire le guerre con fatti e non a parole vuol dire, innanzitutto, combattere con tenacia e lungimiranza gli squilibri sociali approntando per tempo rimedi preventivi, significa diagnosticare i mali sociali e combatterli tenacemente con leggi accettate dalle nazioni più evolute, che difendano gl’interessi di tutti gli uomini, che siano veramente imparziali, moralmente accettabili e rispettose dei diritti di ogni singolo cittadino, mai dimenticando nel promulgarle e nell’applicarle, che «la Giustizia è la volontà costante e perpetua di non negare a ciascuno ciò che gli è stato dato o riconosciuto suo e di difenderlo dai ladri, dai briganti o da qualsiasi accozzaglia di gente che si metta in comune a far qualcosa di ingiusto». 

Dopo tanti secoli questa massima di Platone, ripresa poi da Ulpiano e adottata dai giureconsulti romani come principio cardine di ogni rispetto reciproco, è pur sempre valida e fondamentale. Ma, ai tempi nostri, con tanto incontenibile travaglio sociale che per l’eccessivo progresso ha condizionato il corso della nostra civiltà, da sola non è più sufficiente per dare pace e tranquillità agli uomini del ventesimo secolo, stretti nella morsa di tante difficoltà, squilibrati nei loro principi fondamentali, vincolati ad un mondo ben diverso da quello per cui sono nati. Sono indifferenti, rinunciatari, inoperosi, senza slancio necessario per uscire fuori da certi intrighi artificiosi, e intanto aumentano le rapine a qualsiasi livello, gli omicidi, i decessi per AIDS e altre malattie del secolo, gl’inquinamenti del suolo, dei fiumi, dei mari, dei laghi, la distruzione della foresta amazzonica, le violenze sessuali, le violenze mafiose, ma anche, diciamole pure, le violenze legali, le violenze di Stato. Altro che pace! Questa è guerra spietata e cinica più di quella che si combatte in campo tra opposti eserciti. È come dire che possiamo cessare di autodistruggerci coi mezzi tradizionali per continuare ugualmente a morire ricorrendo ad altri sistemi di morte. A nulla vale cambiare il metodo se gli effetti sono uguali o peggiori. 

Se vogliamo una pace duratura dobbiamo fare un’inversione di rotta: rivedere ciò che non va nel nostro sistema di vita e avere la saggezza e la forza di rinunciarvi, di abbandonare senza ripensamenti e rimpianti la strada percorsa sino ad oggi. Innanzi tutto occorre rinunciare alle comodità della maggior parte dell’industria chimica, diffidare dei suoi elementi velenosi che seminano morte e anticipano un futuro ancor più funesto ad opera di responsabili di tante stragi continuate nell’ambiente in cui viviamo ed operiamo. La lotta sarà asperrima per contrapposti interessi in ballo, ma alla fine lo spirito di abnegazione sorretto dall’ansia di vita prevarrà sull’indifferenza e la sconsideratezza di monopolizzatori abietti e inverecondi. La passione per il bello e per il bene comune ci spronerà a superare prove difficili, consapevoli della nostra opera meritoria. Occorre però procedere ad un’accorta selezione per riuscire nei nostri intenti, dobbiamo scegliere collaboratori validi, temprati al sacrificio, guardarci da coloro che non hanno mai sofferto nella vita, che non hanno mai provato la sferza vivificante del dolore, che hanno ottenuto le cose desiderate senza fatica, senza provare il tormento della ricerca, rifuggendo l’impegno che è proprio dell’uomo saggio. Costoro non sono uomini su cui si possa fare affidamento, non capiranno mai il vero significato della vita, tanto meno capiranno che i mali dell’umanità non si cancellano come per incanto, con un colpo di spugna o ad un tocco di bacchetta magica. Essi non daranno mai il benché minimo apporto alla tanto auspicata costituzione di una società migliore, non ne cureranno i mali cronici che la travagliano. 

