Tentativi di poesia e di comunicazioni

Secondo consuete valutazioni, la possibilità di comunicare sembra atto in sé che attende di manifestarsi: divenendo – fuori di sé – un fatto capace di suscitare conseguenze. Bisogna aggiungere che essa dipenderebbe da una disponibilità, connaturata all’oggetto. Ragionevolmente chiamiamo oggetto (nel plurale adatto alla nostra modestia) quello che di solito viene indicato come luogo da cui partirebbe la comunicazione, soggetto che comunemente si ritiene possa riceverne.

Infatti, quella disponibilità – nell’oggetto – è una finzione logica: non un elemento dinamico della comunicazione ma un antecedente della possibilità di comunicare, stabilmente insito, oggettivamente fisso, che fornisce segni decifrabili. Questa riflessione proviene dall’evento stesso del comunicare: non succede che passivamente si riceva comunicazione, ma che attivamente se ne prenda (è caratteristica dell’oggetto assumere ruoli passivi, l’attivarsi è proprio del soggetto). Nel terreno si rinvengono pietre sepolte, all’interno della persona la sua indole, così il soggetto trova nell’oggetto un’apparente disponibilità a comunicare.

Se nessuna disponibilità è passiva, quella intesa alla comunicazione non è trattenuta nell’oggetto; è semplicemente la disponibilità, del soggetto, a Tentativi di poesia e di comunicazione di Antonino Cremona riconoscere l’oggetto. La possibilità di comunicare è determinata, dunque, dalla capacità di lettura da parte del soggetto. A questo punto, la possibilità di comunicazione – atto in sé, il quale attende di manifestarsi (fuori di sé) come fatto capace di suscitare effetti – dipende da una disponibilità connaturata non all’oggetto ma al soggetto: è disponibilità a capire, con la conseguenza (ecco dunque: fuori di sé) di migliorare la conoscenza ed eventualmente il gusto (questi gli effetti). 

Nei rapporti fra persone, durante lo scambio delle notizie, ogni persona è – di volta in volta – soggetto e oggetto del comunicare; meglio: della comunicabilità. Tramite del possibile tentativo di comunicazione può essere una sostanza o una forma, non esistenti in natura ma create da persone: una sostanza grezza, perché priva di forma; una forma che ha sostanza materiale o concettuale, oppure materiale e concettuale insieme. Va, comunque, precisato che la comunicazione non è mai completa: per oscurità dell’elemento da riconoscere, per difetto della disponibilità a intendere, o per entrambi i motivi. Sicché la comunicazione non esiste come assoluto (peraltro, non vi è 1’assoluto); ma solamente esiste la comunicabilità, e in modo relativo. A questo riguardo bisogna puntualizzare che la forma è conseguenza della ricerca di espressione, però quasi mai tale ricerca permette di giungere alla forma che si voleva ottenere. Cosa si possa intendere per espressione cercheremo di proporre in seguito.

 

Questi appunti “banali” servono ad avvicinarci all’argomento “Poesia e comunicazione” in cui il Centro di cultura siciliana ‘G. Pitrè’ (Palermo, 28 e 29 novembre 1985) poneva alcuni interrogativi circa lo “spazio” che la poesia possa ancora trovare nell’”ampliarsi attuale dei sensi e dei mezzi del comunicare”; coltiva dubbi sul concetto di comunicazione poetica (“solo facilità discorsiva”?); infine – “poiché la poesia dei Siciliani è in genere sorvegliata dal senso della comunicazione” – è possibile “enucleare una linea isolana?”.

 

 

Certo; nessuno sa, né mai ha potuto apprendere, cos’è poesia. Avviene che se ne avverta l’odore, ed è lecito affermare che poesia sempre si è avuta in tutte le altitudini e latitudini. In ogni ipotesi la voce, lo scritto, la trasmissione elettronica e telematica, possono divenire supporto dei suoi trasferimenti.

 

Noi siamo di quelli che non s’incantano dinanzi alle meraviglie tecnologiche e scientifiche, anzi si avvedono delle devastazioni che ad esse si devono attribuire; abbiamo pure segnalato la scienza e la tecnologia – serve della politica di potere – come involuzione della civiltà, regresso della vita: a nulla giova che si possa estendere le nozioni se nel concreto questo impedisce di approfondire la conoscenza già acquisita, persino rende disumano il mondo.

 

Si dirà che ogni cosa ha un’origine e una fine, dunque anche la poesia potrà avere la sua fine magari telematica. I discorsi, però, sulla morte dell’arte – o della filosofia – non ci sollecitano: perché tutto è relativo, niente è mai definito, l’anno Mille è stato preannunziato invano tante volte contro la mente. Badiamo, invece, all’origine della poesia: ch’è il canto. La scrittura è trascrizione del canto; il fatto che quasi mai, da secoli, la poesia venga cantata non sopprime la necessità di musica in cui la poesia si forma; anche la spezzatura del verso è un segno musicale.

Che la scrittura a mano, o a stampa, possa essere sostituita con altra è solo un fatto meccanico: riguarda il supporto scrittorio, non l’atto ideativo – né il fatto ideativo – della poesia. La tendenza (alquanto barbina e suicida) a sostituire la macchina alla persona potrà forse indurre a trovare poesie – o tentativi di poesia – delle macchine, non certo da mettere insieme alle poesie (o tentativi di poesia) delle persone. Ragionare con una macchina potrà essere un passatempo, istruttivo e delizioso, mai un ragionamento fra persone: anche se vi siano macchine raziocinanti meglio che persone.

 

Pure ci è utile il secondo quesito. La poesia e ciascun’arte non sono mai state lievi da fare, né da intendere. La qualità dell’arte ha spessore in rispondenza alla capacità espressiva dell’artista. L’immediata percezione non trasforma i connotati del cartello pubblicitario, anzi li distingue; la trascinante emotività di un eloquio – pure se composto in fraseggi con ritmi e immagini, luci e coloriture – si ferma alla soglia della poesia, perché non sfiora la metafora. La ricerca di espressione non si raggela nel coniugare immagini: perviene all’esposizione delle metafore.

La poesia autentica si fa dura all’ascolto; ha bisogno di più letture, penetrazione graduale nei suoi strati. Per quanto ci riguarda, non siamo peggio eretici del nostro solito se escludiamo che qualsiasi testo – solo perché composto in versi – possa avere significatodi poesia.

 

In ultimo, i siciliani. Se quella dei nostri autori fosse “sorvegliata dal senso della comunicazione” e non (appunto) dal senso della poesia, siamo propensi a ritenere che sarebbe davvero infima. L’intento comunicativo impone un semplificare che non è limpidezza, ma fa parte dei sistemi divulgativi; invece, l’intento (meglio: l’esigenza) della poesia costringe, a un approfondimento della ricerca di esprimersi.

La comunicazione esterna, peraltro, è un evento occasionale ed estraneo: la ricerca dell’espressione, infatti, è il tentativo del poeta di comunicare con la propria scrittura. Come gli altri tentativi, neppure questo spesso riesce.

 Non si prenda questa posizione come un adeguamento alla cosiddetta scrittura automatica: non si accorderebbe con l’avversione al telematicismo e con l’adesione, invece, ai difetti umani. Né si pensi a un riflusso di ermetismo (scuola inventata da alcuni critici, rifugio – come tutte le scuole – di autori bisognosi di farsi proteggere); s’è possibile, ci si consenta di tentare qualcosa di svincolato dalle mode.

 

Dati i precedenti dei vari ‘ismi’ in Sicilia, andremmo guardinghi nel segnare una linea continua nella poesia dei siciliani. E potremmo anche temere pericoli di delimitazioni, d’incasellature  Quest’isola non ha mai avuto una cultura isolata, tanto più se la ‘cultura’ va intesa in termini antropologici. Essa  non è mai stata solo un crocevia del Mediterraneo; oggi, contro ogni apparenza, è terraferma nei flutti del mare.

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 34-36.




 Premessa a un discorso su Quasimodo a cinquant’anni dal «Premio Nobel» 

di Antonino Cremona 

Vi è stato un tempo in cui le tazze avevano due manici, affinché si potesse bere agevolmente. Epitteto, però, diceva che non solo le tazze ma – generalmente – ogni cosa ha due manici; molto tempo dopo, gli entusiasti del premiatismo si sono accorti del rovescio della medaglia: un secondo manico, di forma diversa. In definitiva, Epitteto ci informava che vi è più di un modo per prendere le cose: prima da un manico, poi dall’altro, e ciascuna volta l’oggetto risulta diverso. A certo punto, le tazze hanno perso un manico: per effetto di un assolutismo unidirezionale. Sicché è rimasto un solo modo per prendere le cose. Infine, l’invenzione del bicchiere ha eliminato anche l’ultimo manico: non vi è più modo di prendere le cose. Rimane, però, l’avvertenza di Epitteto: alle idee, agli argomenti, alle persone, alle cose, ci si può accostare in modi diversi; intanto, possiedono diversi modi di manifestarsi. Un autore può essere preso – come si dice – per quello che è, o nel contesto del suo tempo. Ancora: può essere colto negli elementi che ci tramanda, o per la marea dei suoi discepoli. 

Ma queste sono soltanto delle apparenze. Infatti, nessun autore può mai essere «quello che è» (la sua opera non può venire considerata come se il resto del mondo non esistesse). Ogni autore consiste, invece, nella sua storia; ch’è composta di due parti: la prima, sino al momento in cui produce; la seconda – in perenne formazione – inizia nel momento in cui ha smesso di produrre. A volte, l’assegnazione di un premio Nobel (o la semplice pubblicazione dell’opera omnia) vale un decesso. Non è stato il caso di Montale, né di Quasimodo. 

La prima parte della storia di un autore è la sua opera che si va formando, e pure vi appartengono gli effetti della sua opera ancora in via di composizione; la seconda parte della sua storia sono gli effetti dell’ opera ormai conclusa, anzi interrotta da un qualche evento. Ma vi è da sospettare che l’opera è di quell’autore in quanto è di sua scrittura: egli e il suo ambiente si esprimono attraverso quella scrittura. Pure vi è da considerare che nessun autore ha bottega, non si sceglie i propri adepti, non li conosce nemmeno; lavora per suo conto (non è un artista – pittore, o scultore, architetto – di tipo rinascimentale), non si occupa di discepoli. Se ve ne sono, stanno fuori dall’officina; si trovano fra i suoi lettori. 

Dalle nostre parti, non abbiamo autori di letteratura che possano essere conosciuti attraverso i loro adepti. Si vuole dire che l’opera di Salvatore Quasimodo non può essere valutata guardandone i seguaci ed epigoni: il fatto che vi siano quasimodiani segnala la forza di suggestione che l’autore è capace di imprime re, ma non può attribuire a lui alcuna responsabilità (appunto, non ha bottega) circa gli esiti dei suoi ospiti. I quali, come avviene al seguito di ogni fortuna letteraria, hanno frainteso il senso della sua scrittura. Equivocano le derivazioni decadentistiche – certamente quelle che provengono dal più fine decadentismo degli europei – scarabocchiando paesaggi in forma di bozzetto; sicché il civismo meridionalistico di Quasimodo viene tradotto in un disgustoso lamento sulle proprie sorti, e su quelle di un Sud inesistente; l’emigrazione si presenta, in questo modo, ancora più esecrabile. 

Le dimensioni dell’opera di Quasimodo si accrescono, e si arricchiscono, quanto più essa si inoltra nella seconda parte della sua storia. Sicché diviene pressante che vengano condotte alcune indagini: rintracciare le influenze quasimodee su altri traduttori e poeti; così pure i legami di Quasimodo con i suoi contemporanei e i suoi antecedenti. 

I suoi contemporanei non sono autori delle altre latitudini. Sono, innanzitutto, la gente (non necessariamente la sola gente di cultura) con cui egli è vissuto nei vari luoghi della sua vita; e sono i libri delle sue letture. I suoi contemporanei, dunque, si risolvono nelle riflessioni: dovute a persone che vivevano con lui (direttamente, oppure attraverso quanto egli era disposto a ricevere dalle loro attività artistiche). Una critica attenta a componenti di questo tipo darebbe risultati amari al criticismo astratto: troverebbe, peraltro, notevoli – e quasi sconosciute – personalità accanto e intorno a Quasimodo e lui accanto e attorno a costoro. Per conseguenza, si ridurrebbe l’immagine del poeta in una luce di solitudine all’interno della triade ermetica. 

Certo, un poeta è sempre un passero solitario; ma in senso diverso da quello per cui possa divenire un migratore . sperduto. Chi è privo di passione per la solitudine – un amore appassionato, quasi esclusivo – non riesce a scrivere, mai: la vocazione del poeta è la vocazione alle proprie riflessioni solitarie, pubbliche e private. 

La solitudine di Quasimodo è tutta un fervore di relazioni, di scambi, di interessi, con quelli che possono essere ritenuti i suoi contemporanei, ma anche i suoi antecedenti, di tante epoche, con i quali ha tenuto contatti da contemporaneo. 

Stranamente, il concetto di ermetismo non è una sintesi a posteriori. È – invece – un ritrovato di critici, in linea parallela allo sviluppo dell’attività di alcuni poeti e saggisti. È una sorta di programma, come quello che Adriano Tilgher stese a un certo punto del lavoro teatrale di Luigi Pirandello. Sappiamo tutti che i programmi in materia d’arte sono tentativi ogni volta falliti. L’arte se ne va sempre per il suo verso, sfuggendo alle regole. Va a finire che, rispetto alla gabbia messa su da Tilgher, Pirandello ha poi sbagliato; e che, allo scopo di rinserrarsi in quella gabbia, Pirandello cerchi di non sbagliare: con alcune conseguenze rispetto a se stesso. Va, pure, a finire che l’ermetismo rimane un’ipotesi; un movimento poetico nel quale (paradossalmente) tutto è fermo, e non vi sta dentro nemmeno un autore: ovvero alcuni letterati, che la poesia ha lasciato in desolazione (così nel romanticismo, nel classicismo, negli ismi). 

Ne viene fuori che la triade si allarga. Interrogati, uno ad uno, i componenti della triade negano di farne parte (non solo di appartenere alla triade, ma allo stesso ermetismo), e oggettivamente non vi appartengono. Ognuno si è messo nella propria solitudine: lavora all’intemo della propria poetica. La triade si allarga perché – indicata con persone di varie generazioni, circostanza che metodologicamente non sembra idonea, e l’ermetismo non essendo esistito, almeno come denominatore comune – bisogna che altri poeti di pari dignità (qui non si dice di analoghe dimensioni della scrittura, se non per pochissimi, fra i quali Umberto Saba) siano riconosciuti attivi nel primo sessantennio del ventesimo secolo in lingua italiana. D’accordo, la vita operativa di ciascuno dei tre è andata generalmente oltre quel tempo, e le date stanno bene solo al calendario. Né conviene fidarsi delle dichiarazioni di poetica, quantunque ogni scrittore avverta il dovere di farle conoscere. 

Del resto, ciascun autore conosce se stesso in breve misura. E ogni proposito viene puntualmente smentito dal risultato dell’arte; tant’è che si generano (ad esempio) le poesie a cannocchiale: l’una appresso all’altra, nella rincorsa ad esprimere quella determinata sensazione che, invece, sempre più a fondo si rintana. In verità, ogni autore è altro da sé; ciascuna opera è diversa da come l’autore riesce a vederla. Perché quello che resta, che vale, è solo quanto ognuno venga a trarne. Io non ne so nulla (saggiamente rispondeva Eugenio Montale): sono soltanto l’autore. Nei fatti, non sappiamo se si stava nel giusto durante il lunghissimo tempo in cui il poema di Dante è apparso privo di interesse; né se Petrarca s’indovinava quando riteneva di avere consegnato ai versi latini il meglio della sua espressione, o se gli attuali studi rivalutati vi conducano)e prose di pensiero del Leopardi allo stesso livello dei suoi Canti. Solamente sappiamo quanto, oggi, ci capita di avvalorarci dell’opera di ognuno. 

Questi dell’ultima triade (in ordine d’ingresso: Ungaretti, Montale, Quasimodo) sono comunque riconoscibili maestri di quanti si siano successivamente dedicati alla scrittura delle parole (esclusi, dunque, quelli che scrivono suoni in forma di parole e i telematici) perché diedero segno di come la poesia dovesse scriversi senza maiuscole. Intanto senza le maiuscole dei crepuscolari, iniziarono ad avvicinare la poesia ai suoi lettori, allontanandola dalla letteratura; non solo dalla retorica, dal patriottardismo, dal nazionalismo, dalla magniloquenza. Sognarono e fecero poesia pura: lirica quanto più viene ad essere, insieme, civile; attratta quanto più ci persuade. E quanto il suo oggetto si localizza tanto riesce universale. 

Le dichiarazioni di Quasimodo rispecchiano (ed è un’eccezione) la sua poetica. Nel Discorso sulla poesia Quasimodo si appassiona contro i filosofi (che gli appaiono «i nemici naturali dei poeti»: bisogna dire a torto, se non s’intende che sta discorrendo di quelli che presumono di avere definitivamente sistemato il mondo), però siede nell’essenza del proprio lavoro quando ribadisce che la letteratura «si riflette» mentre la poesia «si fa». Ed è vero: stiano i letterati nei loro paludamenti, con mitrie e aureole; decantino, invece, i poeti le voci del tempo, uniscano spazi, ritrovino l’uomo e i suoi miti, la natura femminile e maschile della terra, operando in precisa umiltà, ma nella consapevolezza di offrirsi come trasgressori di forme e di contenuti, come irregolari nei sistemi precostituiti, dunque vittime possibili. 

E, ancora, Quasimodo s’incentra nel colmo dei propri significati quando separa le questioni grevi della morale dalla libertà della poesia: nella quale nulla può avere un senso immorale, o morale, ma unicamente poetico (concetto, da tempo, acquisito a proposito delle arti figurative ma tuttora non del tutto penetrato nelle valutazioni della parola scritta). E in quanto è trasgressione, la poesia è libertà; in quanto è creazione, è verità; «non insegnano, i poeti, che a vivere»: forse è questo il valore sociale della poesia (la socialità su cui il poeta insiste e alla quale assegna valore etico). 

In noi si scolpisce questo passaggio del Discorso sulla poesia (apparso nel 1956, come appendice a Il falso e vero verde), che individua responsabilità senza limiti: «Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è libertà e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento.» Questo si tentava di indicare: un autore ci appartiene, quale che sia la sua epoca, per la misura di libertà e di verità che per suo tramite riusciamo a riconoscere nel nostro tempo. 

Negli «autoritratti critici» (raccolti da Ferdinando Camon nel 1965 nel volume Il mestiere di poeta) Quasimodo teneva a fare evidente questo concetto: «La ricerca di un linguaggio è la ragione principale della poesia.» E avvertiva: non si confonda il linguaggio con la filologia; si distingua la creazione del linguaggio poetico dall’ elaborazione filologica. In tutti e tre i periodi della sua lirica (l’iniziale collegamento stilnovistico, poi quello coevo alla rivisitazione dei classici, infine il periodo della più assoluta laicizzazione) Quasimodo non smise la ricerca (da poeta autentico, non poteva considerarla esaurita) anzi fece costante l’approfondimento dell’espressione nella qualita della parola, una quantità metrica ricca delle proprie risonanze, in contrasto con la qualità dannunziana. Quantità anteriore, in Quasimodo, allo stesso famoso suo accenno «al palo del telegrafo», cioè a un oggetto considerato impoetico. Sta nella sua musica quantitativa la capacità di elevare il canto da situazioni e cose impoetiche; la stessa capacità di rivelare originaria e inalienabile l’intonazione della sua voce. Ciò è in una tale efficienza che fu Quasimodo a dare ai classici, traducendoli, il proprio linguaggio. Lui stesso sapeva «non di una chiarezza ricevuta, ma di una chiarezza data» (intervista a Camon). Questo argomento suggerisce la particolarità del lindore della sua scrittura, che riconduce nell’area del canto pure se intrisa – o forse proprio per questo – delle materialità e delle crisi della sua epoca. Bisogna, riconoscere che il suo dettato diviene canto, perché si fa: crea e si crea, così come, in origine, la poesia era musica per la cetra. 

