Matilde Contino, Dove soffia il vento, La Meridiana, Palermo 1995, pp. 45.

Dove soffia il vento è l’ultima silloge poetica pubblicata da Matilde Contino. 

Anche in quest’opera, il mondo della Contino è quello delle due precedenti pubblicazioni – Symbiosis e Bagliori -, il “reale” filtrato dall’immaginario emotivo e immaginale dell’autrice. “Per i tuoi occhi! da berei con la vistal del cuore”; “Vecchio leone, I quante battaglie hai combattutoI quanti pericoli hai affrontatol e adesso? I Nessuno nella forestal si accorge della tua finel … 1″; “.. ./ Anche i bambini persero I la voglia di giocare, né scherzi, né risate I solo l’angosciai di non poter fuggire / … I”. 

Breve ma densa, la scrittura poetica di Matilde Contino, a volte, sembra imporsi con l’incisiva e tagliente leggerezza dell’espressione aforistica o, come ha osservato Ida Rampolla, con l’agilità e il salto degli Hai-Kai giapponesi. 

Fresche sono le immagini del metaphorein che mediano l’indeterminabile complessità del “reale” vissuto, pensato e filtrato nell’estetico della logica sensoriale rappresentativa o solo immaginata. 

Se la vita è della stessa sostanza delle ombre e dei sogni, come più di un poeta ha detto, la poesia della Contino, anche in quest’ultima tensione poetica, può esserne lo specchio più fedele e infedele al tempo stesso. Come nei sogni, infatti, nei testi di Matilde si emigra da un’assenza presente ad un’altra presenza assente che rimanda altrove, come i sogni che si riallacciano in una continuità di cui non è né facile né possibile rintracciare gli inizi e la regolarità. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pag. 62.




M. T. Verdirame, L’album dei percorsi, Ragusa. ed. Libroitalia. 1993. pagg. 62

La vita, il tempo, il loro intreccio, il loro articolarsi e snodarsi come in un “nastro della memoria” sono il testo di questo libro di poesie della Verdirame. 

Il nastro che si concretizza in immagini, simultaneamente, fissa i percorsi – impegni, sogni, emozioni, resoconti, speranze e partenze – in appropriati e seducenti fotogrammi che costituiscono, appunto, un album. 

E. Block direbbe che la produzione della poetessa è attraversata, poeticamente, dalla “malinconia dell’essere” e dalla “nostalgia del non essere ancora”, visto che, comunque, il sogno come proiezione e possibilità di ricominciare rimane una dimensione viva e lievitante. «Ricominciare / come se la vita iniziasse / domani / raccogliere respiri / … / stupirsi ancora… 

Privi di punteggiatura interna per aderire quasi analogamente al dettato fluente e fluttuante del tempo, il filo del libro coniuga in modo efficace sia le unità concettuali del messaggio – le parole forti e virtuali di significati e sensi – sia le unità della coesione predicativa del verso, sì che la “comunicazione trova la via sia per la se-duzione estetica che per la complicità partecipativa”. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 47-48.




Lucette Junod, Verso un’altra dimora, ed. La Meridiana, Palermo, 1991.

Il libro di poesie Verso un’altra dimora di Lucette Junod è stato tradotto in italiano da Amalia Contino e pubblicato a Palermo. 

Lucette Junod, vivo il poeta mazarese Rolando Certa, frequentava gli “Incontri fra i popoli del Mediterraneo” che ogni due anni, voluti da Certa, si svolgevano a Mazara del Vallo. 

Verso un’altra dimora è un classico della poesia che sottende una visione spezzata della vita e della realtà, motivo per cui gli esseri umani, inquieti e in pena, cercando le cifre di una ricongiunzione possibile, di erranza in erranza, con il poeta tentano: -Ah! Saltare oltre le barriere/E correre verso l’acqua viva/Che sgorga da sotto i deserti». Orfeo riprova la discesa agli “inferi” per una “Ambizione cosmica”, ma le sue soste trovano gli approdi del freddo (parola che ricorre molto spesso nei versi di Lucette, e quindi emblematica), della morte, del deserto (“Sogno/Follia/Demenza”, “Vibrazione di luna/Sul fascino /Al vortice del tempo”, “Feralie noturne” e “Gli effluvi di Néroli”. 

Il linguaggio e lo stile, come ha fatto notare in prefazione Ida Rampolla, a questo punto, non possono che richiamarsi all’ermetismo e al simbolismo delle correspondances. Il verso ha l’andamento frammentato e una costruzione personalissima fatta, a volte, di versi monolessematici coesistenti, legati dalla tensione plurivettoriale del testo più che dalla sintassi dei singoli versi. 

Il costrutto poetico della Junod, per rispondere all’assunto movimentato del proprio viaggio, risulta dinamicamente vivacizzato dall’uso della poesia in verso e in prosa, della pagina bianca e del verso bianco. Giocano anche la dispositio, la sostantivazione degli aggettivi (“feralie, nérule”), le contraddizioni semantiche (“Fiori morti sempre vivi”) e altre chiavi retoriche. In esergo la intertestualità petrarchesca. 

Mi affascina pensare alla serittura della Junod come alla caduta della luce nel lago dello spazio-tempo della pagina bianca che provoca, per successivi e intrecciantesi cerchi e vortici, diversi “coni di eventi”. Qui la parola-evento del cono del passato condiziona la parola-evento del cono del futuro, rimanendo salva la “singolarità” dell’altrove -il verso dell’altra dimora- che si trova fuori dalla superficie dei due coni. In questo altrove, infatti, si possono saltare le barriere, vedere scorrere “l’acqua viva”, “…il sangue della memoria ferita” e “Immobile/In mezzo al deserto/La carovana” che “Insegue il suo sogno”. 