Se l’uomo moderno non si determinerà a lavorare tenacemente per vincere lo squilibrio profondo ch’è sorto dalle esigenze dei nuovi tempi contrapposte alle abitudini del passato, se non riscoprirà le efficaci e immense disponibilità interiori, la nostra generazione, nel giro di qualche decennio non avrà più storia, questa nostra terra, questo paradiso creato per le delizie del genere umano, che noi stessi, con diabolica caparbietà, abbiamo cominciato a trasformare in uno squallido paesaggio di morte, ci propinerà il veleno che incautamente e sconsideratamente le spargemmo al tempo della nostra follia. Periremo vittime espiatrici delle nostre stesse colpe, impigriti, imprigionati come il baco nel suo bozzolo, disperati perché quando stimeremo improrogabile ricorrere ai ripari, sarà troppo tardi. 

L’opera di bonifica, a tutti i livelli, va quindi iniziata subito, ché la fatica è ardua e passerà molto tempo prima di vederne e goderne i benefici effetti. 

Ma finché non decideremo di farci governare da uomini integri, ligi all’assolvimento del mandato che man mano andiamo loro affidando, finché con vigore non esigiamo amministratori saggi e coraggiosi, pronti a riconoscere diritti e doveri e a combattere ogni forma di corruzione a qualsiasi livello, la speranza in una società di pace rimarrà per sempre un pio desiderio. 

L’epoca in cui viviamo ha molto bisogno di uomini validi, capaci di sviluppare forze possenti cui hanno fatto ricorso i grandi dell’umanità, le stesse che, se ritrovate e bene impiegate, accresceranno il nostro fervore e ci spingeranno lungo i sentieri di una meritata felicità. 

Per raggiungere il traguardo della sua riabilitazione morale l’uomo si deve impegnare nel massimo sforzo di operosità, è necessario che senta entro di lui il richiamo prepotente al senso della giustizia e che qualche volta, dato che in quanto mortale egli è fallace, venga subito assalito dal dubbio di non avere fatto appieno il suo dovere – non fosse altro che per dimostrazione di umiltà -, è necessario che i principi di amore verso il prossimo e di rigore verso ogni forma di sopraffazione non vadano indefinitamente ignorati, altrimenti la giustizia non sarà mai uno strumento di liberazione, ma di costrizione, e la pace continuerà a restare un sogno lungamente vagheggiato e mai raggiunto. 

Un ordinamento giuridico che risponda alle esigenze di tutti, che raggiunga un compromesso tra le opposte convivenze e ne riduca sensibilmente le frizioni su scala internazionale, è il solo che possa contare su un’esistenza relativamente serena. 

«Non c’è altra via d’uscita», sostiene l’illustre economista e sociologo Umberto Villari, «se si vuole rinnovare la società, se la si vuole serena e trasformata, occorre ristabilire il diritto, bisogna risanare lo Stato e quindi, in primo luogo, chi amministra le istituzioni dello Stato, la politica che emana dall’alto. Si può vivere per la politica ma non di politica, specie se essa lascia alle coalizioni compromissorie l’esercizio dei pubblici poteri facendola soggiacere alla continua imposizione di leggi e adempimenti vari, secondo gl’interessi di parte, senza che vi sia un chiaro e puntuale impegno di programma da realizzare nel corso della legislatura». Il che è molto pericoloso: quando la politica è sorda alle esigenze della democrazia, prima o poi si trasformerà in dittatura. 

Obbligare i cittadini a rispettare leggi e leggine, decreti e decretini che risultano chiaramente in contrasto coi dettami della propria coscienza, significa spingerli ai limiti estremi della sopportazione, significa disporli all’insofferenza, alla rivolta, non alla pace. 

Coerenza, quindi, rispetto reciproco, lealtà occorrono per raggiungere traguardi di vita, ma per avere la certezza della felice riuscita non dobbiamo trascurare, soprattutto, la nostra azione educatrice nelle famiglie e nelle scuole, gloriose palestre di libertà, spesso trasformate in luoghi sediziosi. 

Dall’interesse e dal modo con cui i giovani attendono al loro lavoro di formazione educativa, dal modo di vedere le cose da grandi dipenderanno il progresso e il regresso della società, la rovina o la salvezza di essa, l’ignoranza nell’amministrare e l’incapacità a difendere le istituzioni nei basilari principi della civile convivenza. 

