MUTEVOLE INGANNO 

Mutevole inganno 
è questa primavera fiorita, 
l’inerzia sempre in agguato. 
Tu sei un esile filo di luce, 
leghi il presente al passato. 
Il giorno breve 
sciogli in zampilli lucenti, 
germogliano fiori nel petto. 
Ritrovare la tua parola dolce, 
basterebbe poco per capire 
il ritorno dell’alba, la chiara, tenera 
luce del mattino. 
Rolando Certa 

(Il sorriso della Kore, Palermo, Il Vertice, 1985) 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 40.




 Una poesia essenziale 

Lucio Zinna. Bonsai, Palermo – Sao Paulo, Ila-Palma, 1989, pagg. 56. 

Esiste un filo conduttore tra le opere precedenti e quest’ultima, attraverso il quale si evolve un discorso continuativo. il cui sviluppo graduale permette all’autore di presentare, in maniera ampia e completa, le problematiche esistenziali, verificate però allargando l’indagine conoscitiva verso uno spazio vivente più vasto, varcando così definitivamente la cortina di silenzio che protegge i pensieri, privatizzati dalla paura di scoprirsi e di scoprire le proprie debolezze. 

Tramite l’analisi accurata di situazioni e di vicende personali, il poeta giunge, dopo ulteriori riflessioni, ad un riscontro dalle caratteristiche universali quanto mai evidenti. È un perpetuo travaso di lucide e razionali conclusioni, viaggianti su un binario unico, che inizia e finisce senza fermate secondarie. Si tratta della ricerca di nuove formule, per mescolare e coordinare le parole, ottenendo, con manovre da abile alchimista, uno stile raffinato, di grande effetto compositivo e terminologico. Esso rende la poesia essenziale, depurandola da inutili e superflui involucri strutturali, che, di norma, la appesantiscono con zavorra, utilizzabile soltanto per il galleggiamento persistente, di certe tendenze e correnti letterarie ormai stantìe. Ma l’elaborazione operata dall’autore, se da un lato rende agile e scorrevole la scrittura, raccogliendo valide ipotesi di sempre nuove sperimentazioni logiche, dall’altro propone una poesia che, al primo impatto, sembra fredda, difficile, chiusa, ma, dopo una successiva e attenta lettura, rivela aspetti di notevole interesse. S’insinua tra i versi una sottile e discreta velatura intellettuale, tessuta nel tempo con pazienza e tenacia, del resto, alquanto naturale, considerata la costante e ininterrotta permanenza del poeta, nell’ambiente letterario. 

Si aggiunga anche il persistere di un leggero strato d’ironia. addolcito dai ricordi, ricostruiti e rivisitati insieme ad alcuni avvenimenti legati al mal risolto meridionalismo, o meglio, meridionalità, tanto pesante da sopportare perché sempre imposta dall’alto, un’isola dentro l’isola, dove si attende ancora la libertà dai cosiddetti liberatori-conquistatori, senza capire che è necessario trovare dentro di sé la capacità di liberarsi ( «Preghiera per i liberatori»). 

Il simbolismo è un’altra arma, sciorinata dall’autore per mettere a fuoco quelle che sono le caratterizzazioni umane, cercando una possibile classificazione («Gli irreversibili»). Ma il rivelare le gelide e ostiche realtà della vita, accende il desiderio di fuggire in una ipotetica «Casablanca», giardino, eden di «Palmizi bianchi» e «Bianchi palazzi» dove si confonde il passato vissuto, con la voglia di vivere, seppur meno intensamente l’improvviso flash nella memoria di rievocazioni frammentarie, che impreviste tornano, ospiti del pensiero, sotto forma di brevi ritratti, istantanee riviste in piccole sequenze alternate. Restare dunque, e affrontare l’enorme cosmo cittadino, vivere, e sentirsi in trincea tutti i giorni, immersi in questa urbana follia, oppure scappare? È difficile fare una scelta, sempre che esiste ancora la possibilità di scegliere. Per Zinna il dilemma continua, forse non c’è soluzione, forse bisognerebbe invertarla, ma non è detto che in seguito il poeta non ci riesca. 

Maria Giovanna Cataudella 

da “Spiragli”, 1990, n. 1 – Recensioni 




Rossano Onano, Inventario del motociclista in partenza per la Parigi-Dakar, Ediz. Tracce, 1991 – Pagg. 54.

L’anello di congiunzione che collega la produzione poetica di Onano (Gli umani accampamenti – 1985; L’incombenza individuale – 1987) è la figura femminile, a tratti smembrata, analizzata sino all’inverosimile (….sullo scoglio tormenta la sirena / la chioma azzurra: vanno i capitani / di barche a vela con la stiva piena / di tesori, tarocchi, alberi nani / rari; pesano i pegni per le bianche braccia… »). Si distingue un gioco di parole e sensazioni, rimescolate con sagace ironia che raggiunge l’effetto direzionale cercato,voluto con energia e decisione, usando armi sempre diverse e pur uguali nel contesto generale del comporre lirica .coscienziosamente trasgressiva», non delimitando altresì nessun tipo di frontiere ideologiche, trasmigrate nell’evolversi del pensiero cosmico, .circonciso» in una esclusività propria, con ampio margine del .consenso inconscio». 

L’allegoria nasce spontanea, una naturale tendenza al convincimento -ermetico» del .dire» (•…A pensarci. sono tenuti a corrispondere / il toporagno e la cavolaia: peccato / quell’ultimo anno di lei, finalmente / provveduta di ali bianche… »), offrendo curiosità e intrigante penetrazione nella teoretica mentale del giudizio umano, non trascendendo dal divenire ricerca obiettiva. rigorosa verifica -dell’elaborare», nel segreto comparto dell’io» non disgregando il senso della realtà, mai sfuggita oltre le sembianze ottenebranti di immagini congiuntive della memoria. 

Notevole l’impegno essenziale nei versi, accerchiati senza il vizio della noia e del ripetitivismo. La continuità di una efficace indagine della .nuda. e dunque -vera» espressione dialettica, non cede il passo alla regressione accettazione di .stanca tolleranza» terminologica. 

Il lavorio di -ape operaia. non conosce soste per questo autore. mai pago del suo raggiunto .stile programmatico., così -dissimile’ nell’essere propagazione interconnettiva del frasario generico usato dai più. 

La trasparenza del dettaglio non si identifica nell’equiparare stemperare rivelazioni dogmatiche. 

Il creare poesia resta, dunque, sorgente inopinabile. al di là delle -personificazioni oggettive» usate per caricare di accattivante affermazione la silloge (il re Salomone. Cavalcanti, Angiolieri. ecc.). 

Il tabù psicologico, che frena e livella ogni nostra azione verso noi stessi e gli altri, contribuisce a -intossicare. il rapporto d’interdipendenza con la vita, unica alternativa alla -vegetanza intrappolata» in cui ci dibattiamo come animali feriti, prossimi alla mattanza, per cui, il -Totem», intorno al quale ruota l’esigenza morale e sincera dell’individuo, viene demonizzato e in più reso idoneo a simboleggiare l’unica e l’ultima barriera alla follia (….il totem contrappone un silenzio ostinato ai nostri / balli rituali (per vecchie beghe di famiglia, furti / di mele, che noi daremmo dimenticati). Questa/ intraprendenza, sospettiamo, viene intesa con qualche insufficienza….). 

La mutazione progressiva di Onano come uomo e come poeta si protende con graduale lotta indirizzata ai due fronti, prospicienti -punte di attacco». Ma altri -orientamenti interiori. attendono e contendono l’autore che viaggia -senza bagaglio» nel tunnel dell’esistenza spirituale mai disgiunta dalla materia, così utile e importante oggetto comparativo. 

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 60-61.




Il contrassegno del poeta 

Gaetano Salveti – P.O.W. 358483 poesie disperse – Ragusa, CDE, 1990, pagg. 48. 

Salveti ha al suo attivo numerosissime pubblicazioni, tra le più recenti ricordiamo: Il caso Lucifero (prefazione di Giacinto Spagnoletti, 1982 ) e Il vento delle Pasque del 1989. Inoltre, sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, e ciò dimostra l’internazionalità di questo poeta e critico letterario. E ancora Dimenticanze e successi ingiustificati – Cosenza 1983; Il trapianto dell’io – Palermo 1989; Elogio all’ipotesi – terza edizione Maiori, 1986. Al momento è Segretario Generale dell’Associazione Critici Letterari Italiani e Segretario Generale dell’Union Europèenne des Artistes, des ècrivains et Hommes de Science. 

La sua ultima silloge raccoglie poesie inedite, scritte quando si trovava prigioniero in Mrica, durante la seconda guerra mondiale, ed era appena all’inizio della sua attività creativa. 