I fotoni, di volta in volta, sono parole ricercate e raffinate, esatte, rapide, leggere e visibili come se seguissero le “lezioni americane” di Italo Calvino. Ci sono anche fotoni fossili, i “rumori di fondo” di versi assolutamente indecifrabili, ma complementari al dettato della poetessa svizzera. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 66-67




 La poesia attraverso le persone

Il mondo della poesia di oggi è un insieme di eventi particolari e di effetti “farfalla” che poco hanno a che vedere con quello determinato della chiusura e della perfezione dell’universalità classica sia nella sua forma antica che moderna. Gli eventi che la costituiscono infatti sono un complesso di processi chiusi e aperti, e soprattutto locali, dove le contraddizioni che ne attraversano il tessuto la individuano come esplosione e ramificazione imprevedibile di declinazioni e coniugazioni sintagmatiche che dicono e contra-dicono. 

Un simile tessuto. si potrebbe dire, assume una logica stocastica e polivalente che ingloba come caso limite quella bivalente della significazione non contraddittoria e del senso lineare e sequenziale del verso tradizionale. Esso valorizza sia il vecchio che il nuovo della sintassi e delle trasgressioni “farfalla” che non sempre sono riconducibili a scarti rappresentabili. L’obliquità, infatti, della diagonale creativa. come punto plurale di diramazione della costruzione e della con-figurazione radioattiva del verso e della poesia, ha una dicibilità predicativa non sempre decidibile ed esauribile nella presenza del solo visibile in atto. 

La poesia così si fa verso perché si individua come attraversamento di “maschere” o persone che transitano da una sponda ad un’altra della riva, che simultaneamente è interno ed esterno perché bordo aleatorio di uno spazio. quello della pagina o della videopagina, che simula la fluenza del tempo. 

La poesia stessa così è sempre un sinolo indeterminato e determinato. un albero che gemma fiori non riconoscibili e noti. un tutto che non coincide con le sue parti, un insieme equipotente ai suoi sottoinsiemi e nello stesso tempo non equipotente. un ologramma dinamico di aperte “maschere” virtuali. 

L’insieme-testo della poesia. come direbbe l’antinomia del mentitore o quella autoriflessiva di Bertrand Russe!. è un insieme né chiuso né lineare; è “generico” quanto specifico e affermativo. La sua logica. infatti. è quella plurale del nostro tempo. che non fa più scandalo se non per il fatto che si sta consolidando con ritardo rispetto a quella imperante e riduttivistica della tradizione classica o dei testi della non contraddizione. 

Ora. in quanto equipotente alle sue parti, un simile testo contiene se stesso come parte. ma in quanto parte di una potenzialità in-finita non può più contenersi come insieme equipotente perché è continuo trascendimento, meta-phérein. – continuo movimento oltre/altro. medesimo/difTerente nell’apertura delle contraddizioni e delle nuove configurazioni. Le contraddizioni logico-linguistico-semantiche e le diverse configurazioni di senso sono però le contraddizioni e le emergenze creativo- materiali non contraddittorie della contingenza delle cose cui la poesia si riferisce e dice nell’inarrestabile processo della simulazione e dissimulazione che Ferdinando Pessoa ha definito del “fingitore”. 

Le parti, infatti, che qui sono la lingua e i linguaggi, i suoni, la luce, l’immaginario-razionale e il razionale-immaginario, il fattuale e lo sperimentale (in una parola il re-ale(a) – dire il caso-) nel loro mettersi in verso, percorrono un tragitto simulato che rassomiglia più ai fiordi e alle coste accidentate che a un moto rettilineo e uniforme. Esso è infatti rettilineo e curvilineo. fluente e fluttuante, fatto di cadute e di angoli, di declinazioni e coniugazioni, di catastrofi e biforcazioni, di necessità e di alee che richiamano il moto delle nubi o le traiettorie di un corpuscolo browniano. È il tragitto, in altre parole, della contingenza di tutte le variabili e perciò stesso intreccio e tessuto di relazioni dell’ordine caotico, che, poi, trova il suo assetto nel contesto del testo a partire dal tessitore della coscienza del soggetto poetante. 

Qui la coscienza però è sempre cum-scio (taglio e decisione) per delle relazioni che hanno il medium non nell’«è» statico del verbo essere della tradizione occidentale, bensì nel kann (la relazione dinamica dell’«è» del verbo essere della cultura araba che del dire fa anche un contra-dire). E se la coscienza è decisione nel taglio. il problema della poesia attraverso le persone diventa allora il problema della temporalità-tempera poetica che fa emergere le mille “maschere” che hanno fatto la storia e tante storie narrativo-poetiche. 

È il tempo del poeta come tempo tagliato, mescolato, temperato o dei corpi miscelati, come potrebbe dire il filosofo francese Michel Serres, il tempo della con-tingenza che il poeta è portato a isomorfizzare simulandolo. È solamente la simulazione, infatti, che, fingendone la complessità concreta, consente al poeta di dire e sentire – pensare -, cantare il tempo-essere-realtà con le sue persone-maschere. Rimanendo all’interno del processo temporale o tirandosene fuori, dicotomizzando e/o plurivocizzando il rapporto tra un dentro e un fuori, il poeta, allora, «versa», filmandola, la molteplicità nodale della contingenza stessa. Il risultato però è sempre un determinato mondo chiuso e aperto allo stesso tempo e un esito paradossale. Un paradosso che sconvolge le persone e le coscienze non meno dei paradossi che attraversano e fondano tutte le altre forme di sapere. 

Comunque, però, il poeta isomorfizzi e simuli il tempo nelle sue varie articolazioni intermittenti, i paradossi e le contraddizioni rimangono. Essi sono la non linearità zigzagata della sua tensione e della sua calma tempesta, mentre la poesia ne è il verso, i versi del suo vertere nelle cadute d’angolo e nelle relative diramazioni che dialettizzano il campo semantico della realtà-finzioni verso verità ulteriori. I corpi miscelati del “taglio” – il tempo come tempera – diventano così le persone relative dell’io romantico, del tu dell’ode, dell’egli dell’eroico, degli esseri immaginari, dell’identità trascendente (Dio, sacro) o immanente (la coscienza), della narrazione e dell’ironia più o meno dissacrante, ecc., di determinati universi in permanente ricomposizione. 