Ma la scuola e la famiglia attraversano, purtroppo, una crisi molto profonda. Non è mio proposito indagare analiticamente in questa esposizione sulle cause che spesso sconsacrano il culto di queste due insostituibili istituzioni, sarebbe troppo lungo e correrei il rischio, oltrettutto, di essere frainteso e di stancare chi ha avuto la cortese pazienza di leggermi sin qui. Dirò solo per sommi capi, come in un ritornello svegliarino, che la colpa di tanti sussulti e di tanti travagli è sempre di noi stessi, della mancanza di sani principi che correggano eventuali deviazioni al loro primo insorgere in qualsiasi momento della nostra vita. Non dimentichiamo che la decadenza delle grandi civiltà fu dovuta in gran parte alla morte morale dei popoli. E gli uomini continueranno ad affannarsi nel tentativo di ridurre gli squilibri sociali, ricorreranno a nuove leggi per arrestare il deterioramento di strutture vacillanti, potranno a tal fine adottare sistemi odiosi per indurre alla ragione o per annientare processi degenerativi, ma tutte queste misure non daranno i risultati sperati finché le leggi saranno inefficaci, finché non poggeranno su basi morali, finché saranno permessi la vergogna e lo squallore dell’esasperato profitto. Donato Accodo 

da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg 13-17.




Divagazioni linguistiche 

La storia della lingua non è altro che la storia della mente umana attraverso l’analisi della parola e dei suoi significati nella varietà di ogni aspetto creativo. Concetto, questo, che ci porterebbe a dedurre, andando a ritroso nel tempo, le origini di molte, se non di tutte le lingue, procedendo per gradi nell’analisi strutturale del linguaggio, scomponendolo nei vari passaggi della sua formazione che da principio fu certamente composta di monosillabi, al pari di tutte le lingue primitive, che, altrettanto vero, conobbero inarticolati suoni gutturali. 

Noi stessi, del resto, da bambini, abbiamo cominciato a parlare con sillabe. Pa (per papà), ma (per mamma), ta (per tata), etc., accorciando e contraendo o troncando sillabe più lunghe, per poi sillabare parole di ogni misura con l’imitazione e l’esempio dei più grandi. Il che non era possibile ai primi formatori delle lingue e ancora oggi è impossibile un processo del genere nella lingua cinese, immutata nei propri ideogrammi sin dalla tenebrosa notte dei tempi. 

Il contrario si è verificato, invece, nella lingua greca e conseguentemente in quella latina, le quali, durante le varie tappe del loro perfezionamento, hanno subito continui adattamenti e trasformazioni a mano a mano che il progresso ha consentito adeguamenti alle esigenze dei tempi, sotto la spinta di altre civiltà, rispettando per capriccio o per dolcezza oppure per imposizione dialettale o per pronunzia irregolare e corrotta, il dover comunque cambiare faccia alle parole col successo del tempo, fino a introdursi nelle scritture e dare vita ad esigenze di regole ed eccezioni, come vediamo nella nostra e in quasi tutte le lingue. 

Seguendo un’accurata analisi dell’itinerario filologico dei termini, ci possiamo rendere conto di come, da pochi primitivi monosillabi radicali e successivamente dai nomi che da principio formavano tutto il linguaggio tra diversi allungamenti, differenziazioni e variazioni di significato, inflessioni, composizioni e modificazioni di ogni sorta, riuscissero i latini a cavare infinità di parole nuove e, con esse, minime espressioni di differente variabilità delle cose che in principio si erano andate accumulando in uno stato confusionario, e traessero quel complesso linguistico che doveva racchiudere tutti i pregi del discorso che poi sono anche i nostri. 

Nel seguire questa panoramica dissertazione linguistica è sottinteso che coloro i quali non hanno dimestichezza con le lingue classiche, di qualunque nazione siano, non possono sentire le stesse armonie dei versi latini e greci, se non prima si siano assuefatti a udime la cadenza in ogni circostanza, notandone, con regolarità e, un po’ per volta, tutte le sfumature, le piccole corrispondenze e relazioni, fino a che l’orecchio non ne gusterà le armonie. Ovviamente, simili processi sono indispensabili anche a chi meglio intenda le stesse lingue, latina e greca. 