I versi che compongono ogni singola immagine di ricordi così particolari e terribili si trattengono sullo scritto lievemente, quasi volessero disintegrarsi nel tempo. Tuttavia queste immagini riescono con estrema lucidità ad essere solide, compatte presenze guidate da un caratterizzante essenzialismo che determina il quadro, quanto mai esauriente delle emozioni vissute, senza l’assillo di un possibile ritorno ad una estensione temporale del passato. Dunque, l’evolversi del pensiero corre sul filo dipanato della memoria, sviluppando una serie coordinata di frammenti esistenziali alternanti tra la vita quotidiana nel lungo momento della guerra e il vissuto normale e felice all’interno del nucleo familiare, idealizzato come un sogno mitico, un Eden perduto, ma forse ancora recuperabile, sotto forma di energia, stimolo continuo per non smarrire l’esatto svolgimento della ragione, sopra ogni probabile demoralizzazione psichica: 

«…Frammenti! degli amici, degli studi della casa dei giorni più felici. .. È triste dimenticare le cose consuete…» (Frammento di Sempione). 

La figura di Serapione (non è altri che il poeta) ci conduce attraverso il racconto utilizzando, nelle situazioni descritte via via, un sottile velo sensitivo che ricopre con garbo e con maestria il contenuto assemblaggio di protagonisti, siano essi uomini, luoghi o paesaggi che non sono separati nettamente in categorie ma si mescolano con naturalezza. «Venne e parlò: son io. Poi chiuse le palpebre e gridò: son io. Quindi si copri di un velo e scese nel deserto…» (Memoria per il capitano Gibardi). 

L’ambiente che ospita il confronto delle armi, non è un sito poi così ostile e ciò è dimostrato dalla delicatezza con cui l’autore descrive alcuni particolari: «Notte di oriente lucidità del prodigio… Deserto di dolcezze a questa landa dolcezze di risacche colonne pensili di mare…» (Il mio golfo). 

Le bellezze che catturano lo sguardo anche soltanto per qualche istante, suscitano un lirismo che però si spegne quasi immediatamente nella cruda certezza bellica: «Cimiteri marini e paesi per sempre abbandonati…» (Il mio golfo). 

Il desiderio di dimenticare la condizione attuale, non accettata perché non voluta, trascina il malinconico fragore dei pensieri, che sciabolano senza tregua dalla terra natia («Risale dalla notte il tuo ricordo terra natia, tenero paese festose campagne di ciliegi a rosse lune» (Casa quadrata), al naufragio interiore nella consapevolezza di aver sprecato gli anni migliori, quelli più importanti: «Sopra 

specchi immoti di deserto… passi stanchi, memorie, galoppo di cavalle sul Volturno sentieri di lichene e capelvenere giovinezza che sfuma nella guerra…» (Solitudine). 

Il deserto, menzionato quasi ossessivamente è il simbolo immoto della solitudine e del rimpianto, ma anche la denuncia di uno “status” di «soldato perduto nel deserto» (Ricordi) che oppone resistenza, rifugiandosi in un turbinio di passato-futuro, alla ricerca di una dimensione più chiara dell’essere umano: «E tu, invecchiato precoce Serapione cerca dell’uomo il giorno che ti manca» (Ricerca). 

La poesia si scioglie con cadenza espressiva del linguaggio, costruito tramite una sobrietà fraseologica, molto efficace. «La rocca diruta, l’altare abbandonato, la cresta dei merli…» (Elegia alla noia). 

È rilevabile il misto compendio di aspirazioni varie, che annoverano anche l’evenienza di tollerare positivamente persino la noia, come un utile antidoto per l’oblio: « Meglio la dolce, amabile noia… la voce che tutto fa uguale» (Elegia alla noia). 

La reclusione sembra confinare in un limbo preordinato, privo di visibile perimetro, l’autore e i suoi compagni. L’unica traccia che riporta un alito di vita è il discontinuo mutamento atmosferico e i rumori circostanti. «È passato il ghibli sulle tende. Viene dal Nilo la frescura della sera il canto del jellàh, il rumore del biroccio sulla strada» (Negritudine 4). 

Una ridda di sembianze eteree che interrompono il silenzio appassito della segregazione. 

I carcerieri si allineano ad un segmento di riflessa similitudine con il quadrante fisico e spirituale dell’autore. Infatti la frase «s’annera tra i negri della muta» offerta in diverse versioni si trasfigura in una triste litania, anticamera del lamento isolato, che assurge a mesta preghiera ormai priva di speranza. 

P.O.W. 358483 (non a caso il titolo del libro) è una sigla, un numero che contrassegna il poeta e lo accompagna per tutta la permanenza nel campo di prigionia. La guerra, atroce e diabolica invenzione, riduce l’uomo ad un semplice numero: questa la drammatica realtà che viene sempre imposta con la forza, mascherandola come unica soluzione per risolvere i conflitti sociali. Ma la contiguità degli elementi presi in esame provoca una combinazione in perfetta armonia. Il narratore si confonde con il narrato in una fusione mistica che coinvolge il lettore, pur senza l’ausilio dei rituali formalismi, di solito utilizzati da certi reduci che esaltano, simili a “novelli rambo”, la “falsa gloria” degli eventi. 

Questo non è certo Salveti per il quale la composizione diventa un felice pretesto, che nonostante l’argomento trattato, non si chiude alla lettura delle riflessioni, ma assimila nel contesto globale, altre e nuove aperture tematiche. L’attualità della raccolta ne è la conferma, l’autore va oltre il significato primario del poetare, in quanto affronta, con l’elasticità tipica “dell’incessante navigatore di parole”, l’itinerante letterario. 

La semplicità del segno non soffre di scalfiture provocatorie, ma vuole essere il commento pulito di una frase storica appartenente ad ogni individuo, al di là del fatto generazionale, che avverte comunque la necessità, l’esigenza di una continua analisi delle azioni e dei comportamenti umani, affinché possa concretizzarsi in un “presente-futuro immediato” la capacità dell’uomo di vivere un rapporto sereno e civile con i propri simili e con il territorio, 

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 53-55.




F. Hoefer, Senza partitura – diario poetico dall’ U. R. S. S., Ragusa, Ed. Duemila, pagg. 58.

Quest’ultima raccolta di poesie di F. Hoefer si evolve con graduale e visibile intensità affettiva che confluisce in una vera e propria “dichiarazione d’amore” a quella terra così sterminata e così lontana che è la Russia, quasi fosse un mondo di favole oltre l’umana dimensione, un mondo sospeso eternamente fra antichissime tradizioni che accendono la fantasia e una realtà immutabile, avvolta nel mistero. Tramite un’impalpabile velina di “metafisico respiro”, l’autore rivela i sentimenti ispirati da luoghi, immagini e situazioni, realizzando un diario di viaggio sospinto senza forzature dall’anima, intrepida e instancabile moderatrice di emozioni. 

Il titolo stesso del libro ne è il segno premonitore, che indica come la spiritualità poetica sia sciolta da qualsiasi costrizione lirica, per librarsi nella marea di motivazioni psicologiche che agiscono sull’impulso creativo. Eppure non è eluso, neanche per un istante, quel tratteggio ironico che caratterizza Hoefer, misto il più delle volte ad una malinconica briciola di amarezza, mai esaurita. 

G. M. Cataudella

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pag. 78.

 




Carmelo Pirrera – La farfalla di Brodsky. Ediz. Il Vertice, Palermo, 1992, pag. 91.

Carmelo Pirrera (nato a Caltanissetta nel 1932 ma vive a Palermo) è un autore versatile che ama «distribuire- il proprio estro grafico nei diversi settori della scrittura (la poesia, la narrativa e la critica), senza subire alcuna difficoltà di impostazione. In questa epoca letteraria dai labili e scadenti «costumi creativi» spacciati per «genialità di pensiero» è un fatto raro, degno di attenzione. 

Tra le numerose pubblicazioni segnaliamo: Racconti: Il colonnello non vuole morire – Palermo 1978: Poesie: Il miele di maggio Itinerario antologico – Palermo 1985; Pergamo la cenere – Palermo 1986. 

C’è da aggiungere la collaborazione di Pirrera con riviste specializzate e l’impegno con cui dirige una casa editrice siciliana (in particolare una collana di «presenze nella poesia») per la quale ha realizzato alcune raccolte antologiche, inoltre, le sue poesie sono state tradotte in svariate lingue. Questa ultima silloge ha registrato notevoli riscontri positivi. 