Un’ultima cosa, a chiudere questa premessa a un discorso su Quasimodo. Può dispiacere ad alcuni, che preferiscono gli itinerari consueti (nazionali o di influenza europea); può essere gradita, invece, a quanti vedono la cosiddetta lingua italiana come filiazione di parlate siciliane – pure se (ragionevolmente) non considerano quella che comunemente si chiama letteratura siciliana come una letteratura nazionale, di una nazione Sicilia che in ambito di cultura non vi è mai stata perché sempre si è fatta sintesi e insieme lievito della vita mediterranea – però è utile tentare un’indagine a proposito di quanto derivi (e sia affine) a Quasimodo e quanto alla sua parola, immagine, metafora, si ricolleghi – nel senso della poesia – dentro l’area, sua, mediterranea (quest’altro mondo assai spesso dimenticato, anche da noi stessi che lo respiriamo). 

Antonino Cremona 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 3-6.




 Ester e San Calò 

di Antonino Cremona* 

Una premessa, su quel molto che oggi importa di Giuseppe Pitré. Non solo l’iniziatore degli studi folkloristici in Italia, ed il maestro cui gli esperti di questa e di affini materie usano costante riferimento. Non solo ebbe la capacità – intellettuale e fisica – di creare il corpus delle tradizioni popolari siciliane. 

La sua vita (fra l’iniziale propensione letteraria e l’arte medica e la diversa attivitàdi studi folklorici) intrama l’ansia di lavorare nell’ombra, per non perdere i clienti – cioè i mezzi di vita e le fonti economiche della ricerca folklorica – sovrapponendo l’identitàdel medico a quella dello studioso. Ancora oggi, chi ha un secondo mestiere è costretto a nascondere quanto possibile (per uguale necessità l’occupazione primaria: per non essere preso per filosofo, uguale a pazzo. E la serrata insistenza, nel proporre all’ambiente scientifico accademico ufficiale la piena dignità del folklore quale studio appartenente alla storiografia. 

L’assidua formulazione del Pitrè in tale senso, è anzi un insegnamento fondamentale. Se non gli altri, che pure ebbe, a lui va il merito di avere costantemente considerato la storia come sintesi ultima e immanente di ogni attività umana. Certo, era un pioniere; oggi maggiormente esposto a critiche profonde, e a correzioni talvolta sostanziali, per effetto del progresso filologico. Proprio dal lungo elenco di annotazioni, contestazioni (e rilievi) che Giuseppe Bonomo gli mosse [“Giuseppe Pitrè e la poesia popolare siciliana”, fra gli altri nel volume Pitrè e Salomone Marino contenente gli atti del convegno per il 50° anniversario della morte dei due studiosi, ed ivi anche Alberto Mario Cirese con il saggio su “Giuseppe Pitrè tra storia locale e antropologia”] in sede di ripensamento nella prospettiva storica – non senza l’ineliminabile devozione – emerge notevolmente la sua personalità tanti soccorsi correttivi gli si apportano, perché immenso è il suo contributo alla formazione della scienza folklorica. 

Non ultima (in questa travagliante attività la mostra etnografica siciliana, quando ritenne di lavorare in pubblico, per l’esposizione nazionale che si svolse a Palermo nel 1891-92; il catalogo – nell’edizione anastatica – reca un’amorosissima e stimolante introduzione di Antonino Uccello, poeta siciliano più che di ogni altro studioso rivisse ansie e vicissitudini di cui Giuseppe Pitrè dovette intessere la propria opera. L’avere potuto impiantare una tale mostra era, per quei tempi, affermazione massima della presenza dell’etnografia nei confronti della letteratura e della scienza ufficiale: quantunque oggi si sia, giustamente, disancorati da imbalsamazioni museologiche (ma solo nelle idee, non sempre negli allestimenti). 

Però sollecitazioni in questo senso, per quanto indirette, provengono dallo stesso Pitrè; come è chiaro da un libro di piacevole lettura che Bonomo ha composto insieme a lui, a distanza di decenni, Che cos’è il folklore: metodologicamente organizzato in introduzione, prelezione – è il testo del Pitrè, inaugurandosi il corso di demopsicologia nell’universitàdi Palermo (il primo, in Italia) -, commento, note all’introduzione e al commento; insieme, un aggiornamento bibliografico. Un libro ancora oggi utile alla meditazione sulle origini del folklore, e sui compiti attuali degli studi folklorici. Che non sono soltanto quelli del raccogliere, ma – più che mai adesso – dello spiegare. In proposito, Bonomo (il quale, anche stavolta, padroneggia con agile garbo la vasta materia) tiene insoluto un problema che non si può sciogliere, forse, nel giro di pochi anni: il continuo impoverimento dei canti popolari, già evidente a Benedetto Croce e già lamentato dal Pitrè infine il disuso. 

Estraneo a tali studi, non potrò certo risolvere il quesito. Probabilmente, i canti sono stati via via elisi dall’espandersi delle comunicazioni. In origine erano creati da anonimi, quasi in conversazione – quelli dei berberi tuareg ancora oggi – o in gare di rime; altri, di origine colta, venivano trasformati dal popolo che trovava in essi qualcosa di congeniale. Ma il ‘canto popolare’ è uno sfogo popolare. Quando si comunicano nuovi mezzi di sfogo (per esempio le organizzazioni sindacali, e questo non può valere astio ai sindacati), cominciano a perdere la propria funzione. Un caso è quello dei canti di protesta che, in certo senso, abbiamo visto riaffiorare – nel 1967, durante la marcia primaverile per la valle del Belice – con la musica di Tedo Madonia e le parole di Ignazio Buttitta: “La Sicilia cammina”. 

L’industria musicale (con i teatri, i dischi, la radio, ecc.) introduce, infatti, gusti e suggestioni nuovi. Il canto rinasce – miracolosamente, con il miracolo della poesia – quando si perde tutto (era in questa situazione la valle del Belice, già prima del terremoto, come tutti sappiamo) e il popolo si ritrova solo, in confidenza soltanto con se stesso. È il caso della guerra partigiana, dei lunghi giorni e delle notti insonni in montagna, e il fenomeno si ripete: creazioni spontanee, spontanee modificazioni di opere colte; in Italia, in Francia, dovunque vi sia lotta armata. 

A proposito dei canti popolari – nel folklore di oggi – si dovrà spiegarci, dunque, le ragioni e i modi del deperire e del riaffiorare delle composizioni: oltre che raccogliere le recenti e le nuove, popolareggianti, non del tutto popolari. Ma il folklore, diceva Pitrè si occupa anche della moda. E i canti popolareggianti, come le storpie e le buone canzonette che dai transistors e dai televisori si riversano nelle città e nelle campagne, anche per questa via rientrano nell’amplissimo cerchio di attivitàdella ricerca folklorica. 

Ho rammentato questi argomenti per aiutarmi a chiarire come il folklore sia diverso dalle tradizioni popolari: esse sono una sorta di cronaca (ancora, dunque, non è storia); ma, intanto, subiscano uguali azioni erosive. Più profonde nelle tradizioni popolari, in quanto storia; meglio: folklore, vorrei dire, storicizzatosi. 

Possiamo prendere due esempi. Quello delle ‘permanenze’ ebraiche in Girgenti, e quello – in qualche modo connesso – della festa di san Calogero. 

In Sicilia, per secoli, sin dall’occupazione romana della Palestina vi furono colonie di profughi; nella mite Girgenti gli ebrei convivevani pacificamente con gli arabi, con i cristiani. 

Cominciarono ad andare sottoposti alle restrizioni politiche e fiscali, applicate con vessatorio raziocinio dai dominanti, quantunque in Girgenti il quartiere ebraico (estesissimo) non fosse ancora un vero e proprio ghetto; nel quale, anzi medici famosi e savi mercanti lavoravano a favore della comunità locale sino al punto di mantenere una “università” – mediterranea – non discriminatoria. 

Poiché si trattava di casta non completamente chiusa, qualcosa dell’animo ebraico si trasmetteva agli altri abitanti. Come è naturale, dopo la cacciata (definitiva, e abbastanza crudele) degli ebrei dalla Sicilia, nella città di Girgenti rimase fama dei sapienti e dei grandi rabbini; persino il culto di Ester, non santa ma Ester moglie di re Assuero e nipote di Mordecai. 

Ancora oggi, qualcuno di noi dà il nome di Ester alle proprie figlie. Non è solo un gesto di fraterna egualità verso il popolo ebraico, quando non offende gli altri palestinesi; è pure, un modo spontaneo di restare nella tradizione. Dopo più di quattro secoli dalla scomparsa del quartiere giudeo, la chiesa di santa Marta e quella di san Francesco d’Assisi – sino agli infelici restauri postbellici – erano affrescate con la storia di Ester (che culmina con il purim, unica ricorrenza festosa delle popolazioni ebraiche). 

La letteratura sulle prime due domeniche di luglio, in Girgenti, è scarsa. Ma da essa, non più tanto dai ricordi, si può cogliere la ricchezza della festa di san Calogero: differente da quella che si celebra nell’Agrigento odierna. 

La chiesa del santo fu costruita fuori le mura, nel 1200. Dell’antica architettura resta una finestra occidentale, oblunga a sesto acuto; e rimane la statua del santo che, secondo Agatocle Politi, è arte gotica del XV secolo. La chiesa fu ingrandita e rifatta nel 1574 dal vescovo Giovanni Orosco de Leyva de Covarruvias, poi dal vicario capitolare Giacomo Sanfilippo; tuttora conserverebbe un’aria raccolta da chiesetta di campagna, se immancabili restauri non ne avessero rivestito l’esterno con marmi da bar. Le bolle di quei prelati sono i primi documenti sul culto reso a san Calogero. Fu costituita, allora, una confraternita di soli popolani: saio bianco, cordone nero a cinta, cappuccio nero; ai nobili era vietato farne parte. La borghesia non esisteva. 

Secondo la tradizione popolare, il santo è nero perché viene da Costantinopoli; o, genericamente, dall’Africa: riassumendo nell’Africa l’Asia Minore. Ha barba bianca e il bastone, per veneranda età È un eremita: porta l’abito dei monaci basiliani, e gli sta accanto una cerva. È dotto: reca un libro. Medico: lo si vede dalla cassetta delle erbe; taumaturgo, anche in vita. Il nome – greco, letteralmente ‘bel vecchio’ – significa padre venerando, eremita. Il suo culto è antecedente a quello ecclesiastico, più volte contrastato anche in epoca a noi vicina. 

Il santo è adorato pure a Naro, a Canicattì porto Empedocle, a Sciacca, Salemi, Corleone, Palermo, Termini Imerese, San Filippo di Fragalà o come ora si chiama, Agnone in Sicilia (altro nome disperso), Lipari, Racalmuto; ma si tratta di diversi santi, onorati sotto lo stesso nome. 

E, chi sa come, San Calogero è una collina di vigne in provincia di Cuneo: a Govone; richiesto di notizie meglio precise, il sindaco spiega il 29 novembre 1976: «dopo aver provveduto ad effettuare apposite informazioni presso Parroco, insegnanti, ecc. che nel territorio di questo Comune esiste un pilone intestato a “San Calogero”. / La località ove è situato detto pilone viene denominata San Calogero. / Il pilone si trova fuori dal centro abitato in aperta campagna ed a distanza di circa 1500 metri esiste un cascinale che viene denominato “Cascina di San Calogero”. / Il piccolo pilone risale a data remota. / Il Parroco ha riferito, per averlo sentito dire, che il Santo durante la sua vita passò da Govone come pure dimorò nella città di Asti distante da Govone circa Km. 18». Si sa che i nostri berberi erano giunti in Liguria e in Piemonte, non pareva che li avessero seguiti i monaci ortodossi. Ma, ad Albenga, suore clarisse hanno il ‘Monastero di San Calogero’. Questa circostanza rafforza il convincimento che davvero i calogeri affiorino, come una germinazione sostitutiva però analoga, nei luoghi in cui siano stati dei marabut. 

Secondo la tradizione, i calogeri erano sette fratelli che occupavano altrettanti sedi diverse; fratelli di sangue, o di congregazione; e sette, nella Càala, è numero infinito. Le grotte del santo girgentano erano probabilmente situate nell spiazzo antistante la chiesa, nella parete rocciosa ora occupata da un palazzotto; è più probabile che il santuario sia stato costruito proprio dov’era la grotta principale, poiché esso sta sopra un groviglio di vani incavati nella roccia. Questi potevano costituire un eremo arcaico; cui si sovrappose l’eremo medievale, formato con l’edificio a oriente della chiesa da tempo usata come abitazione. 

Nella circostanziata tesi del sacerdote Salvatore La Rocca, storico eccellente ed ignoto, si tratterebbe di un culto bizantino dedicato a monaci basiliani guaritori. Un culto simile a quello dei marabut, dei santoni arabi – anche quelli, medici dell’anima e del corpo – venerati e amati in vita, e in morte, nei loro paesi tuttora. Non è probabile, ritengo, si sia definita con un solo nome (Calogero, come Marabut) l’attività di quanti si dedicavano a quel tipo di opere: i monaci basiliani guaritori abbiano risposto, dunque, alle aspettative della popolazione abituata ai marabut; e quindi si venera l’idea del monaco, del santone, e non di un particolare eremita. 

Questo fatto, insieme ad altri motivi, fa chiare le ragioni della resistenza – più volte acuminata – della chiesa latina a vedersi imporre, dal popolo, un santo che ha una consistenza spirituale sostanzialmente avversa a quello per cui la stessa chiesa latina ha lottato: qui, addirittura con le armi. Ciò vale, e sono questi gli altri motivi, almeno per i riflessi dell’epoca in cui la chiesa latina si trovava in lotta armata contro quella greca; e per la commistura, panica, di elementi derivati dai riti solari (arcaici ed ellenici) e dalle abitudini arabe che stanno tra l’utilitarismo e il misticismo. 

Rimangono della vecchia festa una tumultuosa processione, ricche offerte di doni; il molteplice rullo dei tamburi: la diana; la variopinta fiaccolata, il lancio dei pani sul santo durante la processione. San Calò è il protettore dell’agricoltura. Il suo mese è quello che va dalla prima domenica di giugno alla prima di luglio: il tempo della mietitura e della trebbia, durante le quali è invocato e pregato; la processione della prima domenica di luglio è ripetuta la seconda domenica, a “l’ottava”. A san Calò si fanno i “viaggi” a piedi scalzi; le offerte in denaro, in candele, forme di pane fine: a riproduzione di qualunque parte del corpo sia stata miracolata; ex voto dipinti su tavola, da qualche tempo fotomontaggi. 

Le preghiere non hanno formule fisse; sono spontanee ed entusiastiche. Il santo è amato dai contadini come un parente stretto, benefico, tenuto in casa. 

Il suono dei tamburi – qualcuno ha pensato riproducesse ritmi della prosodia greca – è un intero concerto dalle caratteristiche arabe, poco variato, che si conduce dal venerdi sino alla definitiva chiusura della festa. La mattina della prima domenica (“San Calò dei forestieri”) inizia con le grida. Si porta il frumento, alla chiesa, con la mula “parata”; tutta la mula è adorna di nappe, sonagli e nastri, riluce di specchietti, e le bisacce sono coperte con gualdrappe di seta dai vivaci colori villerecci. Seguono i carretti, anch’essi parati. 

Finita la messa solenne, i contadini si lanciano sull’altare, e calano giù il santo – che aspetta appoggiato al bastone, libro in mano e la cassetta delle erbe medicinali che gli pende dal polso – quieto nella grande serenità dei suoi occhi e della barba fluente. Resta il fervore contadino, diminuito nell’estensione man mano che la classe contadina si assottigli. 

Quando il simulacro compare nello spiazzo, la folla esplode in acclamazioni; e il santo è baciato, lisciato coi fazzoletti che saranno imposti ai malati, implorato con pianti sinceri e con lamenti. Il male che più guarisce, poiché questo è il momento dei miracoli, è l’ernia dei bimbi. Senza sacerdoti (forse in collegamento col divieto a suo tempo opposto ai nobili di fare parte della confraternita) la processione avanza nella città con numerose fermate, ondeggiando, battendo la bara – nella foga – sui muri delle case, fra strepiti ed evviva, fra gli spari dei mortaretti e la musica, e la diana, sotto la pioggia dei pani e la gara della gente per accaparrarsene. 

Il lancio dei pani è da riconnettere alla raccolta di vettovaglie fatta dal Calogero, cioè dagli eremiti, durante una pestilenza: sicché il pane non veniva porto, ma lanciato. Poi il simulacro giunge all’Addolorata, nell’altra parte della città e vi rimane cinque ore guardato dalle donne e dai ragazzi. Gente prezzolata – e così all’ottava – lo riporterà nel suo eremo, e i portatori della mattina (i “devoti”) faranno da spettatori. Ma il santo rimane fra la sua gente e starà molto tempo, avanti e indietro sulla soglia, prima di tornare in chiesa; avvolto nel suo manto decorato con un gran numero di stelle di Davide, ripetuto simbolo – s’intende – della sapienza: nessun riferimento ai successivi Calòpugliesi, hasidici kalonymos. 

Senza dubbio, i monaci basiliani svolgono un’intensa attività in favore delle popolazioni locali; tanto da essere considerati tuttora, attraverso il Calogero, al di sopra di qualunque altra protezione e di qualsiasi altra entità da venerare. Molto, però dei riti si è perduto. Si facevano salire sulla bara i medici affinché sottoponessero alla pressione dell’ernia i bambini, cui un sacerdote imponeva la stola, sotto gli occhi del santo. A volte i bimbi, monachelli di san Calò, venivano spogliati in pubblico del saio che avevano indossato per devozione. 

Da tempo, e fortunatamente, sono scomparsi i “viaggi” con la lingua per terra (dalla soglia della chiesa sino all’altare) per ringraziamento. Si facevano ex voto d’argento o di cera, oltre quelli dipinti. Due giorni prima della domenica – il venerdi della cera – ragazzi portavano in testa canestri di candele ornati di foglie, preceduti dalla diana e seguiti da gente festosa. 

Per qualche tempo una vecchia barca, pavesata di festoni e di fiaccole, fu trascinata dai buoi avanti la chiesa e lì lasciata bruciare nel tripudio della folla: per simboleggiare un arrivo senza ritorno. La processione iniziava con il portatore della cerva accovacciata; spesso gridava l’annunzio: “Il santo delle grazie, devoti”, “Viva viva Sancalò”. Ma l’arte della diana va deperendo, poiché vi si dedicano gruppi sempre più sparuti (fatto che non sembra diverso da quello che riguarda i suonatori di tamburo di Casteltermini). 

Esiste, dunque, un problema di conservazione; che non può essere risolto, alla maniera romantica ottocentesca, in modo semplicemente iconografico: in una staticità museografica. La soluzione – peraltro non nuova – è quella di una conservazione dinamica, revivificante. Non certo nel senso di fingere, oggi, una tradizione estinta: mediante rappresentazioni da teatro gelido. Nel senso, invece, di uno studio accurato (demopsicologico, sociologico, storiografico) di queste tradizioni perdute. 

Una collezione – in costante arricchimento – di documenti, di pitture e di stampe; l’esegesi e il commento dei testi; l’insegnamento del tamburo e del modellamento delle figure del santo (in terracotta e in cartapesta): nella serie di istituti di specializzazione – anche postuniversitaria, a carattere mediterraneo – che potrebbero essere collocati nelle ville ottocentesche della valle dei templi (forse, meglio, nell’eventuale parco archeologico della valle dei templi). Intanto, alla festa calogerina, Sergio Campailla ha elevato un monumento: Il paradiso terrestre [ed. Rusconi], 1988, romanzo che potrebbe assumere il ruolo attribuito a I promessi sposi nel secolo scorso. 