In altre parole, l’armonia è data soprattutto dall’esercizio e dalle consuetudini invalse nel tempo, educando, in crescendo, l’orecchio fino a raggiungere scelte preferenziali, proprie, ad esempio, del volgo che trova armonia, più che altrove, negli inni sacri e non in qualsiasi eccellente poeta latino. Ciò perché gli inni ecclesiastici, per metro e andamento, rima e struttura somigliano a versi barbari e in metri latini. Lo comprova il fatto che, se ci accade di ascoltare un qualsiasi 

pezzo di un’aria che conosciamo e, ad un certo punto, di notare che il seguito di questo pezzo è diverso da quello conosciuto, proviamo subito un senso di discordanza, perché avvertiamo che questa diversità si contrappone alla sua particolare assuefazione. 

Ciò significa che, in casi del genere, la consuetudine e l’esercizio hanno un ruolo determinante nella distinzione armonica o disarmonica dei suoni. Alla stessa maniera di come parimenti è determinante, nella lunga vita di una lingua, il mantenerla immutata nelle sue radici e quindi nei suoi toponimi, che, in quanto tali, non potranno mai morire (Davide Nardoni, Manuale idiotico, Ed. EILES, 1994). 

In tal senso l’esempio ci viene dato dai Greci, che non hanno mai rinunciato a parlare la loro lingua, nemmeno dopo periodi di decadenza; se ne sono sempre ricordati, diversamente dai Romani che, in determinati periodi storici, permisero l’imbarbarimento e la conseguente decadenza del latino, avendo più volte interrotto, e per lungo tempo, i legami con la propria lingua d’origine. Vale, cioè, lo stesso discorso a proposito dell’armonia della quale si è detto all’inizio: la costanza della tradizione e la ricchezza di una vasta letteratura rafforzano, ingentiliscono, aggraziano, prolungano la vita di una lingua. 

Sia d’esempio la sanscrita che, ricca di pregevoli scritture di ogni genere, secondo il gusto orientale, vive ancora in vastissime contrade dell’India, a distanza di secoli. Vive ancora con l’uso e con la cognizione delle sue ricchezze letterarie, con la venerazione dei suoi sommi scrittori. Diversamente da quanto si verificò a ‘Roma nei secoli di barbarie, quando i Romani non sapevano più nulla persino di Virgilio, di Cicerone e di tante loro glorie letterarie. 

Del resto, vuoti così profondi, nel buio della storia, sono sempre avvenuti e sempre avverranno anche tra popoli di grandi civiltà e cultura, ogni volta che la filologia smette la sua funzione di preziosa interprete e fontinuatrice di eventi che per essa stessa affiorano dalla tenebra del passato, dal cimitero delle morte parole, dai fossili linguistici di un’avversa fatalità, ma, il più delle volte, dalla crassa ignoranza di ricercatori presuntuosi e senza scrupoli nel rimestare le regole linguistiche della storia dei popoli. 

Lo studio del linguaggio è sempre rifiorito dopo più o meno lunghe parentesi di oblio, anche nel Settecento, quando si cercavano nuovi impulsi che poi ebbero sbocco definitivo nella metà dell’Ottocento, con la nascita di una nuova linguistica scientifica e, alla fine del Novecento, con l’apertura alla rivoluzionaria filologia sperimentale di Davide Nardoni, che, con diacroniche dimostrazioni del suo crivello, rivisita tutte le fonti letterarie e storico-filologiche per scoprire verità mai dette e con queste rilevare le fallaci interpretazioni di vanagloriosi ricercatori ancorati ad una non sempre illuminante filologia classica, morta nella sua gretta staticità. Costoro poco o quasi nulla dicono della tendenza di adattamento al quale il linguaggio è soggetto nel divenire dei secoli. Motivo, questo, per il quale molte volte alcuni linguisti hanno falsato, senza peraltro accorgersi, le loro ricerche, dando così vita arbitraria a nuove radici tutt’altro che originarie, addirittura inesistenti e quindi non in grado di dare inconfutabile certezza di originalità. 

Nelle lingue c’è una continua interazione, nel senso che non possono esserci immobilismo e compartimenti stagni, dal momento che studiarle vuol dire studiare origini, usi, costumi di popoli confinanti, in un’ alternanza di periodi ricorrenti, con sempre nuovi impulsi da coloro che li hanno raggiunti o dominati, trasmettendo influenze di ogni genere, ma con ciò, nella ricerca di remote origini nessuno può arrogarsi il diritto di cancellarle con l’arma impietosa della devastazione linguistica. 