Il libro, suddiviso in varie e ordinate argomentazioni che hanno una loro precisa collocazione strutturale, permette una lettura scorrevole e coordinata. La composizione sviluppa il suo reticolo lirico traendo origine dal ricordo. La memoria, con l’infinito bagaglio di immagini remote, accende la mente che si abbandona all’onda costante del confuso smembrarsi di episodi, sentimenti, persone e sensazioni riemersi improvvisamente dal silenzio più profondo dell’anima. Il passato e il presente si «attraversano», incrociando un muto e onnipresente ascoltatore («l’altro io»), sicuro e indiscusso giudice del «muoversi» quotidiano nel bene e nel male. 

«Esigenza dialogante» primaria per il poeta che rievoca senza tregua, in uno sfogo intimo e solitario, la metafora trascendentale dell’essere, lievitando così in un possibile sollievo spirituale. Anchise, personaggio emblematico, controfigura dell’autore che aleggia in tutta la raccolta («Da vecchio, Anchise riscoprì le lacrime ed il gusto del pianto. Il miele era ricordo di una bocca e di seni di luna, ed era già finito quando sciami d’api scesero a pungerlo negli occhi»). Definisce il modulo tecnico della comunicazione espressiva, non necessariamente legata al verso, stimolando il metodico sciogliersi di un «canto» spontaneo che sommerge il volo radente delle parole, in perfetta simmetria con il «suono» grammaticale. 

Ma figure evanescenti appaiono e scompaiono in un silente e ininterrotto colloquio con il poeta (•.. .Inutile tirarsi il lenzuolo sulla faccia. Mi stanno guardando tacendo È per orgoglio. soltanto per orgoglio. che resisto alla voglia di urlare il mio disappunto per questa invasione improvvisa e per questa nuova violenza…» “Gerontion”). 

Come uno «specchio animato» le percezioni più nascoste ed invisibili della coscienza accennano un ritorno, per essere considerate nel loro intento persuasivo alla riflessione. anticamera di un probabile cambiamento. Non è facile riuscire «sempre» a rimuovere le paure, i dubbi e i timori che «intossicano» con la loro rutilante presenza la vita. La realtà non è certo elusa da Pirrera, che denuncia le «manipolazioni politiche» costruite dall’uomo per avvelenare il libero arbitrio dei propri simili («…non c’erano più rami di mimosa / né ventagli di seta. / ma parole / solo parole di scontata cenere / che crescevano dentro come pena…. “Guernica”) («…scende la barca. / il fiume grigio e pigro. / Il sonno non ci condurrà le fate / ma visioni di piazze-mattatoio…» “Ikebana”). 

Il fiore della libertà ha il diritto di sbocciare ovunque sia richiesto, desiderato come riscatto per una civile e armoniosa coesistenza sociale. È dunque irrimediabile solitudine, quella che accompagna il proficuo dibattito interiore dell’autore, un granello di sabbia nel mare delle intemperanze. 

Purtroppo, il messaggio di contenuti racchiuso nella poesia è nella maggioranza dei casi, «la voce» che si perde nel deserto dell’indifferenza collettiva. 

Maria Giovanna Cataudella 

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 56-57.




 Le politiche formative della Dirclassica

Quale sarà l’istruzione nell’Europa del 2000? Nel secolo che verrà l’esistenza non sarà più scandita tra scuola, lavoro e l’inedia della pensione, nel prossimo millennio si continuerà a studiare per tutto l’arco della vita alternando periodi di lavoro e fasi di aggiornamento, in un sistema che favorisce la continua mobilità, che promuove l’apprendimento trasversale. 

In questa società con più studio e meno lavoro le battaglie si faranno per accedere al sistema del sapere e delle informazioni e la posta in gioco della politica sarà la realizzazione della nuova democrazia, quella telematica. 

Questo lo scenario delineato da due grandi saggi dell’Europa, Jacques Delors e Umberto Eco, riuniti a convegno a Venezia per “L’anno europeo della formazione durante tutto l’arco della vita”. 

Delors, preside della commissione Unesco sull’Educazione nel XXI secolo, ha scritto un “libro bianco” sulla formazione e l’educazione; a lui va infatti il merito di aver chiesto all’Europa di non occuparsi solo di problemi economici e monetari ma di elaborare anche strategie sulle risorse intellettuali, di investire sul capitale umano. 

Siamo di fronte all’avvento della società cognitiva, la learning society, dove l’accesso alla formazione deve essere sviluppato durante tutto l’arco della vita. Una società del “tempo scelto” dove si alternano periodi di attività e periodi di studio ed aggiornamento. Già adesso in Danimarca, per un anno si può lasciare il proprio lavoro, continuando ad avere una retribuzione, un Umberto Eco sostiene che il problema della formazione permanente è fondamentale. In una prospettiva pessimistica si potrebbe prevedere una società alla Orwell con tre classi: i proletari che non hanno accesso alle informazioni, una borghesia che usa il computer in modo passivo ed una nomenklatura che usa le macchine e se ne serve. Il problema è come fare in modo che ogni cittadino appartenga alla nomenklatura. La scuola dovrebbe addestrare all’educazione delle nuove tecnologie fin dalle elementari. Nelle aule ci dovrebbero essere postazioni telematiche accanto ai banchi per la scrittura manuale”. 

Come si colloca l’istruzione classica in tutto questo? Nell’immaginario collettivo l’istruzione Classica è arroccata su posizioni elitarie, aristocratiche, legate alla tradizione a tal punto da essere impermeabile ad ogni innovazione o addirittura una scuola superata, rivolta più alla conservazione della memoria del passato che alla progettazione del futuro. 

In un momento in cui la scuola “attivata”, in attesa di essere istituzionalmente rifonnata, è notevolmente diversa da quella “congelata” nei “testi sacri” della legislazione scolastica, occorre focalizzare l’attenzione su alcuni fatti che, riteniamo, detenninanti per i risultati che consegue: la sperimentazione, il post-secondario, che rendono la scuola stessa più confacente e soddisfacente ai bisogni formativi del Paese. 

Sperimentazione. innovazione, post-secondario 

Nel processo di innovazione della scuola, la sperimentazione ha avuto e continua ad avere un ruolo determinante. Sul piano storico-pedagogico il concetto di sperimentazione educativa è venuto maturando nella disciplina della pedagogia sperimentale fin dal secolo scorso. Dagli anni sessanta si opera la distinzione tra pedagogia esperienziale, nel senso dell’uso delle scienze esatte, in pedagogia, e pedagogia sperimentale, che intende innovare nella pratica generalizzata. Con il D.P.R. n. 419/74, viene offerta la possibilità di manipolare variabili, introducendo innovazioni, e, quindi, di osservarne gli effetti. Viene offerta, agli insegnanti e ai collegi docenti, la possibilità di mettere in discussione le strutture e gli ordinamenti scolastici, di gestire funzioni propositive e promozionali e di tentare vie nuove con l’attivazione di progetti sperimentali. In altri termini viene introdotta e sollecitata nella scuola la mentalità del cambiamento. L’espansione dei processi sperimentali nelle scuole ed istituti di ogni ordine e grado diviene espressione dell’impegno assunto dalla scuola nell’elaborare progetti di innovazione formativa che incida sia sul piano dei contenuti e dei metodi, sia nell’organizzazione di nuove strutture curricolari. 

L’attività sperimentale nelle scuole dell’ordine classico, scientifico e magistrale, ha assunto una crescente intensità e ricchezza creativa interessando un sempre maggior numero di scuole. Il carattere dominante dei loro progetti è stata la “licealità”, a differenza delle scuole di altro ordine che si sono impegnate, prevalentemente, nell’adeguamento della formazione professionale alle richieste del mondo del lavoro. Mentre risulta difficile stabilire con esattezza il numero dei licei e degli istituti magistrali impegnati in sperimentazioni didattico-metodologiche, è possibile seguire il trend espansivo delle sperimentazioni di struttura, per lo più articolate in un biennio unitario orientativo più un triennio di indirizzo: queste, già in n. di 23 nell’a.s. 1974/75, interessavano 131 scuole, nell’a.s. 1977/78, 237 scuole nell’a.s. 1989/90 con una presenza complessiva di 238 indirizzi (157 linguistici, 94 pedagogici, 48 scientifici, 6 artistici e 8 tecnici). A questi nel 1990/91 si aggiungevano altri 56 sperimentazioni in scuole prima non coinvolte nel processo innovativo. 

Intanto si verificavano alcuni fatti importanti che dovevano segnare una svolta nella febbrile, e per quanto disorganica, domanda e attivazione di sperimentazione: 

– il D.M. 31-1-90 che introduceva misure limitative nell’attivazione di nuove classi sperimentali per esigenze di contenimento della spesa; 

– la C.M. 27 del 1991, primo tentativo da parte della Dirclassica di razionalizzazione dell’attività sperimentale, con la messa a punto, sulla base delle esperienze autonome realizzate, di due indirizzi, il linguistico e il pedagogico. 