Antonino Cremona

* Nel giugno 1992 Antonino Cremona ci inviava un plico contenente parecchi inediti, e scriveva: «Forse ho dato fondo agli inediti. Vedano, un po’, Loro. Mi avverta circa quanto non sarà pubblicato». 
Una breve lettera, quasi un saluto di commiato, presagendo la sua scomparsa che sarebbe avvenuta nel 2004. Così noi continuiamo a 
pubblicare quegli scritti, ricordando lo scrittore che fu anche un validissimo poeta e ripromettendoci di leggerlo e dedicargli successivamente qualche nostro scritto. 
Intanto, finora, di lui “Spiragli” ha pubblicato: 

•Giustizia e decentramento 
•L’espressione e l’abitante 
•Walter Grillenberger: il viaggio e la foresta 
•Premessa a un discorso su Quasimodo a cinquant’anni dal «Premio Nobel». 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 41-46.




 Intellettuali e impegno politico 

Il tema del rapporto tra intellettuali ed impegno politico è un tema antichissimo che riguarda aspetti importanti: il rapporto fra teoria e prassi, fra cultura e politica, fra il dominio delle idee e il puro dominio etc. Tutte le volte che viene in discussione quale sia il compito degli intellettuali nella società, con tutti i problemi connessi, fra i quali occupa un posto importante se essi costituiscano un ceto o una classe, se abbiano una loro funzione specifica e quale essa sia, molti introducono il discorso sulla divisione fra lavoro manuale e intellettuale, sulla progressiva estensione del secondo rispetto al primo, sulla disoccupazione intellettuale. 

Ha fatto notare il filosofo Norberto Bobbio (Voce “intellettuali” in Enciclopedia del Novecento, Istituto dell’enciclopedia Treccani, Roma 1978), che ciò che caratterizza l’intellettuale non è tanto il tipo di lavoro quanto la funzione: un operaio che svolga anche opera di propaganda sindacale o politica può essere considerato un intellettuale , per lo meno i problemi etici e conoscitivi del suo impegno sindacale e politico sono quelli stessi che caratterizzano il ruolo dell’intellettuale: qual è l’incidenza delle idee sulle azioni? È lecito distorcere i fatti per raggiungere uno scopo pratico? Come si colloca la sua attività nell’ambito del potere costituito o costituendo? 

È necessario, dunque, definire la categoria in modo non tanto larga da comprendere tutti i lavoratori non manuali, non tanto stretta da comprendere soltanto i protagonisti (Platone,Cicerone, Erasmo, Machiavelli, Kant, Kierkegaard o Nietzsche, Lenin o Gramsci.) Su questa base si possono operare delle distinzioni. La distinzione più ovvia è quella che si rifa al criterio delle “due culture”: da un lato gli umanisti, i letterati, gli storici, dall’ altra gli scienziati. Ricorre frequentemente anche la distinzione fra intellettuali creativi o innovativi e quelli ricettivi o ripetitivi. Altra opportuna distinzione è quella tra “ideologi” ed “esperti” che corrisponde alla distinzione tra intellettuali-filosofi e intellettuali-tecnici. “Ideologi” sono da intendere coloro che forniscono idee-guida, per “esperti” coloro che forniscono conoscenze mezzo. Gli ideologi sono coloro che elaborano principi in base ai quali un’azione si dice razionale; gli esperti sono coloro che suggerendo le conoscenze più adatte per raggiungere un determinato fine fanno sì che l’azione vi si conforma possa essere razionale secondo lo scopo. 

Ogni società in ogni epoca, come vedremo pur rapidamente più avanti, ha avuto i suoi intellettuali, o più precisamente un gruppo più o meno esteso di individui che esercitano il potere spirituale o ideologico contrapposto al potere temporale o politico, un gruppo cioè di individui che corrispondono per la funzione che svolgono a coloro che oggi chiamiamo intellettuali. Ma per quanto ogni società in ogni epoca abbia nel suo seno i rappresentanti di quel potere che a differenza del potere economico si esercita con la parola, e più in generale attraverso segni e simboli, oggi, quando si parla di intellettuali, ci si riferisce a un fenomeno caratteristico del mondo moderno. 

Non si può dissociare il significato di “intellettuale” dal significato di “intelletto” e “intelligenza”, e quindi dall’uso prevalente di operazioni mentali e di strumenti di ricerca che hanno un qualche rapporto con lo sviluppo della scienza. 

Il precedente più convincente degli intellettuali di oggi sono i philosophes del Settecento, ma occorre aggiungere che l’aumento di coloro che vivono non soltanto per le idee ma anche di idee, è dovuto alla stampa e alla facilità con cui i messaggi trasmissibili attraverso la parola possono essere moltiplicati e diffusi. 

La Riforma, le guerre religiose, la rivoluzione inglese, quella americana e francese, scatenano la produzione e la diffusione di una miriade di scritti che nelle età precedenti sarebbe stato impossibile immaginare. Nelle città greche la forza delle idee si rivelava attraverso la parola: la figura tipica dell’ intellettuale era l’oratore, il retore, in senso spregiativo il demagogo. Dopo l’invenzione della stampa la figura tipica del l’ intellettuale è lo scrittore, l’autore di libri, libelli, e poi di articoli su riviste e giornali. 

Per Kant l’illuminismo è strettamente connesso all’ “uso pubblico della ragione” sviluppato attraverso l’impegni degli intellettuali. Attraverso l’ uso della radio e della televisione si è allargato enormemente lo spazio e l’ influenza della parola e delle comunicazioni di massa. 

La caratteristica fondamentale del moderno ceto degli intellettuali è stata la formazione di una sempre più vasta opinione pubblica. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con l’affermarsi di quella che è stata definita, in modo piuttosto impreciso, “società dell’informazione” la stessa attività lavorativa diventa sempre più intellettuale. 

Il contesto storico-politico ha da sempre condizionato la considerazione che del proprio ruolo avevano l’intellettuale e l’artista, indirizzandola di volta in volta nel senso dell’impegno o del disimpegno, più o meno marcati che fossero. ‘L’arte per 1’arte’ o ‘l’arte per la vita’ sono formule che riflettono due maniere antitetiche di considerare prerogative e finalità dell’ atto artistico, che, in ultima analisi, scaturiscono dalle effettive condizioni della società in cui vive l’intellettuale che se ne fa portatore. 

La produzione ermetica di Quasimodo, ad esempio, non si può comprendere appieno se si prescinde dal clima culturale degli anni ’30, nel quale il poeta opera; allo stesso modo la valutazione della produzione letteraria e cinematografica neorealista non può non tenere in considerazione il tormentato clima della guerra partigiana, prima, dell’immediato dopoguerra, poi, che la alimenta e, se così si può dire, la provoca. 

Da questo punto di vista, è altamente emblematica la variazione delle prerogative dell’ intellettuale nella Grecia antica, in ordine ai mutamenti politico-istituzionali intervenuti nel corso dei secoli all’interno della società ellenica, col passaggio dalle libere poleis ai regni ellenistici. Ad Atene, nel V secolo, dove la gestione dello Stato implicava la partecipazione del singolo cittadino alla cosa pubblica, rendendo ogni ateniese zoon politikon, la dimensione politica era connaturata all’attività dell’intellettuale. Il disimpegno, in tale contesto, è inconcepibile. Si pensi alla più grande creazione artistica della polis, il teatro, ed alla fondamentale valenza politica che il dramma aveva nel contesto comunitario, sintesi di performance, assemblea e rito. 

Dopo la sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso e la fase ad essa seguita – con la dittatura, prima, dei cosiddetti ‘trenta tiranni’; poi, con l’ instaurazione di un regime democratico che condannò a morte l’uomo ‘più giusto’, Socrate – gli intellettuali iniziano ad interrogarsi sulle ragioni profonde della crisi della polis, cercando di proporne delle soluzioni etiche e politiche assieme. È indirizzata in tal senso la riflessione filosofica del più grande pensatore greco dell’antichità, Platone, il fondamento politico della cui speculazione filosofica è noto a tutti. Egli stesso ce ne parla nella famosa VII lettera, da lui scritta in età avanzata, nella quale, in ultima analisi, auspica l’avvento di una società di filosofi al potere. 

Nato in una famiglia aristocratica, da giovane Platone pensa di darsi alla politica attiva, guardando con speranza al regime oligarchico dei Trenta Tiranni, 

instauratosi nel 404 a. C., di cui fanno parte alcuni suoi parenti e conoscenti. Ma il futuro filosofo rimane fortemente deluso dagli eccessi di quel regime, come, in seguito, anche dall’ esperienza democratica di Trasibulo, ad esso seguita, che nel 339 condanna a morte il suo maestro, Socrate. È soprattutto tale drammatico evento ad indurre Platone a ritirarsi dalla politica attiva ed a convincerlo sempre di più della necessità di una riforma della politica a partire da una rifondazione del sapere. 

Solo la filosofia può rappresentare il punto di riferimento fondamentale del filosofo. Solo in virtù della vera filosofia, infatti, è possibile vedere tutto ciò che è giusto sia nell’attività pubblica sia in quella privata. E perciò le generazioni umane non si sarebbero affrancate dai mali, prima che gli autentici e veri filosofi non fossero giunti ai vertici del potere politico, oppure i potenti non si fossero messi a filosofare veramente. Si può dunque dire che Platone considera il ruolo dell ‘ intellettuale come fondato sull’impegno. 

Tale impegno viene decisamente meno in età ellenistica con il mutare delle condizioni politiche. Le poleis elleniche perdono l’indipendenza ed entrano a far parte, prima, del regno macedone di Filippo, poi, dell’ impero universale di Alessandro, infine, dei regni ellenistici dei diadochi. In un contesto politico in cui le decisioni sono appannaggio esclusivo del monarca, all’individuo non è più data la possibilità di condividere le scelte comuni: il cittadino si è trasformato in suddito. Conseguentemente, anche l’opzione obbligata dell’ intellettuale diventa quella del disimpegno. 

Esemplare in tal senso la figura di Callimaco, il poeta ufficiale di corte della dinastia dei Tolomei ad Alessandria – città diventata, fra l’altro, il centro culturale più importante del mondo ellenistico – dapprima sotto il Filadelfo, poi sotto l’Evergete. Callimaco non si rivolge più alla collettività, ma ad una cerchia ristretta di individui che condividono con il poeta conoscenze ed interessi. E, del resto, in tal senso va anche la diffusione della fruizione scritta dell’ atto letterario a scapito di quella orale. Bruno Snell definisce Callimaco e gli altri poeti suoi contemporanei, ‘post-filosofici’, poiché “non credono più nella possibilità di dominare teoricamente il mondo” e, allontanandosi dall’universale, “si rivolgono con amore al particolare”. Nel prologo alla seconda edizione degli Aitia così esorta il lettore: “Giudica la mia sapienza secondo l’arte e non col metro persiano”. Risultano ancora illuminanti le parole di Snell: “(Callimaco) non cerca altra misura dell’arte che non sia l’arte stessa. Tutte le composizioni poetiche precedenti avevano un significato che trascendeva la poesia, e anche quando la poesia perdette col tempo la sua funzione sociale i poeti si preoccuparono di cogliere significati nuovi e oggetti vi, […] mentre Callimaco giudica l’arte soltanto secondo il suo valore artistico. Con ciò egli si rivolge a un nuovo e particolare pubblico. La tragedia attica parlava ancora all’intero popolo, ora invece una ristretta cerchia di persone colte era chiamata a esprimere il suo giudizio.” 

Anche a Roma, come in Grecia, i mutamenti politico-istituzionali condizionano 

fortemente prerogative, ruoli e funzioni della figura dell’intellettuale, sui quali, però, influisce anche lo status sociale di appartenenza. Infatti in questa sede non facciamo riferimento certamente ai primi scrittori in lingua latina, che non erano non soltanto espressione della classe dominante, ma neppure cittadini romani, e non partecipavano dunque alla res publica, ma a quegli intellettuali che appartenevano alla classe di cives che detenevano il potere politico all’interno dello Stato. Si pensi a Cicerone o a Sallustio, fra gli altri. 

Per tutta l’età repubblicana la personalità del civis viene giudicata sulla base 

dell’ impegno politico e l’ otium è concepito soltanto come tempo libero dal negotium. Cicerone è uomo politico, prima di essere scrittore, anche se soprattutto 

scrittore di cose politiche. L’evento che più d’ogni altro contribuisce a modificare l’impegno dell’intellettuale è, senz’altro, il passaggio istituzionale dalla Repubblica al Principato. Con il regime inaugurato da Augusto, infatti, lo spazio di azione politica che al civis viene lasciato è senz’altro poco rilevante rispetto a quello gestito dalla corte imperiale. L’azione dell’intellettuale non può più essere propositiva, ma solo consultiva. Il suo luogo d’azione non è più il foro, ma la corte. Il suo più grande merito politico può essere, tutt’ al più, la formazione di un princeps illuminato. 

Sull’importanza decisiva di questo cambiamento istituzionale si sofferma Tacito nel prologo delle Historiae, quando afferma che dopo la battaglia di Azio, e dunque quando il potere si concentrò nelle mani di uno solo, magna ingenia cessere. In questo passo Tacito si riferisce, in particolare, alla crisi della storiografia, che sfocia nella corruzione, nell’adulazione, nell’invidia e nel servilismo di chi, persa definitivamente la possibilità di incidere nella gestione della cosa pubblica, diventa un vero e proprio suddito, che riceve ordini dall ‘alto e sconosce i reali problemi dello Stato. Ma identica è la causa della crisi della retorica, secondo Materno, portavoce del pensiero tacitiano nel Dialogus de oratoribus. Per attecchire, l’eloquenza ha bisogno di un clima politico arroventato, in cui ci sia spazio per le sedizioni, per la sfrenatezza popolare, per i conflitti fra i partiti. Essa è, cioè, alumna licentiae, quam stulti libertatem vocant. Per questo, secondo Materno-Tacito, l’eloquenza ha avuto un enorme successo durante l’età delle guerre civili, mentre il principato, eliminando tutto ciò, ne ha indirettamente impedito lo sviluppo. A conti fatti, secondo lo storico, tutto ciò non è un gran male, in quanto il principato, negando l’abuso della libertas, ha assicurato la pace sociale. 

Il percorso intellettuale di Seneca dall’impegno al disimpegno è particolarmente indicativo dell’incidenza decisiva che la realtà effettuale ha sulle scelte del singolo. Posto che, per lui, l’impegno politico di un filosofo si può estrinsecare, solo indirettamente, nell’opera di educazione e formazione del princeps illuminato, vero ed unico garante dell ‘ordine e della concordia dello Stato – come viene sostenuto nel De clementia e messo in pratica nei primi cinque anni del principato neroniano – l’opzione per la vita attiva, fatta nel De tranquillitate animi, viene superata nel De otio in favore di quella contemplativa, solo nel momento in cui l’influenza di Seneca sulle scelte politiche di Nerone viene meno, mentre si accentuano gli aspetti di spotici ed autoritari del regime. 

Con l’affermazione dell’intellettuale rivoluzionario contro il potere costituito in nome di una classe e per la instaurazione di una nuova società, e con l’affermazione dell’intellettuale puro che lotta contro il potere in quanto tale in none della verità e della giustizia, venivano proposti i due temi fondamentali del ruolo dell’intellettuale nella società che spesso saranno in contrasto fra loro e rappresenteranno i due poli del dibattito insoluto che giunge sino ai nostri tempi. Entrambi l’intellettuale rivoluzionario e l’intellettuale puro, hanno in comune la coscienza dell’importanza del proprio ruolo nella società e della propria missione nella storia onde si potrebbe parlare – e si parla spesso a ragion veduta dell’eterno illuminismo degli intellettuali: per il primo vale il principio che non si fa rivoluzione senza una teoria rivoluzionaria che di conseguenza la rivoluzione deve avvenire prima nelle idee prima che nei fatti; per il secondo, il principio che la ragion di Stato, la ragion di partito, di nazione o anche di classe, non deve mai 

prevalere sulle ragioni imprescrittibili della verità e della giustizia. 

Il sociologo tedesco Max Weber fu rigorosamente contrario alla contaminazione fra l’opera dello scienziato (Fine Ottocento-primi del Novecento) e quella del politico e del moralista. Per Weber l’unica impresa umana che doveva guidare la ragione era la scienza. Nel 1918 Weber in una celebre conferenza esaltava la scienza come professione e come vocazione, l’intima dedizione al lavoro dello scienziato e dell’insegnamento universitario che è certamente indicato per i profeti e i demagoghi. 

Anche l’italiano Antonio Gramsci elabora una sociologia degli intellettuali nei Quaderni del carcere scritti durante la detenzione fascista. La tesi dell’intellettuale organico è la risposta critica alla tesi dell’intellettuale indipendente. Se ogni classe ha i suoi intellettuali organici, anche la nuova classe avrà o dovrà avere i suoi intellettuali organici, ma saranno diversi da quelli tradizionali: l’intellettuale tradizionale è l’umanista, illetterato, l’oratore, il cui modo d’essere essenziale è l’eloquenza; il nuovo intellettuale, invece sarà insieme specialista (o tecnico) e politico (Gramsci usa la formula specialista + politico = dirigente). Questi in quanto politico non può trovare altra sede per l’esercizio della sua specialità che il partito, cui incombe in primo luogo, come partito della classe operaia, il compito della riforma morale e intellettuale della società. 

Che la rivoluzione dovesse essere guidata da uomini illuminati era un’idea che veniva da lontano. 

Già Marx, in un articolo giovanile, aveva enunciato le sue celebri tesi che “la teoria diventa potenza materiale non appena si impadronisce delle masse”, che “la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali così come il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali”. 

L’intellettuale politico e l’intellettuale puro rappresentano due modelli positivi, anche se spesso l’uno è negativo per l’altro. Esiste un contrasto che può essere di volta in volta composto, mai definitivamente superato. E sino a che il contrasto esisterà, si continuerà a discutere del problema degli intellettuali. 

Salvatore Costantino




 Calogero Messina, storico dell’anima siciliana, recupera «La Plebe» di Lorenzo Panepinto. 

In giro per la Sicilia con «La Plebe» (1902-1905). Un giornale dell’agrigentino introvabile. Herbita editrice, Palermo, 1985, pagg. 390. 

Dobbiamo alla tenace passione e all’acume di ricerca di Calogero Messina se a distanza di oltre ottanta anni non sono andate definitivamente perdute le annate del periodico fondato e diretto da Lorenzo Panepinto e se ancora possono essere consultate dagli studiosi del movimento contadino e delle origini del socialismo siciliano. 

Il curatore del volume, infatti, ha piena consapevolezza che la sua fatica non è soltanto un contributo alla tutela della memoria storica ma anche un apporto non irrilevante alla migliore comprensione dell’operato politico del suo illustre concittadino. Avere raccolto e pubblicato la «Plebe» è certamente un’impresa meritoria che fa onore a chi vi ha dedicato tante energie perché, in questo modo, è stato sottratto ai guasti del tempo e all’offesa della dimenticanza un cospicuo materiale documentario che appartiene a pieno titolo al più interessante patrimonio della storia della Sicilia contemporanea. 

La «Plebe» è un giornale dell’agrigentino: un giornale introvabile, come esattamente sottolinea Calogero Messina, quasi perduto nei labirinti di un ricordo che andavano pazientemente frugati, diligentemente investigati, e lucidamente rischiarati. Questo giornale irreperibile, aggiungiamo noi che da tempo sollecitammo l’amico e collega ad intraprendere siffatto lavoro, è stato quasi gelosamente custodito tra gli affetti più intimi di un popolo, considerato e preservato come un bene prezioso. 