Ben vengano le fusioni tra i popoli e, oggi più che mai nel fervore di iniziative comunitarie, siano però difese le loro originarie strutture di appartenenza, distintivo delle proprie radici, inconfutabile contrassegno della propria identità, libere da tecnicistiche elaborazioni, da impetuosa e caotica produzione di neologismi nell’ incalzare dello sviluppo della scienza e della tecnologia, foriera, nel nostro paese, per l’indifferente legge del lasciar correre, di vocaboli e sigle straniere, specie anglosassoni, senza che gli amministratori della nostra vita culturale si premurino di tutelare la lingua che ha dato e dà voce unica e costante alla tradizione nazionale, tenuto anche conto che l’integrità dell’italiano, studiato da un numero sempre crescente di stranieri, non può abbondare di babeli terminologiche e tanto meno essere svilita da eccessivi quanto inutili sinonimi per i quali la lingua diviene più acconcia a nascondere che a manifestare il pensiero (*). Come pure dubbia può rivelarsi l’esattezza di quanto detto e scritto intorno all’ etimo delle varie scoperte filologiche, se condite di esorbitanti divagazioni di compiacimento edonistico, peggio ancora da infelici velleità innovative. 

Lasciarsi inquinare il proprio linguaggio da infiltrazioni di altre lingue o di barbarismi che dir si vogliano, in una commistione di ibridi connubi filologici, significa, a lungo andare, perdere le proprie origini, la propria “identità, dare allo straniero licenza di devastare i propri tesori linguistici, affidare se stessi all’ arbitrio di quelle nazioni che, per vantati meriti di trapassate egemonie, pretendono di avere predominio nell’interscambio lessi cale del commercio, che di certo non fa onore al nostro idioma, erede indiscusso della nobilissima lingua latina dalla quale Dante trasse «lo bello stilo» del suo capolavoro. 

Paolo Monelli, attivo difensore della nostra purezza linguistica, ci attribuiva mancanza di orgoglio, la disponibilità a raccattare ogni foresteria con balorda premura e a farci inquinare il linguaggio con fare tipico degli ignoranti, degli schiavi; e precisava: «il che non è indizio di spirito moderno, è al contrario tabaccosa mania». 

Lapidario e veritiero il pensiero di Lorenzo Valla: «Tramontano gli imperi, tramontano le imprese dei popoli e dei re, ma non la lingua quando largamente diffusa non tanto e soltanto in forza di meriti espansionistici, quanto perché, come la latina, più preziosa della propagazione dell’impero romano, da conservare gelosamente come un Dio disceso dal cielo.» E difatti, ovunque si è espanso il dominio romano, anche se ormai cessato da secoli, ivi la stirpe dei casci latini, la loro progenie, la romana gens, continuano a vivere e a regnare poiché l’impero romano è restato dovunque ha imperato la lingua di Roma. «Imperio populos, Romane, memento», esortava il Vate: «o Romano, ricordati di guidare i popoli al Parime, alla parificazione ». 

Senza dubbio i popoli vanno guidati soprattutto dalla lingua, istituzione voluta dal nostro consenso, a seconda che permettiamo che sia, in un modo o nell’altro, in diretta dipendenza dalla nostra volontà. Se non la curiamo, se non la difendiamo dagli assalti nemici, se la lasciamo contagiare dai germi infettivi d’infiltrazioni egemoniche, prima o dopo finirà per ammalarsi e perdere la sua vetusta potenza espressiva, pervasa da fiaccanti contraccolpi stranieri. Adagio, quindi, a indulgere con l’uso di forestierismi e neologismi a indiscriminate aperture alla moda. Piuttosto è quanto mai necessario istituire un’autorità in grado di adattare la terminologia straniera alla nostra, seguendo l’esempio di quegli stessi paesi che ambiscono a posizioni di assoluta preminenza. E occorre, peraltro, sottrarla agli assalti deformanti di coloro che, facendone continuo uso, si ritengono professionalmente autorizzati a farne scempio. 

Donato Accodo

* Cfr. «Repubblica», sabato, 26 febbraio 2005, «Bonsai italiano», di Sebastiano Messina. In poche righe e con fine satira, l’autore focalizza il problema che non va preso alla leggera, bensì affrontato con fermezza e determinazione. (n.d.r.)

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 5-8.