– la stesura dei progetti della Commissione ministeriale “Brocca”, in cui si concretizza, da parte dell’Amministrazione, un’azione di governo delle attività sperimentali e insieme un’opera di sintesi, sia pure in termini di mediazione, in un progetto unitario, degli elementi comuni di successo ricavati dalle esperienze fatte e rispondenti ai bisogni formativi riscontrati. Tutto ciò faceva cambiare il precedente scenario della sperimentazione riducendo la molteplicità, ad iniziative unitarie ed organiche che favorivano l’estensione di modelli fondati su innovazioni collaudate e più rispondenti alle attese formative. 

Per avere un’idea del mutamento che in pochi anni si verifica nel quadro delle sperimentazioni attivate nelle scuole della Dirclassica, si propongono, a confronto, i dati relativi a due anni scolastici, il 1993/94 e il 1995/ 96. All’apertura dell’a.s. 1993/94 nelle scuole dell’ordine classico, scientifico e magistrale risultano complessivamente autorizzate: 

– n. 328 sperimentazioni di progetti autonomi; 

– n. 85 sperimentazioni di progetti coordinati ex C.M. 27/91 di indirizzi linguistico e pedagogico; 

– n. 275 sperimentazioni di progetti “Brocca”; n. 3 progetti ad opzione internazionale attivati in seguito ad accordi bilaterali tra i governi italiano e francese, con riconoscimento reciproco del titolo di studi; 

– n. 8 progetti di Liceo Classico Europeo, avviato in altrettanti convitti nazionali o educandati femminili. 

All’apertura dell’a.s. 1995/96 i dati sopra riportati risultano così modificati, tenendo conto della messa ad esaurimento delle sperimentazioni autonome: 

– sperimentazioni “Brocca” n. 525; 

– sperimentazioni ex C.M. 27/91 n. 154; 

– sperimentazioni autonome n. 327 (di cui solo 20 proseguono, le altre sono ad esaurimento); 

– sperimentazioni ad opzione internazionale spagnolo e francese n. lO; 

– sperimentazioni di Liceo Classico Europeo n. 17; 

– sperimentazioni “Proteo” n. 5. 

Tralasciando le altre già ampiamente conosciute per la loro diffusione qualcosa va detta con estrema sintesi a proposito del Liceo Classico Europeo e del progetto Proteo che segnano le punte avanzate della sperimentazione nell’ambito delle scuole dell’ordine classico e probabilmente non solo in quelle. 

Il Liceo Classico Europeo vuole essere un evidente passo avanti verso l’organizzazione di profili formativi sovranazionali. Articolato didatticamente, per tutte le discipline nelle fasi della “lezione” e del “laboratorio culturale”, mira ad adeguare l’insegnamento ai ritmi dell’apprendimento mediante la metodica apprendere insieme. La formazione di taglio europeo, non è solo limitata all’attenzione ad altra lingua, utilizzata nell’insegnamento di alcune discipline, ma pervade l’intero percorso scolastico, in cui tutto, dai contenuti alla metodologia agli spazi operativi è improntato ai capisaldi della nostra tradizione scolastica di concerto e in parallelo alle recenti esperienze scolastiche dei Paesi Europei per favorire la formazione culturale in termini di piena integrazione. 

Il progetto sperimentale “Proteo”, nato in più seminari di scuole sperimentali impegnate in una metodica riflessione nel Progetto “Brocca” e dai risultati emersi da un suo monitoraggio, esprime il tentativo di coglierne gli elementi positivi e correggere quelli negativi, propone una evoluzione del “Brocca” tale che, non rifiutandone la filosofia di fondo e rimpianto programmatico, riconduca il suo numero di materie e il monte ore globale entro i confini di un sapere unitario. organico che: – governi e assorba le nascenti articolazioni entro le categorie generali e fondamentali della conoscenza -; realizzi in tal modo anche una economia d’orario che consenta alla scuola reali spazi di autonomia per la definizione e realizzazione di attività didattiche coerenti con le attese del territorio e le proprie specifiche scelte didattico-educative. 

Accanto e in contemporanea, alla sperimentazione di struttura, numerose sono le cosiddette minisperimentazioni, piccoli interventi per arricchire il piano di studi incrementando lo studio delle lingue, introducendo l’apprendimento di nuove conoscenze, estendendo al quinquennio lo studio di discipline limitato al solo biennio o triennio… 

Anche in questo campo. per evitare dispersioni è stata scelta un’opera di razionalizzazione finalizzata al sostegno delle iniziative coronate da successo e alla loro disseminazione. Si ricorda in proposito la C.M. 198/ 92 che regolamenta le sperimentazioni parziali di lingue straniere in licei e negli istituti Magistrali. 

Sia per quanto riguarda le maxisperimentazioni sia le minisperimentazioni l’opera di razionalizzazione e di omogeneizzazione è stata realizzata attraverso numerosi confronti tra i rappresentanti delle scuole coinvolte nelle sperimentazioni, che hanno portato all’elaborazione di ipotesi coordinate di piani di studio tradotti poi in sperimentazioni “assistite”. 

Ciò ha reso possibile la composizione di due istanze apparentemente contraddittorie: quella dell’autonomia di progettazione e quella della razionalizzazione di modelli operativi. In quest’ottica la Direzione Generale ha ideato e attivato un sistema di assistenza ai Provveditori agli Studi, con conferenze di servizio a livello interprovinciale o regionale tra il responsabile e personale della Div. N e responsabili dei Provveditorati al fine di pervenire ad un’univoca lettura e applicazione delle disposizioni relative all’attivazione dei progetti sperimentali. 

A fronte delle dimensioni veramente notevoli assunte dal fenomeno della sperimentazione (su 1332 scuole della Dirclassica solo 35 non risultano impegnate su progetti sperimentali) ugualmente notevole è lo sforzo che la Direzione Generale sta affrontando in iniziative di formazione ed aggiornamento sia a sostegno delle sperimentazioni, sia per rispondere alle crescenti esigenze, determinate dai processi di innovazione tanto nelle attività dirigenziali che di insegnamento. 

Numerosi sono i seminari e corsi di aggiornamento tenuti a livello centrale e per i Capi di istituto atti a far fronte ad esigenze di formazione e per migliorare la qualità del servizio in vista dell’autonomia. 

Particolare attenzione hanno suscitato i corsi di accoglienza per presidi di nuova nomina, il cui programma ha privilegiato l’introduzione delle nuove tecnologie, da affiancare al patrimonio didattico, senza trascurare l’acquisizione di capacità di esercizio e promozione organica della vita della scuola mediante la programmazione e soprattutto con il Progetto di Istituto, nel rispetto dei servizi dovuti all’utenza, come puntualizzato nella “Carta dei servizi della scuola”. 

La preoccupazione di dotare il preside di conoscenze che si traducano in abilità manageriali ha suggerito di attivare corsi a loro destinati sulla leadership; di mantenere precedenti corsi organizzati in collaborazione con la Confindustria e di idearne dei nuovi, calibrati sulle ideazioni scientifiche, la cui prima fase è stata già realizzata in Sardegna. 

Per l’aggiornamento e la formazione dei docenti hanno richiesto interventi sia di tipo disciplinare, sia didattico-metodologico a sostegno del progetto “Brocca” affinchè fosse attivato secondo esigenze di conoscenza e professionalità. Quando è stato possibile l’aggiornamento, oltre a valersi del contributo del personale ispettivo ha fatto ricorso a quello universitario come nel corso dell’insegnamento della matematica con l’intesa MPI/UMI, e in quello dell’introduzione di nuove tecnologie con l’intesa MPI/STET per l’util:l7.zo della telecomunicazione e la realizzazione di ipertesti, il cui modello è stato utilizzato dal Ministro nel progetto nuove tecnologie. 

La consapevolezza che, per quanto grande fosse stato lo sforzo, i benefici dell’aggiornamento sarebbero stati limitati ad una minoranza, ha spinto a provvedere alla pubblicazione, oltre che degli atti dei seminari, dei materiali organizzati in percorsi esemplificativi tali da poter consentire la realizzazione di simili iniziative a livello periferico, a costi ridotti. Sono nati, così, i quaderni della N Divisione della Dirclassica. A questi si arrincano, con il duplice intento di diffondere informazioni sui corsi di aggiornamento e di fornire materiali di ricerca e informazione su argomenti o iniziative di particolare interesse, i numeri di Classica News, pubblicazione che raccoglie le notizie sull’aggiornamento, attivato o programmato, inviato da scuole, Provveditorati, IRRSAE, Associazioni professionali. 