La storia di questo giornale, quindi, non si circoscrive al pur breve ma intenso triennio della sua vita, ma è anche la storia del suo silenzio, della sua seconda venuta alla luce in una cornice di senso di padroneggiamento del tempo ritrovato. Artefice di questa operazione, Messina ha per un verso squarciato il velo d’oblio che il tempo impietosamente stendeva sulle pagine ingiallite della «Plebe», per altro verso ci fa guadagnare una dimensione cronologica che sembrava remota alla nostra sensibilità attuale. 

La sua ricerca di un giornale introvabile ha perciò lo stesso valore di una ricerca del tempo ritrovato, tant’è che appaiono assai commoventi la cura, la dedizione, la speranza e l’inevitabile delusione da cui è stato sorretto ed in cui si è dibattuto. «È stato un lavoro di una ventina d’anni – ci rammenta l’autore -. In quante biblioteche, in quanti archivi, in quante case abbandonate e abitate l’ho ricercato! Quanti libri ho sfogliato, con quante persone ne ho parlato! Più l’esito è stato deludente, più mi sono accanito nel mio impegno (mi capita spesso!), soprattutto dopo che sono riuscito a leggere qualche pagina della «Plebe». Pareva che fosse già stata condannata alla dimenticanza. Nemmeno una notizia nei lavori dei cosiddetti specialisti». 

Invece la «Plebe» è una fonte storiografica importantissima: attraverso i suoi fogli scopriamo una realtà sociale e politica ricca di fermenti, dominata dal bisogno, ansiosa di rinnovamento. Ne emerge un quadro nitido delle contraddizioni oggettive in cui si muovono i protagonisti dell’epoca e dell’articolazione dei rapporti sociali sul territorio. Pur essendo un giornale di provincia, la «Plebe» non è mai un angusto giornale provinciale dal momento che riesce sempre a coniugare il localismo con un progetto di formazione politica di più ampio respiro. In tal senso 1’ideale socia1isteggiante prospetta un punto di riferimento che può conferire una suggestione di coesione a quelle masse di diseredati e di proletariato rurale cui si rivolge il giornale quasi programmaticamente nella sua significativa intestazione. 

Gli emarginati del latifondo, che sono appunto la nuova plebe siciliana, trovano nel periodico di Panepinto un moderno mezzo di diffusione delle loro istanze ed un efficace mezzo di informazione della loro condizione presso l’opinione pubblica. Grazie alla «Plebe» essi stessi diventano opinione pubblica e perciò in qualche modo voce che fa sentire il proprio parere e la propria presa di posizione ora sui patti agrari, ora sulle scelte dei candidati alle elezioni, ora sui problemi dell’economia mineraria, ora sulle questioni dell’istruzione pubblica. 

Il giornale è moderno nella sua impostazione: vuol essere una palestra di dibattito per tutti i socialisti dell’area bivonese, ma anche un raccordo con il socialismo siciliano e quello nazionale. Per questo motivo si dà ampio spazio alla polemica, ma soprattutto alle conquiste salariali ed ai progressi effettuati sul piano dell’organizzazione delle leghe e delle cooperative di mutuo soccorso, di produzione e di consumo. I testi delle risoluzioni adottate dal movimento contadino nei convegni tenutisi in quegli anni sono pubblicati con grande rilievo e costituiscono oggi, per gli addetti ai lavori, documentazione essenziale per la comprensione delle alterne fortune del socialismo siciliano. 

Accanto a questa ispirazione squisitamente politica non va sottaciuta l’esigenza che Panepinto avvertì sempre in maniera consapevole di un più vasto coordinamento con gruppi e luoghi affini per problemi e situazioni. 

È interessante notare come la «Plebe» si avvalse di una fitta rete di corrispondenti di ogni centro dell’Isola e come mantenne vivo un flusso di notizie tra le due sponde dell’Atlantico abitate da cittadini stefanesi. La lotta per l’esistenza, ci mostra la «Plebe», è la stessa sia in terra di Sicilia sia a Tampa negli Stati Uniti. Sotto questo punto di vista il giornale di Panepinto fu una fiaccola di sentimenti comuni tra chi restava e chi emigrava e contribuì potentemente a mantenere vive le radici di italianità e quelle più autenticamente popolari della nostra gente. 

Calogero Messina, che è storico tra i più attenti dell’anima del nostro popolo, ha reso pubblico, con la collaborazione di un editore illuminato, il testamento spirituale di Lorenzo Panepinto, la cui piena fruibilità non può che essere di incitamento per nuovi studi. 

Manlio Corselli 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 59-61.




 Vestida de luz 

a Raquel Naveira.

Minha mulher 
quando se desnuda 
para mim se veste 
com a luz dos meus olhos. 

Vestita di Luce

Per me
quando si sveste la mia donna
si veste con la luce dei miei occhi

Juareis Correya

da «Literatura Brasileira» n. 40, 2005, São Paulo 
traduzione di Salvator d’Anna, da «Literatura Brasileira» n. 40, 2005, San Paulo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 18-21.




 AL TERZO MILLENNIO 

Siamo i giovani padri creatori 

d’un migliore avvenire, 

un tempo nuovo. 

E creiamo con imperfette mani 

ciò che nessuna 

generazione seppe mai creare 

tra terra e cielo. 

Coi nostri scampoli di umanità 

creiamo ciò che mai 

s’era a memoria d’uomo registrato 

ed ogni dio ci invidia: noi sappiamo 

da una vita finita 

con l’amore far nascere il domani, 

la nostra eternità. 

Juareyz Correya 

da “Spiragli”, 2008, n. 2 – Antologia 




 Sulle rovine e le tracce di un sogno interrotto. La malinconia e la nostalgia del non essere  

Se un uomo non si contraddice mai è certamente perché non dice mai nulla di nuovo.

M. De UnamunoQuello che vi si presenta come naturale, non consideratelo tale.C.MarxSe ciò che si presenta non è naturale, ma è divenuto, siamo un po’ più liberi. G. Vattimo

l. Il textum e la processualità del senso

Se ciò che è naturale e storico è divenuto nella sua potenziale pluralità, allorac’è anche una contraddizione non-contraddittoria, il delirio con-tingente del textumdella vita e delle cose che il sapere, servendosi della pluralità dei linguaggi e delle logiche, itinerandosi, ha cercato di interrogare, rendere, costruire e ricostruire come pubblica rete di relazioni materiali e storiche.

E su questi sentieri e il loro sviluppo processuale che poesia, filosofia e scienza,unite-separate, si sono incontrate-scontrate utilizzando logiche e strumenti comuni-diversi ora strizzandosi l’occhio e ora tendendosi le mani per allontanarsi-avvicinarsi.

È come se, parafrasando Ernest Bloch, la malinconia della realizzazione,schizzando tra attesa gioiosa e doloroso esilio, alimentasse la nostalgia del non- essere-ancora e il ri-avviarsi senza sosta del soggetto. È una nostalgia, infatti, che riprende il suo naturale cammino di dialogo dialettico senza fine nel campo del testosemiotico e simbolico concreto, di cui la poesia, con il suo intreccio configurativo,rappresenta l’evento virtuale più significativo per il suo essere peculiare e complessasimulazione.

La metafora del texttra gli altri strumenti retorici, ci sembra, del resto, l’analogiapiù idonea per parlare della eterologia delle cose che si mescolano in un testo o in untesto poetico. Qui, infatti, rimanendo pluralità complessa, equilibrio dinamico e aperto,si uniscono quanto si dividono cose di livelli diversi: i simboli e i suoni, la ricerca ela costruzione di senso, la spazialità e il kairs del ritmo e dell’aritmia, ecc. Miscela di “n” variabili, simulazione di quell’intreccio più vasto e reale che è l’essere-possibilitàstesso delle cose nel divenire del loro spazio-tempo, curvato dalla materia-movimento e dalla storia, ci sembra, allora, che anche il kairs, il luogo-tempo proprizio che rapporta debitamente e relaziona le parti di un testo poetico, possa essere trattato comeun text. Il kairs è, infatti, un textum, un intreccio dinamico che miscela debitamente, sebbene in un equilibrio precario e impermanente, le varie parti del tempocome una tempera e un taglio di liquidi o una metaxi che transita hermeticamentel’accordo degli elementi vari di un sistema relazionandoli in un equilibrio mobile e processuale. “Lungi dal risolversi nel significato di <momento istantaneo> o <occasione> – secondo una tipica recezione protomodema del termine – kairs viene così a designare, al pari di tempus, una figura oltremodo complessa della temporalità: figura che rinvia alla <qualità dell’accordo> e della mescolanza opportuna di elementi diversi – esatta- mente come il tempo atmosferico. Nella sua versione spaziale, d’altronde, la stessaparola sta ad indicare i luoghi propri, le parti vitali di un organismo in forma, ossia equilibrato e temperato nelle sue componenti”.l

Tra gli strumenti utilizzati dal sapere, si pensa particolarmente a quelli della dialettica retorica come la levis immutatio, la metonimia, la sinedoche, l’ellissi, l’analogia, l’ironia, ecc. Sono gli strumenti che modificando le parole, la sintassi, la semantica e la pragmatica del tessuto comunicativo diventano chiavi di letturae di conoscenza delle cose.

Di questi altri strumenti, il poeta si serve, per esempio, quando decide dicostruire un certo mondo possibile e un certo modo d’essere per continuare a dialogare con gli altri e l’essere stesso del mondo complesso e molteplice.

L’essere, diceva Aristotele, è potenzialità e si dice in molti modi; l’essere è pluralee non unico, identico e immutabile.

L’essere è una rete di relazioni materiali e storiche dove linearità e circolaritàs’intrecciano e snodano fenomeni ed eventi che si raccolgono e strutturano nelle varie forme del sapere anche attraverso le tracce che l’essere-possibilità lascia sparseun po’ dovunque sul terreno della storia.

Oggi, sembra, sia necessario e urgente, rimettere in rete queste tracce e ritrovare/ riscoprire/ricreare il senso delle cose passate rimasto inattuato e ri-progettarlo. C’èsempre un “angelo” che sulle rovine della storia aleggia con le sue grandi ali per non far dimenticare ciò che ancora aspetta di essere preso e rimesso in cammino.

Holderlin, parlando de ” […] i poeti nel tempo della povertà”, diceva che pensieroe poesia possono ritornare a dialogare con l’essere solo se si rimettono sulle sue tracce e le reinterrogano. “Lungo è il tempo di povertà della notte del mondo. […].Questi segni sono, per il poeta, le tracce degli Dei fuggiti. Secondo Holderlin, Dioniso,il dio del vino, lascia questa traccia ai privi di Dio che giacciono nelle tenebre dellanotte del mondo. Infatti il dio della vite custodisce nella vite e nel suo frutto l’appartenenza reciproca originaria di Terra e Cielo come il luogo della celebrazionedi uomini e Dei. […] Il poeta pensa nella regione delimitata da quella illuminazionedell’essere che, in quanto dominio della metafisica occidentale autocompientesi, ègiunta alla sua configurazione conclusiva. […] ci sarebbe, allora, ed effettivamente c’è, una sola cosa necessaria […] afferrarne l’inespresso. Questo è il cammino dellastoria dell’essere. Se ci incamminiamo per questo cammino, esso condurrà il pensarea un dialogo storico-ontologico col poetare”.2

Ora l’essere plurale, temporale, complesso e in fieri può, allora, essere conside-rato come un testo che interseca e miscela tracce e campi attorno a cui gravitano e dai quali si dipartono la poesia, la filosofia e la scienza.

La poesia, come la realtà, è, anche, allora un universo particolare con un tempo complesso e un’imprevedibilità essenziale. E ciò fa si che la loro apertura di sensoè sempre e simultaneamente determinata e indeterminata, contraddittoriamentecoerente e sfida al principio logico del terzo escluso o dell’aut aut.

La tensione conoscitiva e po(i)etica, mettendo in campo linguaggi particolari dicontatto, penetrazione, percezione, scarti, metafore, nuance, giustapposizioni, saltidi livelli, elaborazioni determinate, indeterminate, certe, probabili, razionali, imma- ginarie ecc. è un altro aspetto che accomuna e differenzia la poesia dalla scienzae dalla filosofia.

Arte e scienza hanno in fondo una certa correlazione che le tiene unite tramitele procedure compositive e simboliche per cui la loro separazione netta è più un’esigenza convenzionale che un fatto intrinseco.

Valery diceva che “le une sono sempre implicite nelle altre. Se la scienza adattagli organi intellettuali a un’immagine esteriore, l’arte viceversa deforma l’esteriorità in vista di un’immagine interiore. Si tratta quindi di due modalità complementari di interagire con il mondo, la cui valenza è data dall’invenzione, dal ponte che getta tra esprit de finesse e esprit de géometrie”.3

Questa correlazione che differenzia l'<identità> dinamica e procedurale tra isaperi e i loro linguaggi, non ridotti alla semplice produzione di significati e di scambicodificati, è ciò che, inoltre, ha permesso di continuare un certo tipo di dialogo traloro e l’essere-possibilità. ” E così filosofia e poesia, che hanno sempre parlato traloro, espongono il loro dialogo segreto, lo rendono manifesto, dicono esplicitamente di parlare l’una dell’altra. […]. Qui <senso e linguaggio> affondano come macigni. Non custodi del senso, non tutori del linguaggio, ma sacerdoti dell’indicibile e dell’impensabile. […]. Circolarità del senso, ma insieme non sua disponibilità, quindiimplosione e frammento, ospitalità per tutti i sensi possibili, un’offerta per i poeti”.4

Anzi, la metafora può costituire “un punto d’intersezione e d’incontro tra saperepoetico-letterario e il sapere filosofico-scientifico e l’occasione di una dialettica dellacultura che vede i due saperi – poetico e scientifico -, tradizionalmente negantisi per opposizione del positivo che esclude il negativo, usare gli stessi strumentignoseologici ed euristici (la metafora) e indagare, interrogare lo stesso oggetto:l’essere-possibilità che, nella sua materialità storico-temporale, è prius oggettivo efondamento-referente del sapere stesso”.5

Se il soggetto-e-l’oggetto di questa complessità d’essere è allora un textum, è possibile applicare il concetto di testo sia ai fenomeni naturali sia agli intrecciartificiali. Un evento scientifico o artistico, quale può essere una poesia o un racconto, conseguentemente, può essere costruito e ricostruito, analizzato comeintreccio di variabili e di piani diversi.

Entrambi i tipi di testi sono, infatti, una miscela d’elementi, una tessitura di variabili relazionali che si condizionano reciprocamente e interagiscono ad ogni azione che proviene dall’interno e dall’esterno del sistema.

Il poeta, lo scienziato e il filosofo, pro-vocando i testi con gli strumenti che sono propri di ciascuno, generano metamorfosi e nuovi modi d’essere degli stessi testi come se li sottoponessero a torsioni e a spinte anche aleatorie: ne biforcano anchei campi semiotici e semantici spingendo la significazione nella direzione di unventaglio o di una cascata che si dis-tende e retifica oltre i termini e i limiti della logica bivalente.

Il linguaggio dei ricercatori e dei pensatori, infatti, ha come interlocutore il ni-ente del textum. “Esso infatti dissolve la logica bivalente del discorso che si articola nel giudizio disgiuntivo, per quella logica ambivalente dove qualcosa <è> pur non essendo solo ciò che è. L’essere si intreccia con il non-essere e, volatilizzando l’equivalenza della cosa con se stessa, l’ambivalenza produce la non-valenza”.6

2. Le nuove logiche e la sperimentalità po(i)etica

Entrambe le tipologie testuali, sia il laboratorio del poeta o quello dello scienziato sperimentatore, ricorrono, infatti, a linguaggi e a logiche che non sono per nienteriducibili a quelle del pensiero classico dell’armonia, dell’ordine, della finitudine, della certezza, della coerenza, della non-contraddizione, della visione nitida eunivoca della logica bivalente dello “scambio” del codice biunivoco, come se i significati e i sensi fossero oggetti di un’economia di scambio di tipo comunicativo.

Poesia e scienza, volendo esprimere e comunicare l’infinita processualità del divenire dell’essere e/o del tempo, non possono, oggi, non impiegare strumenti e strategie linguistiche, logiche e congetturali diversi da quelli del passato; per conoscere edesprimere la pluralità complessa che sfugge al pensiero e all’intuizione comune hannobisogno di ricorrere, infatti, alla stranezza delle paradossalità delle logiche odierne chefanno sempre più i conti con le irregolarità che governano ogni tipo di fenomeno.

Ricorrendo alla logica dell’affermazione, per esempio, negli anni Settanta, Ruelle e Takens, intenti a studiare i fenomeni della turbolenza, pur non avendo mai vistoun “attrattore strano” con le poche dimensioni che loro stessi ipotizzavano – (“[…]un’orbita in uno spazio delle fasi che potesse essere un rettangolo o unparallelepipedo, con soli pochi gradi di libertà. Non periodico […] in modo tale, però,da non ripetersi mai e da non intersecarsi mai […]”7 – erano convinti che una cosacosì strana, complessa e assurda dovesse pur esistere.

La loro convinzione di ricercatori si basava sul solo ragionamento, sull’intuizionecongetturale e su un’ipotesi configurativa che ben coniugava ragione e immaginazione. Non era la prima volta che la conoscenza progrediva in questa maniera. Neglianni Trenta, P. Dirac aveva ipotizzato l’esistenza dei “buchi neri” servendosi di puri ragionamenti congetturali e d’efficaci metafore, il medium che oscilla tra concettoe immagine e che permette all’immaginazione d’interagire con l’intelletto e la ragione.

Il quid8 così bizzarro e fantasioso di Ruelle e Takens era l’«attrattore strano» che E. Lorenz aveva già individuato e raffigurato con delle traiettorie a spirale altamente instabili; queste, raggiunto un certo punto critico d’instabilità, cambia- vano direzione e si aggrovigliavano senza intersecarsi mai assumendo la forma delle ali di una farfalla.

Il loro attrattore aveva la dimensione e le caratteristiche dei numeri frattali diB. Mandelbrot: la frazionarietà del finito che si moltiplica instabilmente sfumandosi in un infinito che pur espandendosi e aggrovigliandosi non interseca mai le propriespire, e passa dal determinato all’indeterminato fino ad azzerare grandezze diqualsiasi tipo.

L’instabilità rende così impossibile una predizione determinata nel tempo che esclude il proprio contrario. Infatti, sulla base dell’esponente di Ljapunov o del”numero che misura le qualità topologiche corrispondenti a concetti comel’imprevedibilità”9, stranamente si registrano impulsi con sviluppi imprevedibilmente casuali e precisi che conducono alla casualità o alla stabilità.

guesti numeri cioè forniscono “in un sistema un modo per misurare gli effetti conflittuali dello stiramento, della concentrazione e del piegamento nello spazio delle fasi di un attrattore”l0 e mostrano come la ristrutturazione dello spazio delle fasi crei attrattori la cui analisi mostra ” vividamente come alcuni sistemi potessero creare disordine in una direzione restando al tempo stesso ordinati e metodici in un’altra”ll. Se il numero ha un esponente maggiore di zero significa “stiramento”,minore di zero “contrazione”, esattamente zero un’«orbita periodica», punto fissoo “esponenti tutti negativi […] uno stato stazionario finale”.
La razionalità ha cambiato look e fa trasparire le sue origini irrazionali. Siamo

nel campo di una nuova razionalità, una razionalità paradossale, irrazionale, capacedi coniugare simultaneamente gli opposti come accade nella logica temporale del “tempuscolo” e dell’affermazione che non conosce mai una negazione.”Larazionalità è solo irrazionalità imbrigliata”, dice Bas C. Van Fraassen. È la nuova razionalità che pensa i mondi e i saperi nei limiti infondati e illimitati della con-

page18image12912tingenza e dello stupore materiale fondante il gioco del tertium datur, dellecontraddizioni e contra-dizioni che, intersecantisi e interagenti nell’unità plurale, dinamica e paradossale del simbolo, fluiscono e fluttuano come corpi browniani”nell’ambito di una concezione sperimentale – e quindi materiale – del mondo”.12

È una sperimentalità che appunto perché affonda nella materialità storica eprocessuale del mondo non può non essere dirompente, eversiva e affatto ricondu-cibile a una sperimentalità canonica e codificata. Quasi sempre, anzi, è in contrasto con l’ordine del sistema e lo destabilizza.