L’artefacere, il poiein qui non può più quindi aspirare all’universalità del proprio prodotto poetico. Le diramazioni e le biforcazioni sono locali e relative alla strutturazione del dire le circostanze con più o meno accentuata comunicazione immaginativo-razionale e aderenza ai testi delle maschere del caos o delle virtualità mescolate dello spazio-tempo storico e dei “modelli” culturali che si impiegano per tra-durli nella poesia dei versi. Il genere chiede piuttosto la specie e il singolo come testo specifico e contingenza concreta e non l’astratta universalità. 

Il dire del poeta, inoltre, ha una praxis che, appunto, in quanto legata alla parola del dire, alla lexis, è una attività tanto ambigua quanto imprevedibile. Essa tende infatti piuttosto a differenziare che non a uniformare la singolarità 

dell’emergenza verbale e segnica dei poeti. Il fatto dipende dalla stessa lexis che è azione e relazione fra soggettività che si individuano solo nella molteplicità plurale di persone, che essendo differenti possono cercare le analogie solo nell’ospitalità delle strutture comuni delle sintassi linguistiche e grammaticali tradizionali. 

Nel foro interiore- esteriore della coscienza del poeta, la poesia si presenta così come verso che è dis-corso di un per-corso di fessure che versano le cadute dalle quali provengono le derive poetate, le emergenze stocastiche delle solarità lunari o dell’ironia luminosa e leggera o dura, tagliente e/o sconvolgente, per dire anche altre forme del poetare nella nascita di un’altra e nuova razionalità plurale. 

E, forse, oggi, la nuova razionalità è quella di ripensare i mondi e i saperi nei limiti della con-tingenza. Questa, infatti, mentre fissa gli ordini e i ritmi delle cose, ricorda che gli stessi sono dis-ordini e “resi” nel rhein che si fa direzione e gusto sano del gioco del “verso” delle forze. Qui, allora, le “persone” della poesia dovranno cogliere le tensioni del flusso e fissarne le deiezioni nelle con-figurazioni che si fanno dis-forme, per riaffermare il piacere della vita e farla risposare con il suo stesso poiein plurale. È nella traccia-treccia dell’intermittenza creativa delle parole e dei sintagmi delle figure, che via via assumeranno l’aspetto del verso atomico, molecolare, ritmico, aritmico, continuo e discontinuo come ronda corpuscolare dei campi quantizzati, che le “persone” della poesia dovranno allora ripensare la tra-dizione come tra-duzione di un multiversum che, continuamente, di volta in volta, si è solo posto in un determinato universo: quello degli “eroi” di ieri o di oggi. 

Antonino Contiliano

• Le relazioni di A. Contiliano e di R. Tschumi (nella foto), La poesia attraverso le persone e Sur la traduction poétique rifatte per “Spiragli”, sono state presentate dagli autori al V Symposium degli “Incontri poetici internazionali” che ogni due anni si tengono a Yverdon-les-Bains-Neuchatel, nella Suisse Romande.

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 25-28.




 La poesia e la fine del secolo (*) 

Questo XX secolo è alla fine. ma con la sua fine non verrà certamente quella della poesia. Direi piuttosto che il peso della poesia e il suo indice di gradimento. oggi, sono più elevati che in altri periodi. Non alludo soltanto alle pubblicazioni, ai convegni che ad essa si dedicano. Penso anche alle citazioni. ai riferimenti che si trovano nei libri di filosofia, di scienza ed arte in genere. Persino i politici ufficiali, durante le interviste e i convegni, amano fregiare i loro discorsi con riferimenti testuali e poetici. 

Tutto questo, naturalmente, per dire, in breve, quanto vitale sia la poesia e la pressione dei suoi sensi e significati, mentre un secolo carico di rivolgimenti planetari e interplanetari ci sta lasciando. La sua scomparsa però non lascia il vuoto e il nulla bensì un carico progettuale che investe di enormi responsabilità tutti e in specie i poeti. Quegli uomini cioè che, comunque, disse Mahmud Derwish, scrivendo poesia nell’era dell’atomica, sono soggetti rivoluzionari. Faccio mio questo concetto e dico che ciò è valido ancora nell’epoca del postatomo, nel tempo cioè delle guerre stellari al laser o nel tempo, il nostro, della distruzione irresponsabile dell’ordine degli ecosistemi. 

Ma non è di questo che desidero parlare, bensì delle nuove frontiere e delle nuove possibilità che questo secolo morente ha aperto alla poesia, e che, secondo me, sono quelle della quasi fusione (fatte salve le differenze) dell’immaginario-reale della poesia con quello della scienza e delle sue esplorazioni, quello dell’interscambio dei loro linguaggi e delle loro logiche teoretiche, una soglia dove si verifica une vento unico: il reale si fa immaginario e l’immaginario si fa reale. 

Un mondo questo, per dirla con Edgar Morin, dove il pensiero autentico si mantiene alla «temperatura» della propria ebollizione e distruzione, e l’incertezza attraversa la «vera conoscenza». Un mondo cioè che vive in una ricerca e in una interrogazione che sono permanentemente fare e crisi: taglio e decisione, specie se il terreno di indagine è quello della complessità in cui viviamo e che in fondo siamo, come un tessuto intrecciato di tanti fili e colori. 