Connessa con le esigenze di sperimentazione e aggiornamento del personale direttivo e docente è la necessità di far circolare in tutte le scuole in termini di contemporaneità, tutto quanto viene elaborato a livello centrale nonché l’opportunità di stimolare a livello periferico la creatività, come risposta ai sempre nuovi bisogni di una scuola integrata nel territorio, interessata alle attese dell’utenza, in una visione che superi, nei problemi di fondo, gli steccati del particolarismo, favorendo il conseguimento di una formazione di tutte le scuole del territorio. Per far fronte a ciò è stata costituita una rete di altre centro scuole “Polo”, alle quali non sono stati affidati solo compiti di “sportello” per l’informazione, bensì quelli rispondenti alle esigenze sopra espresse e concordati tra i rispettivi presidi, in una serie di seminari all’uopo attivati e le cui risultanze, sotto forma di guida pratica, sono di prossima diffusione tramite un numero speciale di “Quaderni”. 

La consapevolezza che, a fronte di scorretta e generalizzata valutazione negativa della nostra scuola da parte di tanta stampa, esiste invece una realtà tangibile, con numerose scuole di eccellenza, contornate da altre attardate nel cammino del rinnovamento, ha suggerito l’attivazione di iniziative di formazione miranti al recupero di queste ultime non solo considerate singolarmente, ma nelle regioni di appartenenza. 

È emersa una situazione che non corrisponde a specifiche collocazioni e contingenze storico-geografiche, ma che riguarda tutte le latitudini e presenta caratteri di ampia omogeneizzazione per regioni. 

È nato così un progetto chiamato “L’Italia e le sue isole”, che considera connotazioni a livello regionali e quindi l’esigenza di fare interventi, in ambito regionale e che recuperino forme di collaborazione, di scambio e di sostegno reciproco all’interno del territorio nazionale per realizzare una crescita armonica di tutte le scuole. Il progetto prevede: 

– interventi formativi per ogni “isola” regione attivati dal Centro, nell’ambito di un coordinamento interprovinciale che determini confluenza dei progetti e delle risorse dei piani provinciali di aggiornamento: 

– interventi di monitoraggio delle dotazioni patrimoniali, strutturali di attrezzature, di professionalità, di attività, cui far seguire operazioni di colmatura; 

– interventi, anche con dotazioni di nuove strutture tecnologiche, per favorire collegamenti sia all’interno della rispettiva regione, sia nell’ambito nazionale con le scuole di “eccellenza”, per un discorso di collaborazione e di scambi culturali; 

– interventi per un esame approfondito delle attese del mondo del lavoro in collaborazione con le regioni, gli altri EE.LL., la Camera di Commercio, le Organizzazioni Sindacali, per l’individuazione di specifiche richieste delle professioni emergenti; 

– l’istituzione mirata di corsi post-diploma. Sulla formazione post-diploma, la Dirc1assica, ha avviato da tempo una approfondita riflessione, sebbene abbia dato !’impressione di disinteresse, perché intende occupare con essa spazi piùcoerenti con i suoi piani di studio a forte valenza culturale. 

Nel quadro delle strategie volte ad adeguare l’offerta formativa del nostro Paese agli standard europei, emerge, infatti, con particolare rilevanza la questione della formazione professionale che si inquadra nel più ampio problema dei rapporti scuola lavoro. 

L’accelerazione delle trasformazioni tecnologiche con conseguente mutamento dell’organizzazione del lavoro ha determinato nel mondo occidentale esigenze sempre più complesse. Del resto in una società in cui l’informazione e la conoscenza sono più che mai elementi decisivi per lo sviluppo, il sistema formativo acquista di fatto, un ruolo centrale. E in particolare acquista spessore problematico quel delicato snodo costituito dal rapporto tra istruzione e formazione professionale, tra conoscenza e competenza, tra titoli di studio e spendibilità di essi nel mondo del lavoro. 

Come si sa, per un insieme di ragioni, nel nostro Paese manca un sistema organico di formazione post-secondaria non universitaria. E ciò pone l’Italia in una condizione di diversità rispetto alla maggior parte dei Paesi europei. Nella RIT, in Olanda, in Danimarca, in Francia e in Inghilterra – accanto all’Università esistono, da tempo, canali formativi che forniscono al mondo del lavoro un enorme potenziale di risorse umane. Di fronte alla crescente domanda di formazione tecnica e professionale, continuare a contare sulla sola possibilità accademica, appare una scelta perdente non solo per il difficile adeguamento delle strutture universitarie alla domanda, ma anche per lo snaturamento del ruolo e della competenza che ne deriverebbe. Del resto l’Università italiana presenta indicatori di efficienza tra i più bassi d’Europa, conducendo al titolo conclusivo solo il 30% circa degli iscritti (basti pensare alla Francia, dove circa 1’80% di iscritti consegue la laurea). 

È possibile che le cosiddette lauree brevi, una volta istituite e generalizzate, contribuiscano a modificare questi dati, ma non è possibile, tuttavia, pensare ad esse come esauriente risposta all’esigenza di formazione professionale; le lauree brevi pur essendo espressione del percorso universitario, non si prestano a fornire al mondo del lavoro il modello organizzativo auspicato. Ciò perché la caratteristica fondamentale di un modello di formazione professionale deve essere la massima sensibilità nei confronti della domanda di lavoro: sensibilità certamente non essenziale all’autonomia della ricerca, della cultura e del sapere degli studi universitari. 

Né la formazione che è attualmente affidata alle Regioni e alle aziende, costituisce una risposta alle esigenze e tale da rapportare l’Italia e a livello formativo diffuso in Europa. 

L’elaborazione di un modello organizzativo di formazione professionale deve coniugare l’esigenza di flessibilità alla domanda di lavoro, con l’omogeneità di caratteristiche strutturali necessarie per la certificazione e il riconoscimento del titolo rilasciato a conclusione dei corsi. 

All’interno di questo quadro e nell’ambito di una discussione che non può non coinvolgere una pluralità di soggetti, la Direzione Classica, ritiene di poter offrire un contributo al dibattito in corso, individuando potenzialità lavorative coerenti con la specificità dei suoi corsi di studio. 

Le grandi trasformazioni dei modelli organizzativi del lavoro richiedono competenze sempre più duttili e flessibili, capaci di adattarsi alla rapidità dei cambiamenti; e gli studi liceali possono presentarsi, per le caratteristiche generali dei percorsi fornmtivi che li contraddistinguono, come un modello pienamente rispondente a questa esigenza. 

La cultura specifica dei corsi dell’istruzione classica scientifica e magistrale si rapporta ad un insieme di potenzialità lavorative che emerge dalla profonda riorganizzazione del sistema produttivo cui stiamo da tempo assistendo. 

Ma una ipotesi di organizzazione della formazione professionale deve verificare la sua validità non solo attraverso il continuo confronto con la pluralità dei soggetti interessati. ma anche attraverso qualche concreta esperienza. 

È da questa esigenza che è nato il seminario organizzato dalla Dirclassica e dal Liceo Scientifico “G. Peano” “Formazione post-secondaria ed educazione all’imprenditorialità giovanile” svoltosi il 26-28 aprile presso l’Hotel American Palace di Roma. 

I risultati del seminario sono stati pubblicati nel numero quattro della collana dei Quaderni destinati ai Presidi. 

Dai pochi e non esaustivi flash sulla attività della Dirclassica, ritengo emerga a buon diritto, il quadro di una scuola in movimento e ben determinata nel percorrere la via del progresso con scelte oculate, che data l’importanza del suo servizio pubblico, passa attraverso ricerche, studi, sperimentazioni e monitoraggi, prima di tradursi in innovazioni estese all’ultima istituzione. E ciò va detto, non tanto e non solo per contraddire i facili detrattori, ma a sostegno di quanti nella scuola operano, in condizioni difficili, con serietà e impegno ma soprattutto per stimolare e coinvolgere coloro che sono rimasti fermi o attardati in vecchi moduli operativi. Tutto ciò va detto a tutti coloro che rinviano, sine die, la riforma della scuola e che prendendo a giustificazione la difficile congiuntura economica del Paese, tentano di ridurre anziché incrementare il già magro bilancio della Pubblica Istruzione. 

Eppure i soldi spesi per l’istruzione dovrebbero essere considerati come investimenti sicuri per un futuro migliore per tutta la nazione. 

Luigi Catalano

• Relazione tenuta presso il Liceo Se. “P. Ruggicri” di Marsala nel eorso del Convegno: “Realtà e prospettive: Seuola oggi, scuola domani”, Marsala-Mazara del Vallo, 23-24 febbraio 1996, organizzato dal Centro Internazionale di Cultura “Lllybaeum”. anno da dedicare alla fonnazione ma anche alla propria famiglia o ad attività sociali•. 

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 7-16.