“L’idea di sperimentalità (del verso, per esempio) affligge più di un critico che porta sulla sua pelle una serie cicatrizzata delle ferite, imposte dall’immagine fissa della <tradizione>, dalla traducibilità di essa come ordine […] in una lettura dei versi più recenti di Antonino Contiliano (…) <la contingenza e lo stupore>, a cui essi siaffidano, appartengono a emblemi comportamentali di esplicita educazione al percorso anomalo attorno a ciò che si dice verso di poesia, dove si catturanoeversioni e sogni”.13

È un materialismo sperimentale della contraddizione e della contra-dizione che, appunto perché dinamico, è dunque, anche, possibilità aperta che si trasforma ede-forma, e che nei testi dei poeti soprattutto dà forma all’ambivalenza dell’indeterminazione e all’impensabilità pensabile dei paradossi. E il materialismo sperimentale che vede, ascolta, tocca, assapora gli scarti e le eccedenze di senso tra la rottura del codice e il meta-phorein del senso stesso e si fa azione, azione delle emozioni e del pensiero progettante nel contesto storico e dialettico, senza dimen- ticare che anche in un mondo dell’economia globale e dematerializzata lo scontrodi classe non ha cessato di esistere. Anzi è qui che il senso che circola nei versidel dis-corso della poesia e della realtà politica che in essa agisce, retroagisce eritrova le sue riaperture di rinnovata azione.

È ancora Domenico Cara, per esempio, che ne L’Utopia di Hannah Arendt (lanostra raccolta di testi poetici del 1991), coglie alla base del richiamo alla Arendt”la comunicazione politica di interrogare gli accadimenti, l’angoscia delle azionideformanti della contemporaneità, nel dubbio e nella logica dell’ambiguità a cui essaè sensibilmente sottoposta […] le varie dissonanze esistenziali […] la rivoluzionegeostorica e l’altra serie di conflitti in cui ognuno di noi agisce o resta aggredito daglistupori convenzionali o meno”14.

Nessun misticismo metafisico dunque nella poesia e nel pensiero della nuova razionalità che nella paradossalità del materialismo della con-tingenza richiama, rinnovandone la funzione, il simbolo e l’allegoria, l’indeterminazione, gli scarti, ilparadosso, le eccedenze di senso e la dialettica concreta di prassi-teoria-prassi.

Il simbolismo qui non è la quiete pacificata e metafisica dell’unità dell’essere bensì la pluralità sistemica, complessa e non lineare della possibilità materiale del reale dicui l’allegoria può rappresentare e configurare la hybris della ribellione e dell’ironi/ ea. La hybris può essere il rifiuto permanente che attacca e corrode l’ordine statico che, cristallizzato, intrappola e blocca gli eventi della con-tingenza e i paradossi,lì dove il tempo, invece, e lo stupore della temporalizzazione che li concretizza, è invece “immagine mobile dell’eternità, processo perenne di trasformazione, flusso e riflusso”15 che condiziona la vita e il realizzarsi delle sue forme nelle cose e negli esseri.

3. La con-tingenza, la levis imutatio, i sentieri ininterrotti

È un’esperienza della contingenza come con-tingenza, nesso e soglia che, comeha osservato Vanessa Ambroseccheo analizzando i testi della nostra raccoltaL’Utopia di Hannah Arendt, significa anche legame paradossale: “Ma proprio l’esperienza d’amore, tra desiderio d’eterno e trepida precarietà, ci rende rationemdella contingenza, ci fa scienti del nostro vivere – sulla – soglia. Qui esistere è solola ripetuta memoria degli istanti, e l’eterno agli uomini concesso è la consapevolezza della precarietà. Un’epoca segnata dal <congedo dell’eternità> rivela così la perennecondizione di una <eternità del congedo>”.16

Severino Kirkegaard, ricorda Giuseppe Modica di Fede libertà peccato, dice cheil paradosso è la passione del pensiero sebbene, in qualche passaggio dei suoiPapirer, lo stesso filosofo danese vedesse il paradosso come un fatto negativo. “Inuna pagina giovanile dei Papirer al paradosso viene attribuita una curvaturanegativa allorché esso è identificato con l’incompiutezza del pensiero, col pensieroche non è pervenuto al proprio compimento […] E però, nella medesima pagina, ilparadosso è definito come <il vero pathos della vita intellettuale>, ciò che ne prospetta una lettura positiva. E infatti, sostenere che il paradosso è la passionedel pensiero – come recitano le Briciole – significa non già che esso sia la negazione del pensiero, bensì che ne è la provocazione del dissolvimento coincidente con il suocompimento e consistente nel <voler scoprire qualcosa ch’esso non può pensare>: <il paradosso è la passione del pensiero…>”.17

H. Bergson, il filosofo dell’élan vitale, per esempio, nel corso delle sue ricerchesui risultati della metafisica rappresentativa del “cristallo” e dei “solidi”, ricordavache “Nessuna precisione razionale potrà pretendere di contenere di pi”18 dell’impre- cisione metafisica della vaghezza e delle sfumature della certezza “fenomenologica” che si manifesta soprattutto come pluralità e complessità fluida e sonora, raccontabilepiù con le immagini poetiche che con i concetti della ratio calcolante.

In questo nuovo cammino verso il divenire e la temporalità dell’essere, per farne emergere tutta la concreta con-tingenza attraverso l’ac-cadere degli eventi, la poesia e la scienza, ma soprattutto la poesia continua a percorrere il sentiero, in veritàmai abbandonato, non lineare né graduale delle possibilità del “tra” delle tracce multiple dell’infinito stesso che s’invasa e retifica nel finito mantenendone aperte tutte le sfumature e le virtualità.

Esemplare, in questa direzione, ci sembra, il testo de gesuita del SeicentoAthanasius Kircher:

“Tibi vero gratias agam qua clamore? Amore”19.
La poesia, poi, configura quest’infinito divenire e temporale dell’essere con i versiche lo de-clinano nel ritmo “caotico” dei testi contemporanei mediante la simulazionelinguistica e l’uso ad hoc degli strumenti della retorica, così come anche le scienze in genere, tentano di fare con l’applicazione dei loro modelli interpretativi.

I modelli scientifici, poi, non registrano effetti ed eventi meno paradossali dei versi degli stessi poeti che impiegano le figure della vecchia e della nuova retorica: imetaplasmi (variazioni che riguardano le parole a livello sonoro o grafico), lemetatassi (variazioni che riguardano la struttura della frase), i metasememi(variazioni che riguardano le parole a livello di contenuti) e i metalogismi (variazioniche riguardano il valore logico delle frasi).

Il pensiero scientifico ricorre ad immagini e diagrammi non meno sconcertantie meravigliosi di quelli costruiti dagli ossimori poetici che all’immaginazione, all’immagine, all’intuizione e alla logica j1oue, affidano ciò che di per sé non può essere catturato e definito dai concetti.

Per non rimanere nella sola astrazione simbolica del linguaggio, rimandiamo agli esempi più diffusi dalla letteratura del settore: il fiocco di neve di von Kock (“una linea di lunghezza infinita delimitata in un’area finita”), la polvere di Cantor (“unnumero infinito di punti, ma con lunghezza totale zero”), la spugna di Menger (“un solido con superficie infinita e volume zero”).

Cantor e il poeta Kircher, modificando lievemente, sottraendo, un elemento del testo – la parola (clamore) nel verso del poeta e un dato insieme (la linea) nell’insieme dei punti per il matematico – hanno ottenuto e attualizzato, paradossalmente, nuove referenzialità semantiche.

La levis immutatio, nella poesia e nella letteratura, per esempio, è uno deglistrumenti retorici che producono eventi singolari alla stessa stregua di quelli prodotti dall’effetto farfalla nel campo delle scienze che studiano i processi dinamici del mondo fisico.

L’una nel campo letterario e l’altro nel campo dei fenomeni naturali e delle ricerca scientifica sono delle variazioni che, introdotte nei testi di pertinenza, produconorilevanti cambiamenti nella comprensione dei processi e dei prodotti dei rispettivi campi d’applicazione e d’indagine.

La levis immutatio, anzi, forse, si può definire come l’effetto farfalla della poesiaper gli stessi effetti vaganti che provoca allorquando modifica qualche variabile testuale: un termine, il gioco delle variazioni della sua posizione sintagmatica o le modifiche metalogiche, ecc..

L’effetto farfalla, noto nelle scienze della complessità come sensibilità alle condizioni di partenza di uno stato di cose, agisce nei processi dei fenomeni naturalie, come succede nei processi dei testi linguistici modificati dalla levis immutatio,produce accadimenti aleatori e imprevedibili, ma perfettamente interpretabili, significanti e storici. D’altronde, nella filosofia moderna, non è più pensabile l’accadere degli eventi al di fuori della con-tingenza, come non è più possibilepensare alla stessa con-tingenza come a un semplice apparire dell’essenza di un essere che dovrebbe avere una struttura universale e necessaria.

“In realtà l’essere non è se non come epoché: se si vuole, l’essere non è altro che la sua storia, la sua epoca. Le epoche non sono, per esempio, confrontabili l’unacon l’altra, quasi che fossero diversi modi di manifestarsi-celarsi di un essere peraltro totalmente dato, in qualche modo <esistente>. L’essere non è se nonl’illuminazione dell’ambito entro cui gli enti appaiono […]un evento permanentemen-te in via di accadere…in cui Heidegger adopera Wesen (essenze) non come sostantivo ma infinito verbale. [… ]. Domandare ontologicamente l’essenza delle cose non puòsignificare solo riconoscerle nel loro carattere eventuale; ma, più coerentemente, riconoscerle come evento dell’essere”20. Gli eventi dipendenti, infatti, sono legati-associati da rapporti tali che ne fanno una rete fattuale e logica spazialmente e temporalmente osservabile, immaginabile e leggibile, sebbene tutte le condizioni non siano rappresentabili simultaneamente.

La levis immutatio è una figura retorica che, alterando anche la struttura di unsolo elemento linguistico del testo o di un suo sintagma, ecc., pone il problema diuna ri-composizione bricolage degli elementi e della ri-semantizzazione della forma. Modificando il suono, il ritmo, i significati e i sensi del testo, la chiave retorica apre le nuove possibilità di vita e di realtà contenute nella miscela del testo stessoe del tempo-kairos che lo fonda come l’essere in permanente metamorfosi.

Il kairos è il tempo che si fenomenizza come con-tingente, stocastico ma opportunamente equilibrato e descrivibile, dicibile, u-dibile come equilibrio mobileche permette di dimostrare e argomentare gli eventi reali come se fossero re-aie (a),il dire-l’aleatorio, il casoIla struttura che emerge dal “caos”, l’alfabeto del clinamendegli atomi lucreziani danzante in “incerto tempore, incertisque locis”.

4. Kairos, allegoria, levis immutatio e tertium datur

La levis immutatio, così, assume una funzione che va oltre il semplice ricono-scimento di figura retorica dell’elocutio. Essa, oltre il simbolismo testuale e semiotico, fa suonare le corde materiali dell’allegoria che interroga la vita, fa parlarel’indicibile e l’ineffabile e ironizza la storia portandone alla deriva i frammenti delsistema, le contraddizioni e le contra-dizioni materiali pubbliche e private che leparole del testo processano nel discorso.

Il frammento, però, lungi dall’essere fine a se stesso e un piano senza relazioni, avvia una nuova interrogazione “nell’organ1cità del lessico e nella parola contestualizzata. Ogni qualvolta la parola sembra richiedere un chiarimento va interpretata come una cosa nuova, mai fissa nelle sfumature e di significato cangiante”.21

L’allegoria, infatti, unitamente alle paradossalità logiche e alla messa in scenadell’ironia provocata dalla levis immutatio che deforma linguaggio e logica, fa esplodere il “simbolismo” e slega i “frammenti” dei termini del textum allorquando questi sono pensati come riuniti in un’unità pacificata o in un intreccio relazionale rettilineo, cristallizzato e naturalizzato. E ciò sia che riguardi il tessuto della vitasia quello della società storica elevandolo a valore di verità universale e necessario.”Nell’allegoria, per contro, il frammento resta tale, permane nella sua separatezza.L’allegoria è al di là del bello. <Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello chele rovine sono nel regno delle cose>. [….]. Uno strano rapporto ch’è di separazionee non meno di congiunzione; meglio: ch’è di separata congiunzione, di con giunta separazione. […].È necessario dunque pensare l’identità e la differenza, la differenza e l’identità, ma non risolvendo l’una nell’altra, l’altra nell’una, anzi mantenendo la loro opposizione, la loro contra-dizione – irresolubile. È necessario mantenere la menzogna della copula, e non mantenerla. […] è la necessità del nostro quotidiano: sempre che parliamo, diciamo la contra-dizione……22 L’allegoriaha dunque una sua rete di relazioni che trova n suo essere proprio nell’intreccio e nel crocevia del tempo-kairòs.

È come se il testo-tempo si trasformasse in un sistema in grado di generare infinite singolarità, eventi fuori sistema ed eccedenze di senso che non rispondonopiù neanche agli stessi canoni della logica del sistema che li ha messi al mondo,bensì alle logiche del sapere poetico-filosofico che si rapporta con” “n vago, n bianco,la miscela, n fiotto, n caos, le molteplicità adeli, […l non evidenti, mal definite, confuse”23 che sono propri del tempo potenziale come textum miscelato che include n tertium datur o n tertium “istruito”. È n nuovo sapere “ipocritico” o sottodeterminatoche non consente, senza annullare tuttavia le responsabilità etiche di ciascuno, lescelte della logica duale del solido o del cristallo o del terzo escluso.
“Il nuovo sapere richiede invece un terzo oggetto composito, che partecipi dell’ordine solido e del disordine fluido; questo oggetto si può immaginare allo stessomodo di una «fiamma gelata in tempi differenti». […] non più l’oggettività semplice del solido o i criteri del soggetto trascendentale, ma l’interferenza complessa traoggettivo e soggettivo ai margini fluttuanti dell’ordine e del disordine. Un sapere che può definirsi <meteorologico>[‘..I. Superamento del sapere della permanenza […1n nuovo sistema è un sistema multicentrato che regola n transito dell’energia e dell’informazione secondo un reticolo di intercettazioni e trasformazioni di potenziale […] una matematica floue, che partecipa dell’ambivalenza di una logica del terzo

escluso e del terzo incluso, in una matematica di origine topologica e qualitativa […]. Al di là della dinamica dell’esclusione, si annuncia ora un ritorno agli spazi multipli, al pensiero rigoroso del locale, della qualità e delle trasformazioni […l <dove> il tempo irreversibne coesiste con quello reversibne della dimensione della vita, ne è n reciproco contingente. Esiste però anche una terza cronia propriaricorda Serres – soltanto degli organismi viventi: il tempo dell’evoluzione della specie…24

Questo tempo-textum, nemico della logica duale del vero o del falso e della sintesidialettica che vorrebbe chiudere il processo della storia e ridurre tutto all’univer-salità dell’unicum, è recuperato così dalla poesia e dalla sua logica del tertium daturche valorizza e significa ciò che la logica dialettica tradizionale non legittima.

Ma questo tempo è anche n tempo plurale e molteplice della fisica dei fluidi e della filosofia del tempo-kairòs, n tempo opportuno del Weater di cui M. Serressottolinea la logica nomade che lo caratterizza e che, al contempo, è luogo di una testualità unitaria e dinamica del sapere come “<canto generale> in cui vengono abolite le distinzioni di genere e le divisioni della cultura in settori specialistici o iniziatici […]per cui lo scienziato è poeta e n poeta è, altresì, scienziato, intendendo la scienza come sapere complessivo e la poesia una <visuale> non specializzata delsapere, ma che, in quanto tale, implica una ben precisa coscienza e consapevolezza[…] poesia come ricerca sperimentale e riflessione sul sapere […] si pensi al<filosofare-scrivendo poesia> di Eschilo, Parmenide ed Empedocle, fino a Holderlin e Leopardi o a un contemporaneo come il siciliano Eduardo Cacciatore”.25

È la logica fluida del quasi-oggetto, del “terzo istruito” o incluso, presente neldivenire dell’essere-tempo-kairòs, che attraversa soprattutto la poesia oltre che ilsapere scientifico e filosofico.

“La filosofia dei corpi miscelati si addensa nella variazione e nella varietà, si pone prima e oltre una filosofia del soggetto, dell’oggetto e della sostanza, trova la sua ragione ragionevole di una terza istruzione, né scientifica, né culturale, al di fuori di ogni impulso di dominio.[ …] Del resto pensare, sintetizza felicemente Serres- sempre in Tiers-Instruitè evento creativo che compensa, che colma la lacunaontologica, a stretto contatto con l’ineliminabile presenza del nulla: che cosa chiamiamo dunque pensare? Compensare ciò che non è alla portata della ragione,portare la tara razionale tra l’esistenza e il nulla o il possibile, come se la ragionemettesse in relazione l’essere col non essere, o come se giustificasse ciò che è apartire da ciò che non è. Essa approda dunque alla creazione quasi divina e suppone una familiarità mortale con il nulla e il possibile. Questa pesata o proporzionecompensatoria colmano esattamente la lacuna ontologica.”26

È come affermare che c’è un dis-corso delle cose che pur non essendo né veroné falso, o incoerente rispetto a un modello dato, è tuttavia luogo di significanza e di senso; e ciò accade anche nella poesia e nel suo sapere relazionale associativo.

Le relazioni, che così si strutturano come parti di un sistema autopoietico e che si richiamano e si sostengono reciprocamente, oltre a generare eventi e campi semantici completi e coerenti, contemporaneamente, mettono in gioco ancherelazionalità leggibili a livelli diversi: certi e incerti, chiusi e aperti, contraddittorie non-contraddittori, paradossali. Sono nuove emergenze che pongono conoscenze e letture non prevedibili prima, come succede, per esempio, nel caso delle aritmiecosmiche.

La levis immutatio, alterando la lingua, facendo diventare l’alterazione stessacome un altro livello dello stesso messaggio poetico, favorisce e stimola inoltre questi stessi processi rivelatori. Essa è utilizzata nel mondo complesso della poesia e dellaletteratura per sprigionare nuovi campi semantici dai materiali linguistico-semioticiusati o riusati. Fa scattare delle biforcazioni che come onde di risacca vanno e vengono giocando sul piano dell’ambiguità, della polisemanticità e della plasticitàdella lingua per congetturare le possibilità infinite della temporalità dell’essere che si versa nella pluralità delle forme.

Nei testi toccati dalla levis immutatio ac-cadranno quindi cambiamenti determi-nati tali che provocheranno la nascita di altri universi significanti localmente con- tingenti e non leggibili univocamente. I nuovi testi, infatti, non sono analizzabili alla luce delle regole classiche della proporzione, della chiusura sintattica e semantica,dell’ordine dei metri, degli accenti, ecc., entro il ritmo di una ripetizione costante ed uniforme.

Essi sono portatori e provocatori di condizioni altre che propagano altri “effetti farfalla”, come succede al violino di Landau27 che dall’archetto può ricevere anche una sola nota dissonante con l’ultima, e così via, fino a capovolgere la musica nelrumore del dis-ordine caotico.