Paradossalmente il futuro della poesia, in questa fine secolo, è stato preparato anche dalla scienza attraverso quelli che possono già essere chiamati i viaggi negli spazi interplanetari e nell’infinito, la cui paradossale dimensione di eterno e temporale è stata sempre cantata dai poeti come una tensione e una ferita ora dolorosa ora felice. Dico paradossalmente perché la scienza, che si è sempre contrapposta al sapere e alle esplorazioni dei poeti e del loro vissuto, oggi, invece, porta concretamente l’occhio, il vedere e l’estetico delle sensazioni dell’uomo in quelle regioni dell’infinito spazio-temporale che era stata la dimora privilegiata dei sogni del poeta. Questo immaginario, con tutta la forza delle sue vibrazioni vitali, ora viene processualizzato e quasi attualizzato senza nulla perdere, però, del suo fascino nascosto e lunare. 

La morte dei secoli, come abbiamo imparato dalle metamorfosi delle cose e della storia, coincide sempre con la nascita e la vita di altre dimensioni e di universi altri. La fine di un secolo è perciò solo una tappa nel transito di kronos e di quella infinita modalità della natura, il cui delirio creativo è stato già cantato da un poeta come Lucrezio. 

La scienza, come il potere delle sue ricerche teoriche e delle sue realizzazioni ai limiti della fantascienza, non solo infinitizza la poesia perpetuandola come creatrice e compagna di viaggio, ma ne chiede, ove gli strumenti euristici le difettano, i mezzi linguistici e logici. Niels Bohr, uno degli scienziati forti di questo secolo nella ricerca della «consistenza» delle particelle elementari e delle virtualità del mondo subatomico, ebbe a dire che quando l’analisi scende a questi livelli, dove cioè non c’è più il vedere e il rappresentare, lo scienziato deve usare il linguaggio del poeta. Gli strumenti euristici cioè della retorica poetica, come le «congetture», le metafore e le analogia, per esempio, se vuole far vedere l’invisibile, dire l’indicibile, finitizzare e determinare l’infinito. 

Cosa di più bello e meraviglioso, nel futuro secolo, di questo connubio felice della scienza con la poesia? I prodotti della loro praxis si somigliano così tanto che possiamo affermare senza scandalo che gli universi del sapere scientifico sono altrettanto derealizzati e fantastici di quelli creati dai poeti che possono quasi interscambiarsi. 

E cosa dire della logica, delle logiche o di quelle loro parti e funzioni come le contraddizioni, i paradossi, le ambiguità, ecc., che ieri erano appannaggio del solo poeta e oggi sono elementi integranti della struttura della scienza contemporanea? 

Proviamo a pensare solo per un po’ (facendo qualche semplice esempio) alle contraddizioni del principio di complementarità dello scienziato atomico quando deve parlare del suo campo di onde e corpuscoli. di continuo e di discreto o discontinuo, al principio di indeterminazione di Heisenberg per determinare posizione e velocità di un elettrone; pensiamo per un po’ al vuoto quantico, alla nuova geometria dei frattali. agli «effetti farfalla. o sensibilità alle condizioni iniziali di certi fenomeni non prevedibili delle scienze del caos, alle loro combinazioni di turbolenza e coerenza, alla chiusura e apertura, dipendenza e indipendenza dei sistemi autopoietici, al tentativo di imprigionare gli eventi stocastici, aleatori e contingenti, e poi chiediamoci se questa non è la logica del paradosso e dell’ossimoro – l’acuta follia – del poeta. L’acuta follia del poeta che cerca di afferrare. di comprendere la contingenza dell’attimo nella sua complessa concretezza: il luogo-tempo-energia dove l’essere e il non essere, la vita e la morte. il gioco delle metamorfosi è una sfida perenne ai confini e l’attimo non è più l’atomo del tempo ma appunto il cum-iangere – la contingenza – di tutte le dimensioni del reale, compreso l’immaginario della poesia. Poesia che dalla fine di questo secolo riceve la linfa di nuove forntiere e nuovi termini linguistici per esprimersi anche in una nuova sintassi. 

Antonino Contiliano

* Relazione tenuta al Symposium per il 29° Incontro internazionale di poeti a Struga il 24 agosto ’90.

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 6-8

 




 L’io in-composto di Angela Scandaliato 

Algoritmi del Cuore, Palermo, ed. Il Vertice, 1987. 

Più che una coscienza inquieta, la poesia di Algoritmi del Cuore di Angela Scandaliato, con premessa di Gaspare Giudici e una post-fazione di Pino Amatiello, ci dà lo spessore di una coscienza «in-composta»,lacerata dal vuoto del fondamento delle «certezze consolanti» dove, profugo della ragione, l’io della poetessa cerca o si trova nei luoghi del labirinto, della memoria e del mito come un ritrovarsi retro, quasi un ritorno all’antico ma per interrogarlo. 

L’hybris si consuma attraverso una serie terminologica d’attacco pressante e senza indulgenza: brandelli (termine ricorrente anche nella prima raccolta della Scandaliato, Intermittenze mediterranee: quasi preannuncio), rifiuti, rottami, straniero, spettri, ecc., e una costruzione del verso libero dall’interpunzione e segnato dalla parola emblematica: Eros, Caos, Cosmos, Medusa, Grazia, Gioco, Sisifo, ecc., quasi a concretizzare, esistenziare, nel grafema e nella grammatica sintattica e semantica, questa situazione di angosciata interrogazione. Una interrogazione che erra nell’ambivalenza semantica della crisi: crisi come perdita di identità e crisi come scelta di un nuovo iter. 

La parola singola, che, nella composizione, si pone come verso d’attrazione particolare, e il mito, in Angela Scandaliato, spesso assumono uno statuto figurale, simbolico, che si fa carico, con tutta l’incidenza dell’allusività polisemica, di filtrare prismaticamente la realtà del presente, non escluso un pizzico d’ironia nei suoi esiti politico-culturali ed etici: «Le tue pause hanno il sapore/dell’acqua gasata tante bollicine/frizzanti sull’aridità che la zanzara/aggredisce ronzando sul biscotto/del vin santo spezzando eleatici sguardi d’esistenze intermittenti/E la morte di Dio e quella di Nietzsche/e l’ultimo canto di Saffo è il/nostro canto quotidiano» (ivi, p. 60). 