La poesia di Saba

«In Saba – ha scritto Giacomo Debenedetti – è rimasto, inalterabile, un fondo di fanciullo e di popolano. La delicatezza e l’incanto di certi suoi impasti par che dipendano proprio da questo: che l’uomo, con la sua serietà morale, ha dato un significato spirituale ed intelligente ai vezzi del fanciullo, pur rispettandone la vivace fragranza primitiva; e che l’intellettuale, con la sua cultura, ha scoperta una grazia fine alle preferenze del popolano»1. È un rapido scorcio della poesia del grande triestino, un modo di definirlo che non può non renderlo diverso, profondamente e consapevolmente diverso dai suoi contemporanei colleghi. Ciò che fa particolare la poesia di Saba è la misura di semplicità e di stupore nello stesso tempo che riesce ad infondere nel verso. Siamo in epoca dannunziana, poeticamente alla ricerca dell’alto volo, minacciata dalla retorica2. Non mancava l’eredità spesso aulica del Carducci («Il poeta è un grande artiere», aveva scritto in «Congedo»), mentre si preparavano le innovazioni futuriste (il Manifesto di Marinetti, per interderci), così lontane da Saba.

In questo contesto, nel 1911, il Nostro scriveva in un suo articolo (Quello che resta da fare ai poeti) che «ai poeti resta da fare la poesia onesta», affermazione tanto più significativa collocandola a soli due anni dal Manifesto futurista (1909), là dove l’onestà manzoniana3 – tale era l’onestà poetica intesa da Saba – aveva ben poco da spartire con quel rifiuto della norma che caratterizzava il futurismo marinettiano. 

Saba aderisce alle cose, come Manzoni, del resto, le gestisce nella sua poesia, le utilizza, le accetta, le fa strumento dell’espressività, poiché aderendo alle cose aderisce alla vita. Di quelle cose ha bisogno, perché diventano indici di vita, segni dell’uomo, elementi della sua presenza. Sono le cose di tutti i giorni: la casa, il lume, il letto4, sono i segni tangibili (e quanta tangibilità occorre a chi non crede!) di questa vita. 

Accettando la vita, com’è, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore, accettando la vita proprio perché tale, si accetta la sua testimonianza, la sua presenza che oltrepassa il tempo, segno del tempo, perché calata in esso, e nello stesso tempo strumento al di fuori del tempo, (perché segno eternamente presente – si pensi alla casa e al letto, strumenti dell’uomo in qualunque tempo sia collocato -, indice insieme di immanenza e di contemporanea trascendenza rispetto al presente. Accettare le «cose», e le cose più umili, diventa un modo per accettare tutti gli aspetti della vita, anche e soprattutto quelli umili. Non a caso ne Il Poeta afferma: «L’ore del giorno e le quattro stagioni / un po’ meno di sole o più di vento, / sono lo svago e l’accompagnamento / sempre diverso per le sue passioni / sempre le stesse; ed il tempo che fa / quando si leva, è il grande avvenimento / del giorno, la sua gioia appena desto». L’uomo, calato nel tempo non può astrarsi da esso, e pertanto coglie le cose, indici e strumenti del tempo, e la natura, oggetto e soggetto del tempo, oggetto perché calata nel tempo, e soggetto perché indice del tempo, delle stagioni. 

Saba non è il solo ad avete utilizzato le «cose». Già i crepuscolari le avevano fatte strumento della loro poetica, attestando l’impossibilità di fare poesia nel mondo borghese, catalizzato dall’interesse per il guadagno. Lo notiamo, tra l’altro, in Gozzano, e precisamente in Ketty («È quotato in Italia il vostro nome? / Da noi procaccia dollari d’inchiostro… / Oro ed alloro!…» (vv. 30/31), che non può non ridere ascoltando «il più bel verso d’un poeta vostro…» (v. 32). Se «carmina non dant panem», se le due cose belle al mondo sono leopardianamente amore e morte (Consalvo), il posto per la poesia necessariamente scompare per rivelarsi nell’ironia gozzaniana inerente le cose. Ha scritto in proposito e molto opportunamente il Guglielmino che, a differenza dei crepuscolari, la poesia di Saba si pone come piena accettazione di quei segni di vita (le cose, gli oggetti, appunto). «Si può obiettare – rilevava, a proposito di quelli che accostavano Saba ai crepuscolari – che con i crepuscolari questa scelta di una realtà dimessa ed usuale era già stata fatta ed in effetti il legame tra questi e il primo Saba fu messo in luce dai suoi primi critici, ma quel che conta è sottolineare la diversa angolazione da cui Saba muove per accostarsi ad una materia magari affine, la diversa luce che vi proietta. Gozzano, ad esempio, col suo distacco ironico, ‘prendeva le distanze’ dalla materia umile e ‘le buone cose’ venivano qualificate, subito dopo. ‘di pessimo gusto’. La scelta di Saba è invece adesione sentimentale, calda simpatia umana»5. 

Ma non è solo un fatto di maggiore o minore partecipazione alle cose. Nei crepuscolari – pensiamo a Corazzini – quella realtà impoetica determinava. a livello poetico, una netta prosaicità del verso, portandolo ad affermare in Desolazione del povero poeta sentimentale: «Perché tu mi dici: poeta? / lo non sono poeta. / lo non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi: io non ho che le lacrime da offrire al Silenzio. / Perché tu mi dici: poeta?» (vv. 1-5). L’impossibilità di assurgere alla poesia scaturiva dalla propria dichiarazione di impossibile poeta. divenuto povero fanciullo malato (quanto è diverso il fanciullo di Pascoli!). desolato esistenzialmente. In questo contesto, a differenza di Saba, il rapporto con le cose, con la realtà del mondo, e la poesia, non più poetica, là dove risparmiava l’ironia, riduceva il verso a prosa. 

Non così avviene in Saba, specie nella sua prima produzione utilizza un tradizionalismo (prima spontaneo e poi sempre più in contrapposizione consapevole al modo dei suoi contemporanei di fare poesia) talvolta aulico (sul quale influisce non poco l’essere nato a Trieste), stilisticamente utilizzato per controbilanciare la qualità «rasoterra» del suo discorso. fortemente pregno di elementi linguisticamente quotidiani. 

A questi fanno da contrappeso gli endecasillabi, gli enjambements, certi arcaismi (pensiamo a quel «sentiva» anziché «sentivo» de La capra) che fanno della sua umiltà linguistica qualcosa di molto prosaico (Saba si arrabbiò quando Montale volle usare per lui questa definizione) e, conseguentemente, qualcosa di molto poco crepuscolare6. 

Saba, si è detto, accettando le cose accettava la vita. Sembrerebbe così facile e poco impegnativo collocarlo in una non ben precisata categoria realistica, che tuttavia ha poco da spartire con il Nostro, perennemente in tensione tra questa oggettività (poco oggettiva, in realtà, come vedremo) realistica e la trasposizione e trasfigurazione di quel realismo non poche volte soltanto apparente. Non vogliamo, si badi bene, con tutto ciò negare certa indissolubile adesione alla realtà, certo descrittivismo significativamente sincero e concreto. certa piena comunione con la natura. Forse, anche per questo, Saba non è (o non è sempre, se si preferisce) identificabile quale realista. Una lettura attenta ed un’analisi precisa del testo non potranno che darci ragione. 

«Tutto lo sviluppo di Saba – ha scritto Binni – verifica nelle sue diverse accentuazioni di canto, di figura persino a volte oleografica, un atteggiamento di aderenza alle cose essenziali che non è solo un guardare, di coscienza non impressionistica del ritmo vitale che dà, nei limiti di potenza fantastica, un diverso tono di serietà a quella che potrebbe sembrare un semplice edonismo di colori, di parole… Quando si nota la modernità di Saba pur nel suo originale rispetto delle forme chiuse tradizionali e nella possibile traducibilità discorsiva della sua musica che paiono imparentarlo con stagioni letterarie più lontane, si deve ricordare che la sua lettura esige in realtà una richiesta non diversa da quella dei nostri contemporanei e che le sue trame di parole. il suo apparente discorso valgono in realtà non narrativamente o decorativamente (…) ma proprio come allusione, come analogia di sensi segreti ed assorti»7. 