L’intreccio prodotto è, infatti, un’intersezione di livelli d’eventi reali e linguisticisu piani che interagiscono anche senza rispondere ai canoni del teorema fondamen-tale della logica classica elementare ovvero all’architettura di un sistema chiuso e coerente del verso classicamente finito e armonico, dove verità e “realizzabilità” o significabilità sono la condizione l’una dell’altra.

Le configurazioni artistiche e poetiche create con la levis immutatio hanno invece,tuttavia, una coerenza chiusa e aperta, perfetta e imperfetta, completa e incompleta,determinata e sfumata, contraddittoria e non-contraddittoria, com’è la stessa con-tingenza nella sua piena concretezza. Queste configurazioni, avendo relazioni governate non dalla logica formalizzata bensì da quelle associative, si rifanno, infatti,al principio del terzo incluso o “istruito” delle nuove logiche polivalenti, fluide e oscillanti del nostro tempo che non escludono né i paradossi né le sfumature delsenso e dell’hasard.

Più complesse e flessibili, queste logiche consentono di dar corpo a mondipossibili diversi e puntano sulla dimensione del divenire materiale come qualità,sulla modalità e sulla controfattualità delle ipotesi o, in termini quasi kripkiani, su quasi “opportuni stati di cose” o “punti-istanti” nello “spazio delle fasi”. E qui glistessi istanti del tempo, nella concretezza della con-tingenza, non sono più atomifissi bensì “tempuscolo” o momenti di transizione in cui gli eventi sono e non sono contemporaneamente.

Le informazioni non-lineari delle configurazioni poetiche che congetturano mondiimpossibili, invisibili e non rappresentabili, ma pensabili e immaginabili, sono così come i punti dinamici (gli istanti-tempuscoli del tempo contratti in quello spazio topologico) che transitano nello spazio delle fasi per poi esplodere nella de-clinazione dei versi: le onde che oscillano e creano dis-corsi, immagini e informazioni polisemiche permanentemente riconfigurantesi.

Per la poesia, lo spazio delle fasi costituisce il luogo dinamico dove il linguaggioporta al punto critico di rottura la danza dei sensi nominati o lasciati in ombra chenel generarsi passano da uno “stato” ad un altro servendosi della zona dell’interfaccia dell’immaginazione per mostrarsi ognuno nella propria novità simile e diversa.

Analogo ruolo gioca lo spazio delle fasi nelle ricerche scientifiche contemporanee.

Per la matematica, la fisica, la chimica, la biologia, ecc., dei fenomeni dinamici “Lo spazio delle fasi fornisce un modo per trasformare i numeri in immagini,astraendo ogni piccola parte d’informazione necessaria da un sistema di parti mobili,meccaniche o fluide, e disegnando una carta stradale flessibile di tutte le suepossibilità […]. Nello spazio delle fasi lo stato di conoscenza completo su un sistemadinamico in un singolo istante nel tempo si contrae ad un punto. Quel punto è ilsistema dinamico in quell’istante. Nell’istante successivo, però, il sistema sarà mutato, per quanto lievemente, e quindi il punto si muove”28

È come se dalle configurazioni poetiche, che si snodano nello scorrere dei versi,nascessero nuovi mondi con il loro carico di instabilità poietica e d’irrapresentabilità concettuale univoca, ma egualmente pieni di senso plurale e di plasticità polisemica.

In questi mondi, come negli universi della scienza, intreccio di relazioni piuttosto che di elementi semplici o di proprietà o di termini precisi e determinati, le aperturesono i versi che si de-clinano come il fluire di una corrente. È il fluire che tracciai propri sentieri strada scorrendo nel “tra” della transizione delle fasi che è processo e perciò anche discontinuità, caduta, deriva di frammenti e alle-goria.

Sono gli sbocchi della tensione ermeneutica ed euristica che attraversano il crocevia del linguaggio-logos come spazio topologico di torsione e deformazione sensibile alle variabili dell’«attrattore strano» della levis immutatio / effettofarfalla, la manipolazione che genera saperi e realtà possibili, congetturali, parziali, locali e coerenti-incoerenti.

In questa direzione, pensiamo, sia possibile leggere alcune esperienze di scritturae di logos che portano i segni della levis immutatio.

È il caso, per esempio, di Joyce che in Finnegans Wake descrive la conquista d’Isotta da parte di Tristano come se si trattasse di un’impresa di “peninsulatewar” 29.

Il “peninsulate”, qui, potrebbe essere, infatti, il campo semantico e di sensoprodotto dalla levis immutatio po(i)etica che altera la composizione iniziale dei termini usati per generare il peni-i (s) olate (un pen-man raffinato e introverso – isolate -) e/o il peni-is (o) late (un pene ritardatario), per questo l’impresa di Tristanopuò essere la guerra di un uomo introverso e/o la “guerra del pene ritardatario”.

L’impresa di Tristano appare così un’azione plurivoca che vive e cresce sulleparadossalità della con-tingenza della realtà e del linguaggio che la esprime e la comunica entro determinate scelte paradigmatiche e sintagmatiche, e modelli particolari di coerenza-incoerenza interrogativa ed euristica.

Un altro caso di levis immutatio potrebbe essere quello offertoci dallo scrittore siciliano Stefano Lanuzza nella sua opera Disiecta Membra.

L’aforista (apoftegma = definizione o determinazione per motti o sentenze) “è così il sofista, il poeta che scrive per toccare [… ] cartografare <guerre stellari, le guerre di posizione contro il Logos>30; il sesso anche un potenziamento e un investimento della genialità […l. La genialità fecondata dal sesso […l Seduzione mediante lagenialità […]. Insomma, la geni(t)alità”31.

La messa entro parentesi della lettera ”t” crea una zona di frontiera, una sogliacomune tra le due parole e i rispettivi campi, producendo referenzialità e significazioni difficilmente separabili, e, in ogni modo, non riconducibili ai soli significati condivisi e comuni che i termini hanno acquisito nel contesto sociale. Sulla soglia e nell’interfaccia del bordo allora vigila e agisce la scrittura e la lettura alle-gorica dei segni che sono traccia e memoria di un intreccio che si s-tende e complessifica.

L’estensione della significabilità ha, infatti, un campo più lungo e comprensivo dei significati logici stessi considerati come predicati semantici pertinenti o come semplici calcoli proposizionali formali, se fossero tradotte in formule ben formate.

Qui, l’autore fa esplodere il campo radicale-semico delle parole (le scompone e, ridefinendole, genera nuove costruzioni di senso) facendo riflettere le zone oscuree silenziose del reale come rifrazioni, così come aveva fatto Goethe quando ha usatoil prisma per definire il colore come un “valore dell’ombra”.

I tagli del linguaggio, la scomposizione e la ricomposizione che dividono euniscono in forma nuova ciò che è stato frantumato sono le aperture dinamiche che lasciano il passaggio a ciò che per mancanza di corrispondenza, adaequatio,tra cose e linguaggio/i, non è, infatti, mai registrabile né dalla rappresentazione, né dall’immagine, ma è tuttavia poeticamente dicibile tra l’ordine e il disordine del verso.

Valéry, infatti, dicendo che in poesia “Ciò che non è ineffabile non ha alcuna importanza” e che “Il problema della ricerca poetica consiste della moltiplicazione di sintassi, musica e convenzioni”32, ha già posto il problema e una possibile ipotesi di lavoro di rapportarsi a ciò che ineffabile è anche dicibile, u-dibile, raccontabile tramite il linguaggio simbolico e sperimentale che attraversa la vita e le cose.

“La procedura poetica familiare a Valery, che esige una preliminare, sistematicaeliminazione della parole, tende ad arrangiare l’arbitrarietà della forma con quella del senso. La fisicità del linguaggio si combina così – nella poesia – con le relazionicomplesse tra significazioni: <il fondo diviene l’atto della forma>, come per la matematica e la musica. Tutto ciò determina figure di tempo: il verso, per esempio, <è un’attesa organizzata che fa prevedere la sua durata>. Il gioco tra il disordine provocato e l’ordine imposto rende bene la bellezza del verso e la sua qualitàinventiva; come tutto ciò che vive nella letteratura il bel verso deve produrre un’impressione di disordine e di irregolarità. La miscela che emerge dal nulla eproduce il novum è oggetto di numerose narrazioni…”.33

Gli esempi, tratti dalla saggistica o da altre opere della letteratura contempora- nea, potrebbero continuare. La non adaequatio tra linguaggio e cose, infatti, fascattare negli scrittori i meccanismi dell’ambivalenza e/o della plurivalenza che si trasforma così nella non-valenza delle funzioni di verità del codice; si trasforma anche nell’ambiguità sistematica del discorso narrativo che si fa indecidibilità equindi assurdo e paradosso sostenuti dall’intreccio tagliato di logiche e linguaggi diversi per dire e u-dire l’unità molteplice della realtà e della cultura.

Ciò è riscontrabile nella poesia, nel teatro e nella narrativa contemporanea(pensiamo anche al mondo della produzione poetica e letteraria siciliana) dove il fenomeno si manifesta nella forma del dire po(i)etico che struttura paradossalità e discorsi disambiguati e precisi, linguaggi lineari e non lineari che se-ducono neldelirio dei testi come nell’assurdo o nei campi dell’ambiguità e dell’ambivalenza cheli attraversa. Pensiamo al caso di Luigi Pirandello di Uno Nessuno e Centomila o diL’olivo e l’olivastro di Vincenzo Consolo e, soprattutto, alle precedenti opere dellostesso Consolo.

Recentemente dei due autori si sono occupati Salvatore Vecchio e Nicolò Messina, e alla lettura diretta dei loro lavori (qui non utilizzati adeguatamente perragioni di spazio) rimandiamo il lettore che volesse approfondire gli spunti offerti

È in quest’inarrestabile errare appunto, allora, che il narrare, l’interrogare e lapoesia trovano radici e cieli; è in questo camminare, in cui la sosta lungo i crocevia dei sentieri è più un movimento con-tingente in attesa che un vero e proprioarrestarsi, che la letteratura e la poesia perpetuano il loro legame eterno con la vita e fondano il proprio sapere e la propria conoscenza. L’eterno, però, qui è !’infinita temporalizzazione del tempo che processualizza !’intreccio della vita e della storiamateriale degli uomini che nelle diverse epoche, in ogni modo, non perdono la loroqualità di essere anche soggetti di azione e decisioni.

Scrive Irene Marusso, a proposito dei testi di poesia raccolti nel nostro libroL’Utopia di Hannah Arendt, “L’intreccio dei linguaggi in Contiliano non ha però solo il compito di renderci una sensibilità ai limiti della <demenzialità> e del <delirio>; esso, infatti, risponde anche al dettato della sua poetica che mira a cogliere l’unitàmolteplice della cultura così come unità molteplice è la realtà del tempo che si snodanella complessità non lineare degli eventi e ri-simulati nei versi della sua stessapoesia [… ] Lo stupore di questa <festa dell’apparenza>, per dirla con la Arendt, cuiil Nostro dedica il libro, non mira allora all’ornamento bensì a far sprigionare laricchezza del novum di tutte le virtualità semantiche che possono scaturire dalle combinazioni lessicali, le quali a loro volta vengono declinate nel verso per scrivere poeticamente la con-tingenza e il re-aIe molteplice e intrecciato del tempo”.36

È, poi, la riflessione su questo tipo d’operazione, allora, che porta a considerare il reale come textum del re-ale(a), con-tingenza e miscela, soglie che s’intrecciano e fluiscono come rete di relazioni determinate e indeterminate, a volte anche neutre, piuttosto che insieme d’elementi o concetti precisi secondo il canone della vecchia logica.

La zona di frontiera, il “tra”, !’interfaccia, che unisce e divide gli elementi verbali di diversa categorialità, attiva infatti bordi d’intersecazione-transizione significativache vede agire e interagire contemporaneamente le somiglianze, le differenze e ilcambiare forma delle cose mentre conservano la memoria del loro divenire.

La cristallizzazione, la dissolvenza e lo spaesamento degli eventi semici, purdifferenziandosi, continuano a mantenere legami mobili con la radice comune e a fornire continue informazioni semantiche altre e oltre quelle contenute nei costruttilinguistici di partenza.

È la violazione del codice, delle parole, della lingua, delle sintassi e della loro interpretazione che, riproponendo la testualità e la contestualità delle relazioni fluide e mobili degli eventi, rimette, allora, in gioco la possibilità di sensi pluralipresenti-assenti nella poesia.

È come se intervenisse un metalinguaggio che, non avendo tutti termini definiti e proceduralmente decisi per decifrare quanto emerso, interpreta e significa il vecchio livello linguistico creandone uno nuovo senza esaurirvisi ed esaurirlo.

È come se la violazione disseminasse le tante tracce sprigionatesi nello spazio delle fasi e svolgesse, sistematicamente e non sistematicamente, caoticamente, itanti sentieri, i punti dinamici (gli istanti/tempuscolo) del tempo contenuti nei passiprecedenti sottoponendoli a torsioni e tensioni che comunque ci dicono d’altri luoghi del divenire.

5. Effetti della ricerca po(i)etica

Nell’ottica in cui è posta la levis immutatio/effettofa/falla è possibile collocare, forse, anche, il repertorio degli strumenti retorici della rima, del metro, del ritmo, degli accenti, ecc., per ascoltarli oltre il suono delle parole nelle sfumature, nelle ombre e nelle altre cose altrimenti non percepibili.

L’applicazione di tutta la strumentazione retorica, introducendo variazioni fra gli elementi e le relazioni del testo, genera infatti una nuova miscela d’elementi, sintagmi e mappe semantiche nodali che consentono di aprire altri varchi originali, impossibili, virtuali e paradossali (inconcepibili per la logica comune ma vivi e significativi per altre logiche).

Sono i molti e differenti piani della significazione paradossale, infatti, che entranoin gioco e generano dimensioni conoscitive e comunicative particolari di cui solo le nuove logiche della complessità contemporanea possono rendere notizia.

Si origina così, insieme (anche) un certo piacere intellettuale ed estetico che la logica comune, per esempio, non potrebbe assicurare: è il piacere dell’ambiguità e dell’ambivalenza semantica, delle biforcazioni e delle catastrofi cui sono sottoposti i versi che si versano dal caosmico mondo delle possibilità, della comunicazione polisemica, della contraddizione e dell’ossimoro, ovvero, ripetendo Novalis, della razionalità al quadrato o del superamento del principio di contraddizione.

Il caosmico sarebbe così il “caos razionale”: l’acuta follia dell’ossimoro del poeta, come il cosmos sarebbe un’unimulti compossibilità vivisezionata, un particolare edeterminato mondo razionale-non-razionale, paradossale. L’ossimoro dello scienziato.37

L’ossimoro del poeta e quello dello scienziato, uno dei mondi possibile-impos- sibile, razionale-irrazionale, razionale-immaginario che coniuga e declina realtà e sogno, cose e configurazioni, fenomeni e modelli, è opera, infatti, della comuneazione poietica che organizza e miscela livelli diversi e anche paradossali dell’essere plurale.

L’organizzazione poietica del complesso intreccio dei livelli è tale, poi, che,simulando la relazione ologrammatica testuale semiotico-simbolica, aperta e impre- vedibile dell’essere stesso come testo, può superare la stessa immagine del sogno di cui porta traccia. L’immagine onirica, infatti, ha un certo rapporto di verosimiglianza con i fatti rappresentati o schematizzati che, invece, non si trova nei mondi dell’ossimoro, in quanto gli eventi che vi ac-cadono sono assolutamente imprevedibili e quindi non rappresentabili né immagazinabili. pertanto, nella memoria di nessuno.

Questa eccedenza di re-altà e di senso per alcuni aspetti simulata e paradossale, in ogni modo, trova il proprio ac-cadere nello scorrere de-clinato e variegato dei versi dei poeti e nelle circo-stanze che accolgono gli eventi “farfalla” connessi agli stessitesti naturali o artificiali.

La poiesis ha infatti una praxis che, in quanto legata ad un reticolo verbale preesistente e alla parola d’altri soggetti via via emergenti nel flusso temporale, produce atti, relazioni, scambi imprevedibili quanto ambigui e tuttavia leggibili perché aperti ad una determinata significazione sempre inventiva, scopritrice, e perciò stesso aperta ad una rinnovata polisemia capace di oltrepassare la stessa verosimiglianza38onirica del sogno. Tutto ciò che appare nel sogno, infatti, ha un rapporto con i dativissuti che il cervello, la memoria, l’intelligenza, la coscienza e l’immaginazionehanno incamerato e rielaborato. “L’apparente disordine logico connaturato allo statodel sogno segnala infatti una proliferazione di figure mentali che, sebbene al di sotto della soglia di riferimento esterno, tramite la stessa libera attività associativa chesi sprigiona nel sogno stesso, si riconnettono alla materialità degli elementi che il cervello e la memoria hanno introiettato modificandone la combinazione. Si entracosì nella fabbrica dei processi della significazione onirica che si riallaccia agli schemi elaborati e conservati nella memoria dove giacciono i ricordi vissuti o solopensati/immaginati creando una vera topologia in cui gli elementi della veglia “si combinano in uno spazio qualitativo e in un tempo istantaneo, senza possibilità diandata e ritorno” 39, sfruttando le associazioni offerte dalle chiavi linguistico-sonore e logiche della retorica.

La rima, per esempio, “che tende a far percepire come simili, attraverso l’omofonia dei significanti, dei significati posti come differenti, il metro, che esprime frasisemanticamente differenti con frasi foniche simili, il ritmo, che dà appoggio all’impressione globale della regolarità del metro, gli accenti, che perdono la normale funzione d’elementi distintivi nella loro distribuzione metrica unitaria, assumono una funzione paradossalmente antifunzionale, oppongono il messaggio al codice al fine di obbligare il codice a trasformarsi”40, insieme con gli altri accorgimenti, è unmedium, infatti, che nei testi provoca effetti di torsione e biforcazione po(i)etici che sono assolutamente nuovi, imprevedibili e quindi non rappresentabili.

L’omofonia degli elementi che fa cogliere il dissimile come simile, che ac-cade comeun evento che crea più sensi di quanti ne nomina e dice, per esempio, costituisce un’alterazione topologica e irrazionale che, tuttavia, è anche un “tra” che media etransita il passaggio della pluralità delle cose e della plurisigniflcanza che circola nei testi in possibili configurazioni assolutamente nuove e inaspettate. Significati e sensisi trovano come in un crocevia o in una soglia plurima in attesa di una diramazione comunicativa potenzialmente pluridirezionale e, forse, visibili come se fossero dia- grammi di biforcazione o generazione di immagini frattali4l , i cosiddetti “insiemi di Julia”42 per esempio (le immagini sono create con il trattamento grafico-elettronico degli stessi frattali di Mandelbrot), che nel loro molteplice espandersi regolare- irregolare di ” separata congiunzione, congiunta separazione” sembrano richiamarela dialettica delle parti e dei frammenti di cui parla l’allegoria di Benjamin.

La litografia Liberazione di Escher o, forse, la stessa immagine frattale possono essere considerate, forse, come esempio rappresentativo e figurativo di tali processi. Infatti, come nella litografia la configurazione che via via si modifica conserva e diversifica l’identità e la differenza delle figure, e si fa spazio topologico di quasi-oggetti, oggetti determinati e indeterminati, di mondi irregolari e regolari, e di possibili referenze altre, così, anche nel caso dei testi, come si è potuto vedere già, la levis immutatio, introdotta l’alterazione, per esempio, nella parola – geni(t)alità – (come si è già visto precedentemente), conserva e modifica la comprensione del termine sia dell’intero testo in cui si trova. Essa introduce una zona di frontierache crea nuove e plurime combinazioni di senso, nonché altre simultanee virtualità soggette a possibili sviluppi.