«Il tragico sommato/del tempo» di Angela Scandaliato, i cui addendi sono anche il linguaggio della nostra epoca tecnologica, se ha un procedimento «risolutivo», un algoritmo, è quello del cuore, di questo navigare nel mare (dove centro e periferia si dilatano infinitamentre come un labirinto che si slarga e cresce su se stesso) che ha il proprio «calcolo» – una posizione precisa, netta e chiara – nei confronti di quell’«ordine» e di quella verità intollerante per cui Garcia Lorca morde «canti del sale». 

Pascal, forse con Algoritmi del Cuore non divide più l’ésprit della ragione e l’ésprit del cuore. La loro con-fusione è in cammino? 

Antonino Contiliano 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 43-44.




 L’etica dell’evento e della contingenza 

Elisabetta Donini, La nube e il limite. Torino, Rosenberg & Sellier ed., 1990, 

“Evocata da una donna. la sostanza invisibile della nube di Cernobyl si materializza nel concreto del vissuto quotidiano. svuotando di senso ogni poesia ed incantesimo. Nelle riflessioni di un uomo. le tracce metaforiche dei cieli della conoscenza segnalano come attorno a ciascun soggetto si condensino dei nuclei di sapere che in tanto sono significativi, in quanto sono limitati.” (ivi. p. 7). 

Certo è che se la nube è quella di Cernobyl o di Seveso o Bhopal o di S. Hussein, lo scud – nuvola leggera spostata dal vento (i missili iracheni che avrebbero dovuto portare le testate chimiche della “madre di tutte le battaglie” nella guerra del Golfo) -, contro cui venivano usati i patriot americani insieme alle “bombe intelligenti”, allora è piuttosto possibile che l’immaginario della nube si perda nel disincanto e nella paura, dal momento che la tecnica ne ha fatto un veicolo di morte, di malattia del corpo umano e di entropia della qualità della vita. 

Tuttavia, pur con letture diverse, la prima di Cristiana Wolf (“evocata da una donna”), e la seconda di William Thompson (“nelle riflessioni di un uomo”), la nube, nel testo della Donini costituisce. a nostro parere. metafora di saperi e pratiche diversi. 

Essa, infatti, con la sua capacità autorganizzativa in forme sempre differenziate e sostanzialmente imprevedibili, segna una cultura della relatività, dell’evento e della contingenza. Del resto la sua storia come simbolo, sia nella storia del pensiero occidentale che orientale, è tracciata come perenne metamorfosi o fonte creatrice di forme-mondi sempre diversi e in perenne movimento senza “legge” e azione comunque intesa a rimuovere il “limite” delle cose. 

Per il cinese taoista c’è un ordine intrinseco e spontaneo della natura – wu wuei (non-azione, appunto o azione spontanea) -, per cui i suoi processi sono continui e regolari anche al di fuori (anzi) di una legge e di una azione dettate esternamente da Dio o dall’uomo. Diversamente invece accade nella cultura occidentale del passaggio dell’universo finito a quello infinito (ivi, A. Koyré). 

Seguendo Joseh Needham (ivi, p. 213), oltre che le origini del pensiero filosofico greco e la configurazione moderna dello sviluppo della scienza, la Donini, infatti, fa vedere, in maniera suggestiva ma anche argomentativamente serrata e congetturalmente fondata, come il concetto di legge e di azione abbiano caratterizzato il mondo occidentale e lo abbiano anche connotato tragicamente con i tratti della violenza, del dominio gerarchico e di potenza. Un dominio e una violenza rivolti sia contro la natura, che gli uomini e le donne, dei maschi contro le femmine e la natura, specie, allorquando nell’età moderna, passando da una concezione organicistica della realtà a quella del determismo meccanicista del sapere aude dell’uomo Jaber, si è affermato il mito dell’uomo -dio (o “dell’uomo maschio bianco borghese, come l’ha chiamato la stessa autrice) con tutte le implicanze di ordine etico e politico che ciò ha determinato sia sul piano dei rapporti tra le persone che tra gli stati. 

L’uomo-maschio-borghese occidentale ha trasferito l’idea di legge e quella di azione creatrice, produttrice e riproduttrice, dall’ordine sociale a quello cosmico come norma e atto imposti dall’esterno: Dio-Padre o uomo (o rovesciando i termini) ha voluto modellare il mondo umano a immagine e somiglianza delle leggi e dell’ordine presupposti nella/della natura. Le leggi svelate dalla ricerca scientifica sono manipolabili con i ritrovati della tecnica in maniera oggettiva, impersonale e con procedure universalmente valide. Nell’uno e nell’altro caso si è sempre fatto appello ad una necessità indiscutibile e inappellabile. Essa è stata quella della cultura della verità assoluta. Assoluta, necessaria e universale perché sottratta alla concretezza della contingenza e dell’evento e ridotta agli schemi astratti della simulazione logica del laboratorio, fino ad arrivare alla dematerializzazione e derealizzazione della guerra del Golfo, battezzata “tempesta nel deserto” dal piano americano di aggressione al nemico iracheno. Qui gli obiettivi militari e civili sono diventati schermo per wargames: simulazione informatica e scacchiera da “guerre stellari”. Le cose e le persone sono diventate impersonali inquadrature di punti e coordinate spazio-temporali sullo schermo dei computers calcolanti la quantità e la qualità della distruzione e della morte. 

Una scienza, una cultura al servizio del potere e del dominio a tutti i costi, capace di rimuovere qualsiasi “limite”. Un sapere e una pratica dell’aggressione gratuita e folle, senza rispetto per le interdipendenze e la coordinazione sistemica che vige nel multiuniverso. 