È una considerazione che merita di essere spiegata. Scrive il poeta nella poesia Il borgo: «La fede avere / di tutti, dire / parole, fare / cose che poi ciascuno intende, e sono, / come il vino ed il pane, / come i bimbi e le donne, / valori / di tutti».(vv.33-40). Sembrerebbe la prova di un’adesione realistica, attestante, proprio per quella sua .realtà» una piena comunione di vita. In versi precedenti aveva espresso il desiderio «di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni» (vv. 7-11), dandoci così l’impressione di volere ritrarre quel momento di vita autentica che è propriamente la vita di tutti, senza dir altro. Così però non è. Non ci è possibile, per ragioni di spazio, analizzare minuziosamente l’intera lirica «Il borgo». Tuttavia, anche se solo per somme linee, desideriamo porre l’accento su quei particolari (ci serva Il borgo come esempio non potendosi, a maggior ragione, analizzare gli innumerevoli altri casi di questo Saba solo apparentemente realistico) che fanno dell’autore un poeta che trascende il reale, pure gestendolo, in apparenza, solamente per quello che sembra essere. Si tratta in realtà di una rievocazione del desiderio, del «desiderio improvviso d’uscire / di me stesso», di ritornare indietro nel tempo. Saba utilizza il passato remoto («m’avvenne», v. 3) quasi a sottolineare la frattura con quel passato. Era il desiderio provato a vent’anni, irrevocabilmente trascorso, ora, mentre attraversa il borgo (un quartiere periferico sulla collina di Trieste). In quel momento l’autore era malato (vv. 14-15). La malattia non è certo un fatto occasionale (che ci importerebbe di conoscere adesso la malattia di un Saba ventenne?). Essere malato, non in senso fisico, significa non potere comunicare con gli altri. Il poeta infatti desidera la comunicazione proprio perché non è in rapporto con gli altri. Fu un desiderio «vano», attestazione di un’ulteriore scissione tra memoria e realtà, tra speranza e realizzazione, tra desiderio e frustrazione. «Poco fu il desiderio, appena un breve / sospiro. Lo ritrovo / – eco perduta / di giovinezza – per le vie del Borgo / mutate / più che mutato non sia io» (vv. 50-55). 

Dov’è il realismo? Nei desideri? Nella memoria? Nella frustrazione? Nel cambiamento? Nella coscienza? Ovviamente no! Realismo è riproposizione di quanto è immanente, presente, tangibile, oggettivo, effettuale. Il desiderio, la memoria, la coscienza, invece, sono necessariamente soggettivi (non realistici). 

Il poeta è diventato spettatore; non è nella realtà, ma la desidera, attende di rapportarsi con essa, ma, nello stesso tempo, è conscio della propria diversità. Non c’è vita, ma nostalgia della vita (e c’è una bella differenza!). «Ritorneranno, / o a questo / Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni / del fiore. Un altro / rivivrà la mia vita, / che in un travaglio estremo / di giovinezza, / avrà pur egli chiesto, / sperato, / d’immettere la sua dentro la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli appariranno gli uomini di un giorno / d’allora» (vv. 75-87). 

I risultati dell’analisi non si fermano qui. Gli enjambements fanno cadere 

l’attenzione su taluni aspetti: il verbo «avvenne», il «vano/sospiro», «la vita/di tutti», il desiderio «dolce/e vano», il velo che avvolge le «cose/finite», appartenute cioè al tempo… Non sono descrizioni, ma stati d’animo, trascrizioni di una realtà vista per mezzo dell’uomo, e conseguentemente soggettiva e talvolta trasfigurata. La piena adesione con il reale, infatti, deve portare per conseguenza, positiva certezza nelle cose. Queste ultime, invece cambiano, più ancora del poeta, proiettato per mezzo di quelle cose verso il suo ultimo cambiamento: «E morte/m’aspetta» (vv.73-74). 

Si tratta, dunque, a ben vedere, di un più complesso rapporto con il mondo. Da una parte l’accettazione della realtà come accettazione della vita, dall’altra la trasposizione di quegli elementi di vita ad altri elementi del soggetto che non saranno assenti al rapporto psicanalitico: la dualità vita/ morte, per esempio. 

Per ora, però, ci importa fissare la nostra attenzione su qualche altro esempio, ad attestazione di una chiave di lettura non soltanto realistica. Così Goal oltre che descrizione di una situazione calcistica, diventa anche e soprattutto spettacolo della vita e della morte, della gioia e del dolore. Non c’è gioia senza dolore, così come non può esserci sul campo una squadra vincitrice senza un’altra squadra perdente. Se qualcuno gioisce, qualcun altro piange (nella poesia i due portieri). Anche per queste espressioni come «amara luce» (v. 3) o «pieni di lacrime» (v. 6) trascendono, per la loro tragicità, la semplice scena della partita. Tra gli altri esempi andrà citato Il torrente, simbolo della vita e nello stesso tempo della morte. L’acqua è fuggitiva, passa come i nostri giorni, inesorabilmente, e «sempre è d’intorno a te sabato sera» (v. 19), fine del giorno e fine della settimana. Nella stessa Trieste, tanto apparentemente descrittivistica, si nasconde il poeta, con le sue emozioni. È chiusa da un muricciolo, funzionalmente simile alla siepe leopardiana. Al di là c’è la terra straniera, l’inconosciuto. Al di qua «un’aria strana, un’aria tormentosa» (v. 12), un modo, insomma tutt’altro che oggettivo di descrizione. Persino ne L’incisore, dove il protagonista osserva il vero, appare non 

8. E. Gioanola (a cura di), Poesia italiana del Novecento. Milano, Librex, 1986, pag. 290. Si rimanda allo stesso testo del Gioanola per le interessanti interpretazioni di talune poesie di Sabarealizzata quella comunione con la realtà. «Guarda e adora», senza partecipare, senza calarsi. Ne scaturisce una «difficoltà di vivere e di amare»8. La «calda vita» desiderata nel Borgo resta ancora desiderio perennemente insoddisfatto. «Toccò a noi scrivere – ricordava il Flora – che se l’animale si esprimesse sarebbe dannunziano». Con questa frase il celebre critico intendeva rilevare un aspetto particolare di D’Annunzio. Quest’ultimo non avrebbe «espresso se non il primo grado dell’umano», (cioè quello animale) attestato da una certa ricerca di primitivo, di ferino9. È questa l’animalità di Saba? 

In A mia moglie il poeta triestino paragona la propria donna ad una relativamente ampia serie di animali «che avvicinano a Dio». Qui la donna, in quanto femmina, è colta nella sua animalità, che diventa però diametralmente opposta a quella dannunziana, che esprimeva la propria lussuria e trovava avvicinamento alla tigre ed alla pantera’. Non c’era accenno di maternità, che diventa invece singolare aspetto della femmina-animale in Saba. «Tu sei come una gravida / giovenca: / libera ancora e senza / gravezza, anzi festosa», come «la pavida / coniglia» che «il pelo / …si strappa di dosso, / per aggiungerlo al nido / dove poi partorire», o come ancora «la provvida/formica» o la «lunga/cagna», o la pollastra o la rondine o la pecchia, ancora. Non c’è descrizione «scientifica» in queste immagini che accostano mammiferi ad insetti e ad ovipari. 

Si tratta di animali tra loro diversissimi, ma tutti dolcissimi e comunemente domestici. Sono tutti vicini all’uomo, a tutti capita di vederne: ricordano la casa, il nido, la fedeltà, la naturalissima maternità. Non c’è in loro eccezionalità. Sono «i sereni animali / che avvicinano a Dio», e a loro e a «nessun’altra donna» Saba paragona la moglie. 

Un’ulteriore presenza «animale» si riscontra ne La capra, assunta a simbolo del dolore che è eterno. «Come si puo’ credere al dolore di una capra?» Quando, evidentemente, in quel belato si riconosce la realtà universale del dolore. La capra è sola, legata, bagnata. La sua condizione di prigionia, di isolamento, di solitudine, di disagio, non è soltanto prerogativa umana. Come la moglie si avvicinava agli animali, così qui la capra si avvicina agli uomini. Ed è nuovamente un animale domestico, simbolo seppur sui generis del nido10. 

Anche la figlia Lina, come la moglie, si avvicina alla natura. Non animalescamente, per quanto la semplicità animale non disdegni l’innocenza infantile, così come in Ordine sparso l’animalità dell’artista si fonde nel modo di vedere le cose. «E vedono il terreno oggi i miei occhi / come artista non mai, credo, lo scorse. / Così le bestie lo vedono, forse». Nel Ritratto della mia bambina la figlia è accostata ad elementi naturali, alla schiuma marina «che sull’onde biancheggia, a quella scia / ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde / anche alle nubi, insensibili nubi / che si fanno e disfanno in chiaro cielo: / e ad altre cose leggere e vaganti» (vv. 9-13). 

Non c’è nemmeno qui oggettività realistica. Il Saba che per A mia moglie aveva affermato di aver composto una poesia infantile, non poteva per la figlia diventare improvvisamente effettuale. I suoi occhi erano e restano quelli di un bambino. 

«Per fare, come per comprendere l’arte, una cosa è, prima di ogni altra, necessaria: avere conservata in noi la nostra infanzia; che tutto il processo della vita tende, dall’altra parte a distruggere. Il poeta è un bambino che si meraviglia delle cose che accadono a lui stesso, diventato adulto. Ma fino a che punto adulto?»11. 