Liberazione di Escher Immagine frattale classificata 041

6. La logica dell’et et, l’indeterminazione e le metafore

Ora, dette combinazioni che producono presenze e possibilità contemporanee dipiù significati sono leggibili e comprensibili solo con la logica dell’et et e delparadosso, la logica che lega i contrari e gli opposti e va oltre i limiti fissati dalle regole della pertinenza formale della coerenza, della dimostrabilità, della verità unicae universale della logica classica.

La logica classica dell’aut aut, oggettiva, univoca, capace di prevedibilità deterministica, di misure precise e costanti ha già mostrato i propri limiti anchenell’osservazione dei fenomeni quantistici; ha fatto vedere altresì anche la necessitàdi utilizzare, a volte, procedimenti più argomentativi, metaforici (tipico è il casodell’individuazione dei “buchi neri”), probabilistici, insicuri e qualitativi (tipico è ilcaso della misurazione dello spin) che dimostrativi, razionali e certi.

La logica bivalente allora perde sia il monopolio dell’indagine sul divenire dell’essere sia il suo carattere d’universalità: le sue regole diventano relative e razionali e sono significative solo in rapporto ad un modello tipicamente determinato.

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Il relativismo, naturalmente, non annulla né la capacità di determinare le conoscenze né tanto meno la capacità della comunicazione intersoggettiva. Siarricchiscono soltanto gli orizzonti del senso e della significanza.

Nasce così, per esempio, la logica quantistica, la logica della microfisica che mette in crisi alcuni dei capisaldi della scienza e della logica classica: il concetto di cosa, d’oggetto ( basti pensare agli eventi descritti come campi, quanta, onde,virtualità, ecc.) e di soggetto-spettatore.

L’universalità delle leggi fisiche cede il passo alla determinazione relativistica. Non è più possibile avere, per esempio, nei processi che toccano le particelleluminose e le loro possibilità di configurazione, la misura simultanea di due o più grandezze come la posizione e la velocità di un elettrone.
La teoria della relatività di Einstein aveva già messo in evidenza i limiti delle regole della fisica classica lì dove il principio della somma e della sottrazione delle grandezze non poteva più essere applicato ai fenomeni luminosi. Qui, il principio, infatti, è falsificato: la velocità della luce è un fenomeno limite e non risponde piùai risultati delle operazioni consolidate dai calcoli classici. Somme e sottrazioni di eventi luminosi, misurati alla velocità della luce, o prossime alla stessa velocità della luce, non registrano più né l’aumento né la diminuzione della velocità della luce stessa, che, in ogni modo, rimane sempre di 300.000 km il secondo.

Nell’universo delle operazioni logiche ed aritmetiche entra in crisi anche la regola della distribuzione della somma rispetto al prodotto.

È la fisica del “caos” quantistico che mette in crisi anche la validità universaledella legge della distribuzione della somma rispetto al prodotto. La misura (la quantizzazione, cioè il suo essere “su” o “giù” rispetto ai due assi spaziali x e y),per esempio, dello spin 43 di un elettrone, momento angolare intrinseco, non risponde alla previsione e alle modalità metriche della citata legge. La distribuzione, infatti,non può più essere determinata contemporaneamente sull’asse x e y, come invece ci si aspetterebbe se la regola della distribuzione fosse valida anche per questifenomeni. Il “su” o “giù”, inoltre, non sono più parametri metrico-formalizzati come richiesto e previsto dai procedimenti classici.page32image19360

Tuttavia, formalizzando il processo e indicando, per esempio, con P e ( Q o R) i valori e le congiunzioni logiche dello spin, da P e ( Q o R) non si può più inferire (P e Q) o ( P e R). ma solo P e ( Q e R ).

Vengono a cadere cioè le tradizionali attribuzioni inferenziali verofunzionali dei connettivi logici – e, o -.

Supposto, infatti, che P indichi il valore “su” dello spin sull’asse x, Q il valore “su” dello spin sull’asse y e R il valore “giù” dello spin sull’asse y, dalla verità dellaformula P e (Q e R ) non è più deducibile la verità della distribuzione logica ( P e Q) o (P e R).

Considerato ( P e Q) = A e ( P e R) = B, rispetto all’operatore “e”, si può costruire la seguente tavola di verità della congiunzione “e”,dove lo stesso operatore logico “e” non può però garantire sui quattro valori di veritàespressi dalla congiunzione logica neanche il primo ( già vero). perché dello spin di Q e R non si può affermare che è vero che sia sull’asse x come lo spin di P.

Considerato ( P e Q) =A e ( P e R) = B rispetto all’operatore logico “0”, si può ancora costruire la seguente tavola di verità della congiunzione “0”,dove lo stesso operatore logico “0” non può garantire i tre tradizionali valori diverità sui quattro possibili, perché anche per i tre valori di verità non si può garantire la simultaneità della posizione sia sull’asse x sia sull’asse y.

Un’altra svolta che segnala i limiti della visione e della logica classica èrappresentata dalla presenza delle energie negative individuate da Paul AudrienMaurice Dirac nella meccanica quantistica relativistica. Sono i cosiddetti “buchineri” che si comportano a tutti gli effetti come una particella “avente carica positiva +e (opposta a quella degli elettroni che vale -e). energia positiva e massa identicaa quella dell’elettrone””.

A

B

 

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V V F F

V F V F

V F F F

A

B

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A’VB

V V F F

V F V F

V V V F

Nel caso delle energie negative, non è solo il fatto che, contemporaneamente, comportandosi come cariche positive, mette in crisi il principio di non contraddizione della logica classica, è il fatto anche che l’intera visione razionale classica della realtà viene meno. È come se la razionalità fosse solo un’isoletta d’approdo che si è appena sedimentata e subito dopo dissolta, mentre l’irrazionale e il caos che ne costituiscono il fondo continuano ancora a provocare e a condizionarne i processi trasformazionali che si creano nelle aperture praticate dal possibile. È anche il fatto che Dirac, contrariamente alle procedure deduttive del metodo scientifico sperimentale galileano e cartesiano, per dimostrarne l’esistenza di quel quid ha impiegato ipotesi ad hoc e metafore che, invece, secondo il metodo deduttivo-sperimentale, non dovrebbero comparire nelle procedure scientifiche. Dirac, infatti, senza alcun supporto che non fosse quello argomentativo e quello della creatività po(i)etico- ipotetico-immaginativa, ha supposto “che nello spazio apparentemente vuoto tutte le possibili configurazioni ad energia negativa fossero in realtà occupate da elettroni.Per non contraddire tutto ciò che osserviamo con gli esperimenti di fisica atomica, Dirac suppose che questo «mare» di elettroni con energia negativa fosse in linea di principio non osservabile, nonostante le infinitamente grandi densità di energia e di carica elettrica. gueste ipotesi impedivano ad un normale elettrone con energia positiva di «cadere» in una configurazione ad energia negativa. Infatti, una legge empirica, scoperta da Wolfgang Pauli (1900-1958) qualche anno prima, afferma che in una data configurazione non può trovarsi più di un elettrone (principio di esclusione)”.45oggi, invece, non c’è procedere scientifico (dalle scienze alla matematica) che faccia a meno delle metafore. Robert May, nel simulare al computer la crescita di un’immaginaria popolazione di pesci come se fossero dei numeri, vedendo che la fluttuazione non si arrestava, per esempio, parla del “serpente dell’erba matematica”46. John Hubbad, per raffigurare la fluttuazione molecolare che rimane sospesa e concatenata in una rete di “minuscoli affioramenti” sospesi come in una tela, richiama la metafora usata dallo stesso Mandelbrot di “polimero del diavolo” 47 che gli servì per riferirsi alle intrinseche instabilità dell’insieme frattale principale dello stesso Mandelbrot.

D’altronde, persino l’AT (Aritmetica Tipografica) ha enunciati e formule ben formate che hanno delle variabili libere, aperte e variamente significabili, perché indeterminate ovvero non vincolate ai quantificatori esistenziali che, ove ci fossero,rimanderebbero agli oggetti, agli individui e agli stati di cose esistenti.

L’AT ha anche costrutti che, volendo per esempio esprimere la totalità, come nel caso degli enunciati che contengono variabili generiche che si riferiscono alla totalità in fieri (per chiuderla) rimangono egualmente aperti, indecidibili e, tuttavia,significanti,

Senza scandalo alcuno per la coerenza dell’aritmetica, anche qui, si parla disistemi m-incompleti (m, omega, è un indice che sta per la totalità dei numeri naturali) e della m-incoerenza.

“Un sistema è m-incompleto se tutte le stringhe di una famiglia piramidale sonoPag. 34teoremi, mentre la stringa-riassunto quantificata universalmente non è un teorema.[…]. La w-incoerenza è diversa dall’incoerenza. Questo tipo d’incoerenza, prodotta dall’opposizione tra una famiglia piramidale di teoremi, i quali, nel loro insieme, affermano che tutti i numeri naturali hanno una qualche proprietà, e un dato teorema che sembra affermare che non tutti i numeri naturali godono di quella proprietà, è stata chiamata w-incoerenza […] Per farsi un modello mentale di come stanno le cose, bisogna immaginare che vi siano alcuni numeri <extra> insospettati, chiamandoli non <naturali> ma soprannaturali, che non hanno numerali”48 come nel caso dell’espressione di una proprietà dell’addizione in generale e che, tuttavia, concretizzano situazioni, che sebbene rimangano aperte sono significanti in quanto né vere né false e perché poste in zona di frontiera. La zona di ” frontiera che separa l’insieme degli enunciati veri dall’insieme degli enunciati falsi è tutt’altro che lineare; è una frontiera con molte curve infide: una frontiera della quale i matematici hanno delineato alcuni tratti, qua e là, con un lavoro di centinaia di anni.”49

7. Le alterazioni logico-linguistiche e l’emergenze semantiche

La non linearità, la non oggettività, l’alterazione dei linguaggi e l’indeterminazione significante non è, dunque, come si può vedere, una dimensione che appartiene solo al mondo della poesia e della letteratura.

Ritornando alla scrittura, è ancora Joyce dell’Ulisse, ci sembra, il punto di riferimento per altri esempi chiarificatori di alterazioni linguistiche e costruttiproposizionali aperti e polisemici che giocano la significanza sull’omofonia e/o sualtre corde retoriche.

L’esempio si trova nel capitolo de “I mangiatori di loto”: Marta, amante di Bloom,usa il termine “word” per dire “ti chiamo ragazzaccio” (anziché amante) “perché quell’altro mondo (world anziché word) non mi piace”so.

Come si vede, l’intervento gioca sull’omofonia e l’allitterazione strutturale dei termini, che facendosi soglia, confine, bordo interno/esterno, generano la dissolvenza dei significati che si associano, si con-fondono, si ri-associano, si scambiano (sono ambivalenti) plurimizzando i sensi dei termini e del testo che li contiene.

La levis immutazio-effetto farfalla, governata da altre logiche, produce dunquenuove referenzialità informative sia sul piano espressivo-emozionale sia su quello concettuale.

Una leggera manomissione del testo, come si è visto, provoca una dissociazione e una riassociazione rimescolatrice dei termini e dei possibili significati tali da crearenuove reti semantiche e prospettare nuove ipotesi e soluzioni, così come si verificamediante le ripercussioni provocate dall’effetto farfalla nel mondo naturale della complessità dinamica.

La logica matematica, per esempio, si è servita del rimescolamento per percorrere nuovi itinerari e trovare informazioni e nuove soluzioni a vecchi problemi. Il rimescolamento, analogicamente, per gli effetti prodotti, richiama la somiglianza dei modi di procedere della poesia e della stessa matematica.

Il rimescolamento associativo e congetturale dei termini e dei significati nell’arte letteraria e poetica, infatti, richiama alla mente il principio del rimescolamento congetturale usato da G. Gentzen per dimostrare la coerenza della teoria dei numerio il contare l’insieme infinito e mostrame il volto contraddittorio: il numerodell’insieme infinito deve essere finito e infinito allo stesso tempo.

Solo una logica che accetta la contraddizione, come quella po(i)etica, può non respingere simili paradossalità.

L’approccio congetturale del “rimescolamento” è, si diceva, di Gerard Gentzen.Gentzen prese una parte dei numeri (per esempio lo zero e i numeri pari) per rappresentare tutti i numeri naturali, mentre l’altra parte (tutti i numeri dispari acominciare dal numero 1) per rappresentare un’altra categoria di numeri, quellitransfmiti, ecc.

Intervenendo e modificando la posizione degli elementi del sistema, quello deinumeri, il matematico ha generato altri numeri e altri modi di vedere e significare gli stessi numeri, così come, analogamente, avrebbe fatto il poeta con gli elementidel suo universo.

L’analogia e l’accostamento tra poesia e matematica mediante il “rimescolamento” vuole, qui, essere solo un modo per sottolineare come la congetturalità creativa,ottenuta tramite l’introduzione di variabili negli elementi e nella sintassi dei linguaggi, sia comune a questi mondi della ricerca, dell’espressione e dellacomunicazione (lontani solo apparentemente), e come, ricombinandoli, si possano generare nuove ipotesi configurative e seguire l’essere nel divenire dei suoi ac-cadimenti ed eventi.

Nel mondo matematico, inoltre, è ancora con il “teorema di limitazione” di Skolem-Lowenheim che si mostra come il gioco delle interpretazioni non valga soloper i testi della poesia e della letteratura in genere.

Aldo Giorgio Gargani così sintetizza il problema: “Portato sul piano di un linguaggio filosofico generalizzato, il teorema di Skolem-Lowenheim mostra che nessun simbo- lismo può autoidentificarsi e che soltanto le procedure costruttive nella loro effettiva applicazione, mediante decisioni inaugurali e intransitive, stabiliscono il significato di un’operazione sul simbolismo. E qui intransitivo significa che l’applicazione, ladecisione non devono conformarsi a un modello prestabilito […]. Dal teorema di Skolem-Lowenheim discende…data una proposizione vera o una classe di proposizioni vere nel mondo reale e in tutti i mondi possibili, tale proposizione o classe di proposizioni, pur rimanendo vere, sono suscettibili, entro una notazione logicamente normalizzata, di ricevere una varietà di interpretazioni praticamente infinita”51.

Il principio di rimescolamento e il teorema di limitazione ci dicono allora che se un modello e la sua teoria garantiscono le condizioni di verità delle loro proposizionidentro il modello stesso e in tutti i mondi possibili, tuttavia, non determinano néil referente concreto dell’evento individuale né i diversi modi in cui si puòconcretizzare e dire il divenire dell’essere e delle sue possibilità. Questo rimane, infatti, comunque,un testo infinitamente aperto, imprevedibile e plurale,”epocalmente” dicibile.

8. Il testo, ologramma multiverso, complesso e paradossale

Un testo non è mai una somma di parti bensì un ologramma dinamico, una struttura complessa di elementi e di relazioni che s’intersecano vicendevolmente, e che, modificati da interventi diretti, indiretti e contestualizzati, danno origine atesti individuali, modelli di realtà e di verità che accettano la polimorfia e la plasticitàdel loro essere.

È ciò che succede nel mondo letterario e poetico allorquando si crea e si leggeun testo a partire da interventi che ne modificano le condizioni iniziali o in itinere, e le parole, i sintagmi e la sintassi, ecc., si prestano a più possibilità di lettura ecomprensione differenziate.

Allorquando, con gradi di “libertà” diversi, si creano variabili che si allontanano dal punto di partenza sintattico e logico-semantico appartenente a quel determinato mondo, infatti, si originano universi incrociati che, paradossalmente, fusi l’unonell’altro o ripiegati su se stessi, a livelli diversi, convivono interagendo e concretizzanomondi “reali” con-tingenti e possibili.

La non prevedibilità perfetta, dovuta al fatto che non possiamo rappresentarcil’infinito potenziale e tutto il suo tempo multiversum in una datità attuale o in una rappresentazione data e oggettiva, tuttavia, non esclude la determinabilità degli eventi e la costruzione di un loro senso, qualunque sia il testo che si configura nella con-tingenza dell’evento che ac-cade.

Il mondo del caos/complessità, come quello della poesia, tutt’altro che irrazio- nale, ricorsivamente, per salti, coniuga così, fluente e fluttuante, ordinato e dis-ordinato, la pluralità degli opposti e dei contrari, il sistema e l’assenza di sistema.Anzi, le costanti e le variabili, le regole e l’assenza di regole, il necessario e il possibile, la turbolenza e la coerenza, il determinato e l’indeterminato, la quiete e il movimento non sono leggibili più come coppie di opposti dialettici bensì comerelazioni interattive, circolari e aperte che si con-fondono e diversificano.

Paradosso e complessità, ancora una volta, attraversano e nutrono la poesia e l’arte: sistematico e non sistematico, linearità e non linearità vi coagiscono.

“Ogni fatto <individuale>, ogni <quasi quasi> in un testo artistico – come osserva Lotman -, è il complicarsi della struttura di base mediante una struttura aggiunta che complessifica l’intreccio stesso. Il testo nasce come intersecazione di almeno due sistemi, ciascuno dei quali nel contesto ha un particolare significato. Quanto più regolarmente s’intersecano in un dato punto strutturale, tanta maggiore quantità di significati otterrà quest’elemento, e più individuale, non sistematico esso apparirà. Il non sistematico nella vita si riflette nell’arte come polisistematico.”52

La ricorsività degli elementi e delle intersecazioni anziché ripetere l’identità trasforma la stessa in un moltiplicatore di somiglianze approssimate e di differenze infinite.

Lotman, esaminando le strutture semiotiche, dice che “la complessità di una struttura artistica dipende in modo direttamente proporzionale dalla complessitàdell’informazione trasmessa. […]. Il linguaggio poetico si presenta come una struttura di gran complessità. […]. E se il volume d’informazione contenuto nel linguaggio poetico e nel linguaggio comune fosse uguale, il linguaggio artistico perderebbe il diritto di esistere e, indiscutibilmente, morirebbe. La questione si pone però diversamente: la complessa struttura artistica, creata col materiale della lingua, permette di trasmettere un volume d’informazione che sarebbe assolutamente impossibile trasmettere con i mezzi della struttura linguistica normale. Deriva da ciò che la data informazione (il contenuto) non può esistere, né essere trasmessa fuori della struttura data. […]. In tal modo, la metodologia dell’esame del <contenuto ideologico> separato, e delle <particolarità artistiche pure separate>, tanto pervicacemente in uso nella pratica scolastica, si fonda sull’incomprensione delle basi dell’arte ed è nociva, in quanto induce nel lettore di massa una falsa rappresentazione della letteratura come di un mezzo per esportare in modo più lungo e abbellito gli stessi pensieri che si possono esprimere in modo breve e semplice.”53

Occorre, quindi, stabilire solo delle coordinate di riferimento e delle condivisioni possibili utilizzando tutte le condizioni di senso disponibili, comprese le credenzee le chiavi di trasmissione e lettura, per vedere la poesia come un mondo complessodove la ragione e l’ìmmaginazione, il previsto e il caso sono l’uno la ragione dell’altro e viceversa.

Il mondo della poesia e il tempo dinamico (kairos) che la fonda e l’attraversa, come ha detto A. N. Kolmogorov, l’accademico sovietico ricordato anche da J. M.Lotman in Struttura del testo poetico, hanno una processualità esponenziale cheè tipica dei sistemi complessi.

Ciò che fa di uno scritto un testo di poesia, infatti, dice Kolmogorov, è lapolisemia, ossia la plasticità della “lingua creola”, che se sopraffatta dall’informa- zione non genera poeticità. “[…] la creazione poetica è possibile solo finché la quantità d’informazione utilizzata per le limitazioni (6) non supera j3 < h2 , la plasticità del testo. In una lingua con J3 ❓ h2 la creazione poetica è impossibile”.54

Se il tasso d’informazione non supera “h2”, ossia la plasticità del testo, allora la creazione poetica è possibile, perché proprio “h2″ è la fonte della poesia e dellasua complessità non lineare, diversamente c’è entropia.