Dalla cultura violenta della gerarchia e del dominio della verità assoluta, il libro della Donini pone l’emergenza di una cultura al “femminismo”: la cultura della relazione, della correlazione, delle interdipendenze legate alla coscienza del “limite”, che, come dice la sapienza cinese del Tao, non sempre va forzato. Il limite così si connota come una dimensione trasversale che: 1) nella conoscenza impone una relazione di interdipendenza dinamica soggetto/oggetto, soggetti/soggetti, soggetti/mondi, 2) in etica attenziona la responsabilità dell’interconnessione tra l’affermazione di sé, il riconoscimento dell’altro e della natura, 3) nei rapporti tra le persone e il mondo sottolinea la reciproca compatibilità delle parti del sistema, anziché il dominio di una sulle altre. 

Il testo è una denuncia continua e serrata della logica del dominio sia della scienza e della potenza che del modello capitalistico e neocapitalistico, aggressivo e manipolatorio, che alla scienza si rivolge per trovare giustificazioni al proprio modo d’essere. Dalla stessa l’uomo-maschio ha tirato fuori una concezione e una visione della verità che, sessualmente penetrando la materia e la donna, le subordina alla generazione passiva di sempre nuove creature. Persino la “fissione” del nucleo di uranio penetrato dal neutrone ripercorre questa strada: dalla divisione dell’atomo, come dalla divisione cellulare in biologia, si genera, viene alla luce, nasce il “Little boy” (ragazzino) e il “Fat man” (uomo grasso): le prime bombe atomiche che distrussero Hiroshima e Nagasaki. 

Non dissimili dalla logica del dominio è quella del “dono”: anche questo è un venire dall’esterno, specie se ci si rifà alla tematica della bioetica che guarda alla vita come a un dono, che, appunto per la sua origine, è un qualcosa che viene dal di fuori del proprio corpo, sebbene se ne vorrebbe salvaguardare l’integrità dagli interventi della riproduzione artificiale e dell’ingegneria genetica. Sulla questione del “mettere e venire al mondo”, poi, utilizzando certe riflessioni decostruzioniste del tipo di J. Derrida, l’autrice svela la pretesa innocenza e neutralità di termini come “procreare, generare, riprodurre”, che si riferiscono alla natalità. Procreare rinvia a un agire per conto di Dio. Generare rinvia al genus, alla stirpe, alla proprietà, alla trasmissione del patrimonio ereditario. Riprodurre rinvia a un modello meccanico di ripetizione di copie.

Queste sarebbero identiche a strutture date e statiche. Il modello è quello della “trascendenza”, di una separatezza della verità che, con protagonismo maschilista aggressivo e illimitato, crede di trasformare le cose con evidenza e certezza evolutiva incontrovertibile. 

Il modello “femminista” che la Donini gli contrappone, invece, è quello dell’immanenza, della co-evoluzione contestuale e plurale. Questo ha la mobilità e la consapevolezza della parzialità dei punti di vista, la contingenza e la provvisorietà degli eventi-fenomeni inter-agenti all’interno dei sistemi chiusi e aperti. U~ modello che’, cogliendo un pensiero di Lidia Menapace, si pone all’interno di un’etica della contingenza e dell’evento: “La parola ‘evento’ mi sembra carica della possibilità di comporre o almeno confrontare attivo e passivo, decisione e attesa, opzione e risposta. E in questo senso mi sembra una categoria di un pensiero politico che non oscilli più di continuo tra programmazione ed emergenza, tipico di chi non è in grado di realizzare davvero la portata solo eventuale delle proprie previsioni, né gli strumenti della flessibilità necessaria per capirne le logiche, le interruzioni, gli svolgimenti. Analogamente credo che sia importante costruire un’etica dell’evento, che ti consenta di prendere la decisione quando la devi prendere, con il senso del suo limite e rnormabilità” (ivi, p. 238). 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 49-52.




Il non della poesia di J .J. Padron * 

Un non attraversa tutta l’inter-rog(o)-azione poetica di Justo Jorge Padron de I Cerchi dell’inferno. È il non del «sono» che non si possiede più come amore, religio, luce, ma come fumo, ombra e buio. Il suo discorrere si scioglie tramite l’impiego di una parola-concetto che si raffigura e si oltre-figura nell’icastica ipotiposi di quasi tutto il bestiario che la tradizione poetica ci ha trasmesso e dello scenario visionario che la logica «architettonica» della poesia è capace di mettere in opera. 

È il non della negazione-dissoluzione che emerge prepotente e si fa pres-ente nella potenza del suo negativo con la stessa forza con cui il negativo stesso era stato respinto e ricacciato nel profondo della subcoscienza. Lo richiedeva la costruzione della coscienza, lo spazio di una «identità luminosa», perché l’uomo stesso potesse sfuggire alla vertigine nichilistica dell’abisso del suo non-essere. Qui, infatti, tutto sarebbe stato intollerabile e terrificante equivalenza. 

Simboli e allegorie sono gli strumenti espressivi e comunicativi logico-emotivi di un referente – dell’un di un uomo culturalmente determinato – che, nel durante dell’inter-rog(o)azione o azione-durante-l’interrogazione poetica di Padron, ha lasciato l’un della sua natura storico-temporale e problematica-mente in-determinato per farsi reificata astrazione onto-logica, sintetizzarsi e ipostatizzarsi erlebnis universale e metafisica. 

Una astrazione così ipostatizzata che riduce l’in-determinatezza événementielle 

dell’un alla determinatezza immutabile del metafisico lo (l’uomo), assorbendo la molteplicità degli uomini nella unità di una identità eterna e morta, in un assoluto che è «desolazione», «…totale assenza della vita». 

Io «Sono l’uomo!/Io sono tutti gli uomini», dice, infatti, epigrammaticamente, ad apertura della propria opera, il poeta e, successivamente, «…SONO L’UOMO! /Io sono tutti gli uomini», «L’immagine futura della terra/è lo specchio di questo inferno». L’operazione di astrazione è portata avanti con un insistente e rilevante processo di metaforizzazione e di straniamento al fine di focalizzare massivamente la tematica e di con-centrare, catturare l’attenzione del lettore sull’ethos e il logos che lo percorrono in maniera, direi, disambiguata, dove il codice a volte rimane inalterato e i rapporti logici del giudizio sono affidati al connettivo logico del non trasgressivo: «e l’acqua non tornò più ad essere acqua». 

Questo è un processo che Padron segue con un impiego piuttosto martellante delle armi della retorica poetica – personificazioni, esclamazioni, inversioni, anafore, diafore, metonimie, la similitudine e l’analogia del come metaforizzante – e con l’uso di una punteggiatura che spesso fa coincidere l’unità semantica del verso con quella metrica del verso chiuso (sebbene non trascuri l’uso del moderno enjambement) in un procedere sintattico dove coesistono legami ipotattici e paratattici. 

Non è ignota al nostro poeta neanche la capacità di rivitalizzare, in un contesto consono e abilmente costruito, la vecchia metafora del re Mida (che trasformava in oro, per punizione, tutto quello che toccava): «Come Mida del fumo, tutto sto tramutando/in tenebre. Non esistono né il mare né le pianure,/né uccelli, né risa e neppure lacrime. /… /… Ormai sono un fumo nero/come la storia che si dimentica, un fumo nero/come le palpebre serrate delle pietre». Poco spazio, a volte, sembra venga lasciato a quelle che oggi vorrebbero e potrebbero essere le esigenze di una semantica estetica dell’opera aperta alla U. Eco o di una estetica della «ricezione» alla Jauss, se la poesia di Padron non avesse quella aseità polisemica che è caratteristica peculiare della poesia moderna. 

La cattura dell’attenzione, per una sicura comunicazione informativa dell’ethos, appare dominante, e tutto il lavoro della systasis poetica, con la sua pittogrammatica inquietudine boschiana, appare volto a sottolineare senza equivoci il mutato rapporto percettivo dell’autore con l’uomo e il mondo. Questo nuovo rapporto percettivo però non si esaurisce solamente in una dilatata sensibilità estetica, perché, contemporaneamente, viene coinvolto il mutamento dei comportamenti e dell’apparato ideologico nel senso più lato. 

Non si possono non notare infatti gli effetti di radicalizzazione logico-estetica- 

ideologica di certi giudizi copulativi e congiuntivi che (oltre il bit informativo della binaria logica classica) fanno risaltare il «climax» dei sostantivi, dell’aggettivazione e delle forme verbali, con evidente intenzionalità di nuove referenzialità informativo-culturali proprie della logica intensionale, che è anche in-tensionalità poetica e tensione del poeta stesso. Una tensione che consente al poeta di innescare, nel contesto di tutta l’opera e all’interno di ciascun testo, un simultaneo processo di vitale ambiguità semantica (per gli assurdi e le polisemie che lo pongono nell’essere della scrittura) insieme a quell’altro del disambiguamento di cui si parlava prima, sì che ne risulta una vivace dialettica che dinamizza tutto il discorrere poetico dell’opera. 

Per connotare la sensibilità e la tematica di Padron sono stati esclusi Dante e Sartre e sono stati chiamati in causa Goya e Bosch: forse è il «nada nada» del «fantasma» di Goya che traduce meglio il terrore e lo stupore del vuoto e del nulla che Padron scopre «vivo» nell’immanenza dell’essenza antropologica dell’atomo-individuo che non la voracità sartriana dell’altro o l’inferno della teologia cristiana di Dante. Forse il diabolico immaginario e surreale barocco di un Bosch meglio si presta per visualizzare le luci-fere smagliature di una écriture poetica che dia-bolizza il tessuto di una presunta epoca d’oro dispiegata della luce e della ragione, quale avrebbe voluto essere quella moderna della scienza o quella trasparente del «villaggio» totale di McLuhan, se non ci fosse l’ipoteca del «1984» di Orwell. 

La scrittura poetica di Padron, infatti, sottolineando lo spessore della disgregazione e del vuoto che occupano gli interstizi dello spazio-tempo conquistato dall’uomo, ce ne rende in gigantografie l’oscuro e le incertezze violenti – «il mondo è il terrore, e l’incertezza» – con scene sempre più spettacolari. I rumori di fondo e di primo piano non debbono attutire la vigilanza della coscienza e nascondere quel non del «sono» che è contemporaneamente una domanda di vita e di morte, di costruzione e di distruzione, di luce e scuro da quell’essere-possibilità materiale e infinitamente aperto che è «fondamento» dell’esser-ci. 

Ora questa tragica strutturale consapevolezza non costituisce, a parer nostro, solo il pre-testo dell’inter-rog(o)-azione poetica o dell’azione-durante- l’interrogazione di Padron, essa è anche il luogo della resistenza che, secondo noi, per analogia, rapporta in termini nuovi il poeta spagnolo alla generazione d’oro del ’27. Artur Lundkvist, infatti, nel prologo, dice che Padron «ha coronato le ambizioni della giovane generazione dei poeti spagnoli, un prolungamento modificato dell’epoca d’oro lirica della generazione anteriore alla guerra civile». La resistenza di questo «Mida del fumo» è quella della lotta all’«appestato» o a quel «nemico» che è l’uomo stesso come nemico di se stesso. Una lotta contro quella forza distruttiva che Padron, servendosi della poesia e del suo lirico «impegno», porta avanti con decisione, come ieri hanno fatto i poeti del ’27 nei confronti delle dissoluzioni portate avanti dalle forze del fascismo franchista ed europeo e contro la peculiare disgregazione del soggetto e dell’oggetto, della/e verità della nuova epoca di massa, un’epoca che demonizza il novum e sacralizza la ripetizione. 