Un testo di poesia è come un sistema di alta complessità, il cui tempo e il cui ritmo esplode e implode, si ripiega e si stende in maniera così retificata eaggomitolata che è impossibile trattarlo con modelli semplici e procedure chiuse.Il modello di lettura, interpretazione e ri-interpretazione, è piuttosto paragonabile, sempre, ad un’ulteriore metafora linguistica più che ad un vero e proprio sistema di codifica e decodifica.

Il mondo della poesia di oggi è, poi, un insieme d’eventi particolarid’effetti ‘aalla” che poco hanno a che vedere con quello determinato della chiusuradella peezione dell’universalità classica sia nella suajorma antica che moderna. Gli eventi

che la costituiscono sono un complesso di processi chiusiaperti, e soprattutto locali, dove le contraddizioni che n’attraversanotessuto la individuano come esplosioneramficazione imprevedibile di declinazionicongiunzioni sintagmatiche che diconocontra-dicono… il tempo del poetaquello mescolato, temperato, il tempo della contingenza che il poeta è portato ad isomozare simulandolo…nelle sue varie articolazioni intermittenti…mentre la poesia n’è il verso, i versi del suo vertere nelle cadute d’angolonelle relative diramazioni che dialettizzano il campo semantico delle realtànzioni.55

Un esempio significativo, forse, è possibile averlo leggendo i versi del testo poetico “epimitio” 56 di G.Toti:

“…ma sì! Effetti parassiti di cosmolalìe io possoscrivermeli e scriviverveli anche se terribiliosiper me come i picosecondi del «ritardo di porta»

o per miliardesimo cubo i mille e uno romanzi o gli zilioni di byte – e il bit il byt-idiano alfabyt”

Del resto le contraddizioni e le anomalie logiche che s’incontrano nelle veritàpoetiche degli ossimori e/o delle metafore, ecc., assunte come “oggetti”, quasi-oggettied eventi logico-linguistici di mondi possibili, si ritrovano negli stessi universi delsapere scientifico, dove assumono verità di senso e di significanza solo relativamentealle coordinate di riferimento dei modelli scelti per navigare nelle correnti vorticose dell’essere e del tempo.

9. Il tempo e le logiche del poeta

All’orizzonte di questa rivoluzione di paradigma c’è l’apporto delle sperimentazionie dello sviluppo delle nuove logiche (la logica temporale, quella affermativa del “forcing”, epistemica, frattale, topologica, fIoue, ecc.) che sono in grado di cogliere, come abbiamo visto, il divenire delle possibilità del tempo, che non è più, così, “attimo” (discontinuità di punti atomici, fissi e sempre identici, tagliati nelcontinuum regolare del tempo stesso) bensìfluenza eflusso, instabilità, periodicitàe non periodicità, dissolvenza che miscela gli opposti, le contraddizioni e le anomalie che scoprono/creano possibili significanze.

Senza l’apporto delle nuove logiche le cose diventerebbero maggiormente magichee inesplicabili.

Il tempo non più un continuum lineare regolare bensì un textum che miscela i complessi intrecci del sistema caotico carico d’informazione da esplorare, così cometextum è la poesia che simula e de-clina i versi non lineari della con-tingenza degli eventi linguistici che affermano sempre nuove verità anche quando sembrano negarle.

La conoscenza di cui è portatore un testo poetico, come avviene nella logica speciale epistemologica e affermativa, è, infatti, una affermazione che non conoscemai la sua negazione. Il sistema di conoscenze parziali che “costringe” l’affermazionead essere “vera”, infatti, anche qui, con il suo continuo e coerente ampliamentoassociativo dei campi semantici, che s’intersecano ed esplodono nuove combinazioni conoscitive, non gode del principio del terzo escluso, come, invece, succedenell’ambito della bivalenza.

La mente del poeta è come se fosse una soggettività che crea l’«oggettività»e conserva tutto quello che ha conosciuto precedentemente e costruisce ipoteticimondi avvenire – il non-essere ancora – che negli stati successivi non potendo conoscere mai non-a conosceranno sempre e solo a.

Questi mondi certamente vivono dell’incertezza e dell’aleatorietà della congettura semiotica e della con-tingenza, ma non hanno mai interrotto né interrompono ilsentiero della poesia che porta verso l’infinito dell’essere che, in quanto costruzione·di mondi determinati nel tempo-kairs, è anche un impegno etico per mondi erapporti senza dominio, volti alla felicità, alla libertà e alla pace.

I mondi del poeta, sebbene conflittuali e instabili, sono i mondi della pace diHermes e di Venere perché la loro logica non è quella dell’estetica del sentimento disimpegnato e disinteressato, dell’individualismo e dell’esclusione, bensì la logica del terzo incluso, dei “corpi miscelati” della complessità e del “noi” plurale dell’etica della contingenza dove ognuno assume le responsabilità delle scelte fatte per vivere e dia-logare.

Il poeta è il custode-custodito dell’utopia possibile come il filosofo o lo scienziatopossono essere i custodi-custoditi dell’essere come possibilità di reti di mondipossibili che hanno di mira la libertà e la pace, e sono disposti “a cedere il posto, a reggere sulle proprie spalle il peso di un esodo senza fine […]. La filosofia del < corpi miscelati> è allora una scommessa augurale che, nelle figure congiunte deimessaggero Hermes e della bella Afrodite, annuncia la novella della pienezza edell’abbondanza, la logica del terzo incluso, la mescidanza dei nostri corpi nellamiscela infinita della vita sociale e naturale (già compresa dai fisici della Ionia)”.57

Il ” linguaggio del poeta”, come diceva Niels Bohr, non serve solo per studiareil mondo della microfisica (realtà altamente complessa e aleatoria) ma serve anchecome esercizio etico di responsabilità, che è tanto maggiore quanto, come dice ilpoeta Antonio Machado, gli uomini sono quegli itineranti cui bisogna ricordare che per il “caminante, no hay camino/ se hace camino al andare” (“viandante, non c’èvia/la via si fa con l’andare/con l’andare si fa la via”). Gli itinerari della conoscenzae della costruzione, volti al senso delle cose e degli uomini, non possono, infatti,essere se non nel/col peso delle responsabilità di chi, in patria o in esilio, rifiutandovie e metodi deterministici, si mette in cammino verso gli orizzonti delle risposte che non sono mai né concluse né definitive, e rimane nello stesso interrogare come nel luogo proprio. Il terreno di misura, di rischio e di scommessa dell’uomocontemporaneo della certezza dell’incertezza è il movimento, lo stesso cercare. Ilmetodo o la via, infatti potrebbero, arrestare il gioco della vita e della ricerca. Unragionevole paradosso? “E questa ragionevolezza […] ci fa vedere che senza questairragionevole rischio ci ridurremmo tutti all’immobilità, esito sicuro di ogni falso movimento o di ogni <andare a cercare>. E anche di ogni sentirsi sicuri in terra straniera, di ogni esilio cercato, singolare. Si tratta di sapere se preferiamo tracciaredei confini domestici, con oggetti e voci che ci fanno eco, o se ci risolviamo ad avventurarci in un bosco dove più nessuno ci accompagna e dove le promesse diverità restano tali perché subito vacillano e spariscono”.58

La vita è un esodo permanente e gli uomini sono eterni “para-sitos”, e come uomini di cultura, poeti ed artisti, in ogni modo, sono promessi e compromessi in una “cosmicità profetica” e in un impegno volto a realizzare nella società contem-poranea efutura i valori di una dimensione utopico-scientifìca in un soddisfacimento di bisogni fondamentali ed irrinunciabili, come quelli della pace, della libertà,dell’eguaglianza, dell’Eros, che sono la negazione di quelli che padroni e dirigenti hannofatto assimilare alle masse e agli individui nel sistema costituito. Ciò richiede naturalmente un linguaggio nuovo, se vogliamo sperimentale, non coriformista nelsenso più ampio, nuoveforme comunicative ed espressive, adeguati ai nuovi obiettivi,per spezzare codici ed immagini interiorizzati, ormai cristalizzati e naturalizzati, inventando magarireinventando in senso sovverssivo per esempio gli strumenti tradizionali dell’arte e della poesia: la natura, lo spirito, la psiche, il sociale, il politico,il sogno, le passioni, il male e la gioia di vivere e di esistere, le metafore, le analogie…59,perché “todo y cada uno de los poemas…son <inter-rog(o)azione> de la realidad, delos ombres, de su hybris y praxis, de la historia.6o

La hybris della poesia, in ogni modo, è la forza della trasformazione e delle metamorfosi, della ribellione e dell’interrogazione ironica, a volte satirica e dissa- crante con cui la praxis po(i)etica degli scrittori e degli scienziati scatena le contra-dizioni delle contraddizioni e degli assurdi che appartengono più alla civiltà, alla cultura e alla storia delle “naturalizzazioni” forzate e ideologiche che agli stessi processi della vita e dei saperi.

Lasciata libera di frammentare le cose e di aggredire la loro adaequatioidentificante alle idee, la hybris dei testi di poesia come pratica di comunicazione trasformazionale e “politica” – denuncia e rottura dell’ordine esistente delle cose attraverso la rottura della linearità univoca del discorso monologico perseguita con la non-linearità del verso – rimane, forse, l’unica via praticabile perché la storia materiale concreta, eterologica, degli uomini e delle cose continui ad esprimere la propria carica creativa e rivoluzionaria recuperando la sperimentalità dei soggettida un lato e la materialità dialettica dei loro rapporti sociali contraddittori dall’altra.

I testi di poesia, infatti, in quanto produzione trans-linguistica e inter-testuale nell’interscambio intrecciato dei linguaggi e degli enunciati, nella ridistribuzionedella parole rispetto alla langue e delle logiche teoretiche, sono “pratica significante[…] processo di produzione di senso” 61 e contra-dizione contro lo stato di cose esistenti in termini di azione e di lotta progettuale. Essi, infatti, anticipano una pratica antagonista dell’ordine del logos identificato come ordine delle cose e dellarealtà come struttura cosificata (che, invece, è e rimane una miscela di contrad-dizioni come rapporti permanenti e dinamici di entropia e negentropia, di afferma- zione e negazione), avanzano un progetto di destabilizzazione e di alternativasignificante che non propugna “l’abrogazione dell’ideologia e del pensiero, per sperdersi nell’illusione regressiva di una condizione aurorale della vita, di un magma indistinto di affetti e pulsioni senza scopo “62, bensì un’eccedenza di paradosso esenso viva via itinerante.

In questa fine millennio, il rapporto creativo e dinamico degli uomini con il mondo materiale degli eventi (il cui “delirio creativo è stato già cantato da un poeta come Lucrezio”63) e la poesia possono e debbono continuare, allora, ad essere praxis, poiesis e pratica significante e porsi come una mina vagante che porta alla deriva i nuovi e possibili sensi della temporalità anche attraverso il dolore di una scissione-unione continuata, moltiplicata e polifonologica. Infatti, “Senza questo dolore di una schize moltiplicata, non c’è possibilità di parlare il processo del soggetto, della materia, della storia, come di un processo dialettico, cioè uno ed eterogeneo”.64

La poesia textum, però, deve stipulare una alleanza dissonante tra materialitàe sperimentalità plurale, tra con-tingenza e progettualità e svelare la barbarie dellenuove povertà indotte; deve farsi “follia socializzata” di soggetti critici che fanno apparire le alle-gorie demistificanti il mondo in cui viviamo e innescare processi ditensione verso il novum. Certo non può fare la rivoluzione e cambiare il mondo ma può mettere in crisi l’assetto percettivo alienato con cui i dormienti vivono il/nelmondo. Può mettere a nudo, scardinandone i linguaggi rilevandone le contraddi- zioni materiali, l’ordine di classe delle holding planetarie della finanza e dell’infor- mazione, la nuova merce dematerializzata della società elettronica e multimediale dei padroni dell’economia neocapitalistica del mercato globale, il cui plusvalore èrubato ai nuovi bitoperai e alla qualità della vita.

Facendosi luogo, altresì, del transito permanete della logica della contraddizione, del paradosso e della contradi-zione che aggredisce e mette in crisi il quotidianopubblico e privato, alienato e demenziale, incuneandovi i sensi nuovi emergenti, può frantumare l’universalità ideologica del modello liberaI-borghese che si ammanta diumanesimo, di necessità e di oggettività concettuale per dare spazio, di nuovo, allaphronesis del saper decidere e agire nell’equilibrio mobile dell’incertezza conflittuale della pluralità delle opinioni o dei mondi della doxa errante.

Doxa e poesia, infatti, hanno una po(i)sis e una praxis che, pur nel contesto dellepluralità soggettive, sulla base di un comune e intersoggettivo senso del vivere e dell’essere, le legano alla responsabilità della parola e dell’azione dialogica dei puntidi vista diversi che debbono coesistere e convivere al di fuori di qualsiasi pretesariduzionistica o all’universalità astratta e ideologica dell’identità del concetto o all’épisteme univoca della legge di un unico sistema.

Il comune contesto del vivere e il dialogo tra diversi, infatti, obbliga i protagonisti ad abbandonare la deresponsabilizzazione della “banalità del male”, come dicevaHannah Arendt, e, nell’accadere della con-tingenza degli eventi del kairos, ad assumersi l’onere di un’azione e di una parola dialettica e conflittuale ma responsabile dell’etica della contingenza per progettare e costruire, così, il mondoucronotopico della coesistenza e della convivenza delle identità diverse.

La poesia, come la doxa, è testimonianza della praxis della parola che interpre- tando giudica l’esistente, prevede, rappresenta, vuole e progetta un mondo diverso, il mondo degli uomini che “spettatori partecipi” e soggetti critici ad un tempo continuano a dire che è possibile un’azione dei sogni e delle utopie. È il mondo degliuomini che, come “Omero <il poeta cieco> che narra il passato e quindi siede ingiudizio sopra di esso>, o come l’angelo di Benjamin che <sosta nel giudizio>”65, “fedeli al primato della esemplarità, dell’apparenza e del dialogo”, si oppongo almodello teleologico della storia e proteggono “lo spazio dell’azione e del giudizio quale luogo di relazioni autenticamente umane, esonerate dal fatalismo che condanna l’accadere all’automatismo e alla ripetitività caratteristici del mondo naturale”66 o alla necessità storicistiche degli sviluppi di una concezione metastorica e metafisica.

Da una terra, la Sicilia, che “si fa privilegiato osservatorio per un’indagine sull’uomo e sulle cose […] da arcipelago si fa galassia” 67, la praxis della parola poetica e narrativa, del resto, oggi, tempo di spazi ideologico-politici senza memoriae senza confronto, non può eludere l’impegno della “politicizzazione” dell’arte e della poesia. Se la storia della sua cultura plurale è la memoria delle differenze che hanno costruito un’identità politica dinamica che si confronta nello spazio della comunità,lo richiede, infatti, ogni nuova differenza che nasce e pone il suo diritto alla vita, alla parola e alla libertà.

Antonino Contiliano

NOTE
Nec tecum, nec sine te vivere possum.

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pagg. 14-45.




 Sull’ironia di N. Martoglio 

Vito Titone, L’agro della favola, ed. Centro Servizi Stampa Facoltà di Magistero, 

Palermo, 1988, pagg. 130, s.p. 

Con il suo consueto stile, che coniuga stringatezza, chiarezza e capacità critico-analitica, il prof. Vito Titone, docente di Lingua e Letteratura italiana dell’Università di Palermo pubblica i risultati della sua ricerca sulla Centona di N. Martoglio. 

È un lavoro questo che, ci sembra, consente all’autore, con tipica e pertinente penetrazione, di rappresentarci il complesso mondo martogliano e l’humus che lo sorregge. Un mondo che Vito Titone articola attraverso l’esame dei seguenti temi portanti: società e linguaggio, le suggestioni letterarie, tra eros ed ethos, preludio al teatro. 

Certamente, per lo spazio di una semplice e modesta recensione, non possiamo parlare distesamente (come meriterebbe) della fatica di Titone. Non possiamo tuttavia esimerci dall’individuare nel «realismo» e nell’«ironia» del Martoglio la chiave di lettura del saggista, il quale, inoltre, nota anche i limiti ideologici del poeta e drammaturgo siciliano nella mancata occasione di una «vasta dialettica della società isolana» (p. 93). 

Il realismo del Martoglio è quello filtrato dall’anima di un poeta che contemporaneamente è uno «scettico razionalista» e un «moralista», «reprensore (e nel contempo difensore) di un atavico costume, che tradisce una certa disposizione ad un’etica solo assai genericamente cristiana» (p. 98). 

Da questo campo d’osservazione la «mimesi» dell’artista, sia nella Centona che nell’opera teatrale, non può condursi che attraverso l’ironia, la cui fabula non può che avere il sapore dell’agro (da cui, secondo noi, L’agro della favola), specie se il campo semantico di «agro», pur da radice diversa, abbraccia sia il pungente, l’aspro della satira che la campagna come metafora del popolare. 

Ma l’ironia di Martoglio dove il «riso» ha una valenza conoscitiva e non di puro divertimento o di scarica ilare, dice il Titone, si serve di una parola, come delle ipotiposi e delle metonimie, per aderire con mimesis e verosimiglianza al mondo tragico dei catanesi e dei siciliani e renderlo nella vividezza dei suoi contrasti eterni, spesso emblematizzati nella dialettica metafisica di vincitori e vinti per eterno destino. 

La mimesis dell’ironia martogliana però non riproduce né il vero né il verosimile come copia fotografica, perché la mimesis non è oggettivo riflesso bensì azione della poiesis dell’artista, così come documenta la morfologia di questi termini che sono diventati cardini paradigmatici della cultura letterario-filosofica occidentale. Né tanto meno il «verosimile» è da tradursi e leggersi come «simile al vero» ma come credibile perché ragionevole nella praxis del poeta che rimpasta la realtà. 

Ma l’ironia martogliana non nasce solo dalle tragiche condizioni del mondo siciliano e dall’altrove, dallo spostamento di senso che l’ironia sistematicamente comporta come chiave di lettura e artistica. Essa nasce anche da una convinzione ideo-logica di vedere e rappresentarsi la realtà nella sua contingenza e casualità (forse un inconsapevole precursore letterario della «sfida della complessità»?). 

La mimesis martogliana come la realtà è permanente processualità dinamica 

e aperta come i processi del «non-equilibrio». «Poeta realista, nel significato più vero della locuzione, Martoglio, paradossalmente, distrugge la realtà nella sua apparenza fenomenica per reinventarla nella sua significatività; e la reinvenzione è affidata ad un interessato processo di costruzione e distruzione. Un processo cioè di accumulamento e di depauperamento di significati, di fissaggio, di amplificazioni e di modificazioni di immagini, di scarti successivi, talora vistosi, talora appena percettibili dei registri linguistici» (p. 125). 

Antonino Contiliano 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 50-51.




R. Onano, Le ancora chiuse figlie marine, Bologna, Book ed., 1994.

La poesia di questo nuovo libro di Onano indossa le vesti del racconto, della narrazione. L’incipit, ellitticamente costruito o meno, spesso affidato ai connettivi temporali e ai tempi verbali del caso, decolla ora dalle sorgenti dell’indeterminazione ora da quelle delle anacronie del futuro e/o del passato: «Ancora, ancora le vedo attraverso le sbarre dove mi apposto»; «Quando divenni re degli Scebili, subito dopo il sole»; «Quando avevamo nostalgia dei conti dell’oste»; «Così raccontava il buffone di corte, noi ancora/incerti a chi corrispondere, riflessivi, la proiezione». 

Le iterazioni retoriche e l’accento espressivo, sottolineati dalla posizione trasgressiva e di scarto sul piano sintagmatico del verso, aiutano il lettore a cogliere meglio quella “fermezza gentile” che è stata osservata dalla nota di E. Grasso che accompagna e permea il testo dei toni e delle significanze, delle “parentesi” e delle trasparenti tensioni di tutte le poesie del libro. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag. 63.