Per quanto oggi sembra andare avanti la dimensione «favolistica» e deresponsabilizzata della fictio e dell’artificio di un universo fatto a immagine e somiglianza dell’immagine permanentemente metamorfosizzata, dove è diventato sempre più difficile, per non dire impossibile, individuare cause e responsabilità, Padron tuttavia riesce a farlo: vede «faccia a faccia» il nemico, lo prende e lo condanna nel suo stesso «inferno». 

Non diversamente dai poeti del ’27, l’«impegno» di Padron, per esercizio poetico, si connota e snoda poeticamente e, secondo noi, liricamente raggiunge punte di elevata resa in due componimenti (che riteniamo fra i più belli della raccolta): «Il sogno del ritorno all’infanzia» e «La donna della terra», del quale riportiamo qualche frammento: 

Il suo corpo era il profumo 

che inebriava l’ombra e la notte. 

Il suo collo era di marmo tiepido e ondoso fuoco, 

un arco nel silenzio totale della bellezza. 

Ma tropicali erano i suoi seni 

Due frutti che incendiavano il mattino 

con l’aroma della loro polpa aperta 

sparpagliata al sole. 

Con il lamento e il vento del lauro 

la cintola rotante. 

Bucchero del fiore. 

Il riposo arancio. Mezzogiorno. 

Antonino Contiliano 

*Questo saggio di A. Contiliano, che pubblichiamo in anteprima, costituirà l’introduzione di Los Cìrculos del Infierno di J.J. Padron, tradotto in italiano da F. Chinaglia, e sarà pubblicato a cura della Libera Università di Trapani. 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 23-26.




E. Bonventre, Leone assiro, ed. Tracce, Pescara, 1993, pagg. 36

Rileggere le poesie di E. Bonventre alla luce del quadro interpretativo offerto da P. Valery per guardare la complessità – l’imprevedibilità essenziale -, questa è l’intuizione che mi è rimasta dopo la lettura. 

I titoli delle poesie fanno da cornice certa e referenza culturale classica inequivocabile per seguire lo stile del verso che, tra il modello epigrammatico e quello aforismatico, snoda il dis-corso delle emergenze poetiche. La figurazione e 

riconfigurazione possibile e continua dell’immaginario-reale, che vitalizza le poesie, si esistenzia però nell’incertezza dei paradossi autoriflessivi – (<< ••• / La Storia non consiste! / Ciò che pensa il grande Fratello / è sempre più Storia della Storia di prima») – o prende voce nella seduzione errante con cui, personificati metaforicamente gli elementi e fattane trasgressione semantica, il poeta, vago ed evocativo, sogna di una zeriba che raccoglie la voce del vento della “libertà Mandela” o di una chimera: «Un’altalena il mare / unico amico il mare / perché ti ricordo?». 

Intreccio di classico e di contemporaneo, la poesia di Bonventre è certamente traccia e testimonianza di come il linguaggio poetico, accanto agli altri linguaggi della società tecnologica, conservi intatta la propria vitalità e una propria ricerca ineliminabile per dire la pluralità delle cose. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pag. 48.




Domenico Cara, Bajlcàl, Milano, Editrice grafiche abidue, p. 1324

 Non posso evitare di dire che ho letto Bajlcàl, l’ultimo libro di poesie di Domenico Cara, che fra l’altro è una penna che non scrive solo poesia e di poesia, in compagnia delle indicazioni di percorso che lo stesso autore ha dato con una sua nota a fine testo e di quelle dell’introduzione di Mario Lunetta, che, a sua volta, cita, la figura del “poetaforista” di Stefano Lanuzza. 

Bajlcàl è una raccolta di poesie che si suddivide in quattro parti: Arpa omofona, Charme assoluto (monoloquio sull’altrove), Flotiglia dell’orsa e Camera delle similitudini. 

Non azzardo nessuna cucitura tra questi quattro sottoinsiemi e l’insieme della raccolta. 

Dico solo che parole-luoghi come “interrogazioni, tempo, ironia, metafisica, logos, contingenza, caduta, altrove, lineamenti di realtà, aliquota del quotidiano, piazza, trascendenza, il punto dell’effimero, caso, caos, aleatorio, ecc. , erano quelle/i che mi prendevano con più insistenza e che più di ogni altra rete di connessione si ponevano come centro di gravitazione orbitale nel tentativo di un mio rapporto più ravvicinato col detto e il non detto della poesia di Cara. 

Non saprei spiegare perfettamente perché, ma sicuramente cercavo un filo, una trama, delle tracce, dei frammenti, anche aforismatici, a me familiari e da utilizzare come tali per “colloquiare”, si fa per dire, con il testo del poeta nel suo flusso di “accumulo barocco”, interrotto dalla necessaria discontinuità della scrittura e della scrittura poetica in particolare che si concretizza nella polimorfia del verso. 

Mi sono venuti in aiuto due versi di Maurice Blanchot – “Parlava, andando di parola in parola / per consumare la sua presenza” – che Cara ha utilizzato a fronte come segno d’incipit per la poesia Le trascendenze, l’attesa, l’oblio (p. 101). 

Domenico Cara, infatti, consumando le presenze sotterranee del «lago> , di Bajakàl nella consistenza della scrittura che si erode nella coesistenza oscillante tra profondità e limpidezza di pensiero e di sintassi, pone la sua poesia in un rapporto permanente di interrogazione col tempo. Un tempo che sosta divenendo in un ininterrotto seguirsi, senza principio e senza fine, di presenza e di assenza, dove la consumazione è una cancellazione senza la conservazione della memoria: il gioco dell’acqua del mare, ma anche del «lago>, quando il vento innesca il moto delle onde. 

“. . . la parole indicibile” così dice e non dice, e le “. . .cicali invisibili” consumando la loro invisibilità nella corporeità del canto cancellano il loro suono nei segni che vengono tradotti in scrittura, in un “ritorno” che Nietzsche chiama “eterno”. 

La citazione è un altro “luogo” dove Cara e Blanchot mi hanno portato, ma non chiedetemene una ragione logocentrica. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 82-83.