Veniamo scoprendo un Saba ben più articolato di quanto sembrasse. La sua adesione alle cose nasconde soltanto un apparente realismo. Trasfigurare quelle cose ed anche se stesso diventa compito del Saba poeta e uomo. Per essere in armonia con la realtà bisogna essere in armonia con se stessi. «Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia». Sono parole di Ungaretti (I fiumi vv. 32-35), ma sono indicatissime anche per Saba. 

Saba è isolato, isolato perché ebreo, dunque diverso e perseguitato. È un isolamento fisico. Ma Saba è anche isolato culturalmente, nascendo a Trieste (se pur questo ·luogo di nascita vorrà essere, per certi versi, anticipatore, come per la psicanalisi freudiana), ed isolato fin dalla nascita, con un padre che non conosce, conteso tra la nutrice e la madre. Saba è isolato perché non riceve amore dagli uomini. Per questo, o meglio ancora, anche per questo, ha bisogno delle cose, degli animali, della natura. 

Isolarsi vuol dire rapportarsi con se stesso. Per vincere l’isolamento occorre rapportarsi con il mondo. Se il mondo non fosse in rapporto con il poeta, cioè se non si presentasse alla sua analisi, non sarebbe possibile la comunicazione. La certezza di quella comunicazione non può scaturire da quei segni del mondo che sono le cose, strumenti oggettivi di vita. Ma dietro l’apparente oggettività si nasconde sempre il poeta. E di questo già si è detto in precedenza. Occorre ora che il poeta scopra se stesso. Nel 1928 Saba intraprende la terapia psicanalitica per mezzo del Dott. Edoardo Weiss (al quale, non a caso, è dedicata la sezione Il piccolo Berlo). Durante la seduta, il Saba adulto doveva riportare alla luce il Saba bambino, il piccolo Berto, quel particolare bambino che era o immaginava di essere stata tanto tempo prima. «Sembrava strano – scriveva il Nostro – che un uomo dell’età e dell’esperienza di Saba, si fosse all’improvviso messo a fare all’amore con se stesso trentenne». Ed anche se la sezione Il piccolo Berto presenta ben poco di psicanalitico (sono semplicemente ricordi d’infanzia, ci dice Saba), tuttavia l’episodio appare significativo e ci conferma quella scissione ricorrente ed inevitabile del proprio io. 

Il piccolo Berto era rinato per mezzo di una cura psicanalitica, ma, così rinato, avrebbe dovuto morire. «In realtà non morì mai del tutto: che se questo fosse accaduto, il luttuoso fatto avrebbe avuto due conseguenze: la prima che Saba sarebbe completamente guarito, la seconda che non avrebbe più scritto poesie: non avrebbe avuto più bisogno di scriverne». La ragione è semplice. Saba canta la vita, che diventa oggetto della sua poesia, nella misura in cui serve a consolare della non partecipazione del poeta all’esistenza. La poesia, cioè, diventa un sostituto integrale della vita, nella sua duplicità di dolore e di gioia12. 

La guarigione di Saba, in questo contesto, avrebbe segnato irrevocabilmente la morte della poesia, che non avrebbe più avuto ragione di compensare la sua assenza dalla vita (poiché, guarendo, sarebbe entrato in contatto con essa). Ed è, tutto ciò, ulteriore conferma della sua personale scissione, espressa nella coincidenza ed opposizione nello stesso tempo del reale. «Figura fondamentale della poesia di Saba è infatti la tendenziale coincidenza fra ‘antico’ e ‘nuovo’ («con occhi nuovi nell’antica sera» dirà in Dopo la tristezza, v. 8), in altre parole il senso del dispiegarsi dell’esperienza individuale come ripetizione di un’esperienza già vissuta individualmente nel proprio passato13. 

La scissione di se stesso, la non partecipazione alla vita (scissione tra oggetto e mondo), la constatazione di una realtà oppositiva all’interno delle cose (il bene e il male, la gioia e il dolore, la vita e la morte, la felicità e il pianto…) si definiscono come elementi strutturali del mondo. La non partecipazione del soggetto con il mondo (segno di un rapporto conflittuale tra io e realtà) trova origine nella propria impossibilità di fondere quei contrasti interiori, originati da una primitiva frattura. 

Scoprire quella frattura (es. il mancato positivo rapporto genitori/figlio, o l’1ndefinibilità del suo rapporto con la madre, intendendo con madre tanto quella geneticamente vera, quanto quella effettiva, cioè la nutrice, entro se stesso, significa definire la frattura tra sé e il mondo, all’interno del rapporto conflittuale, con la poesia. 

Per tutto questo la risoluzione del conflitto interiore segnerebbe la sua morte poetica, testimoniando nello stesso tempo un rapporto non positivistico con la realtà esperienziale. In funzione di quella realtà andranno definendosi le cose o le trasfigurazioni di essa (es. le cose di Meditazione o gli animali di A mia moglie). L’animalità di talune trasfigurazioni andrà poi posta in rapporto con l’habitat. 

La riduzione infatti alla più essenziale esistenzialità, in virtù della quale viene a semplificarsi e ad indentificarsi in una elementare condizione infantile o animale la condizione umana, anche se non necessariamente di tutti gli uomini, comporta l’inserimento di quello stesso animale (o di quegli stessi animali) nel suo (o nel loro) ambiente. E poiché di animali domestici e comuni si tratta, si tratterà anche di un habitat comune e domestico, che diventa quello del poeta, inseparabile dalla sua terra, così come avviene per l’animale. E anche dove l’uomo non assume caratteri animali è l’essenzialità di quell’esistenza umana ad avvicinarsi all’essenzialità animale. Non a caso in Città vecchia afferma: «Qui prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / il dragone che siede 

alla bottega / del friggitore, / la tumultuante giovane impazzita / d’amore, / sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore» (vv. 11-19). Non era dissimile, se pur con sfumature e con motivazioni diverse, la conclusione di A mia moglie, dove gli animali avvicinavano a Dio. 

Date queste premesse, non sarebbe possibile ritrovare in Saba un autore staccato dalle sue cose. «Più d’uno dei poeti successivi imparò da Saba la lezione di osservazione minuta, la resa di un gesto umile, di un ricordo labile e improvviso, di una musica e di un colore sommesso che può risvegliare un momento di vita quando aderisce alla commozione del poeta».14 Per tutto questola parola deve configurarsi nel suo valore comune, deve essere semanticamente la stessa degli uomini, non può e non deve assurgere ad una sfera ermetica ed incomunicabile. Per potersi calare o, meglio, per potere desiderare di calarsi nella realtà, la parola non può essere quella della turris eburnea, ma deve aderire a quella realtà diventando strumento di essa. 

Anche per questo la poesia del Nostro è stata interpretata realisticamente. L’errore era comprensibile, anche se forse per certi aspetti di comodo; più politici che poetici. A scanso di equivoci converrà ricordare i versi di Parole: «dove il cuore dell’uomo si specchiava / – nudo e sorpreso – alle origini; un angolo – cerco nel mondo, l’oasi propizia / a detergere voi con il mio pianto / della menzogna che vi acceca. Insieme / delle memorie spaventose il cumulo / si scioglierebbe come neve al sole». 

L’ermetismo aveva fatto della parola la sua ragion d’essere, scindendola dal suo rapporto semantico con il mondo. Nell’ermetico la parola acquistava valore in quanto tale, scissa dal suo tradizionale valore d’uso (valore comunicativo), proprio della parola comunemente utilizzata. «Per Saba – ricorda G. Pozzi – scegliere la parola è un modo di scendere sul terreno dei contemporanei. E la poesia-manifesto d’apertura (Parole) non nasconde il distacco, l’ipoteca di una estrema diffidenza nei confronti della ‘servitù’ di Ungaretti, dell’estenuato abbandono di Quasimodo alla parola». Ne risulta una chiara dichiarazione di non partecipazione, di diffidenza per il mezzo espressivo15. Non a caso occorre detergere la parola stessa dalla menzogna accecante. La ricerca dell’«oasi propizia» è una precisa indicazione del proprio «prendere le distanze», nella ricerca di un’intima espressione di sincerità: la parola dove il cuore umano poteva, alle origini specchiarsi nudo, nella sua essenzialità. 

Abbiamo così visto delinearsi, nelle sue linee essenziali, il senso della poetica sabiana. Altre caratteristiche potrebbero aggiungersi, non ultime quelle del suo narcisismo, dovuto ad una carenza affettiva, nonché a certa classicità della sua poetica che non deve essergli stata estranea nel suggerirgli il classico titolo di Canzoniere. 

«La poesia di Saba è un dato quasi ‘animale’, la forma stessa del desiderio: in questo senso Trieste, e la balia, e la sua donna, e i fanciulli, e i sereni animali, e tutte le buone cose di questo mondo sono metafore della poesia, non suoi contenuti, essendo proprio il canto lirico il valore supremo, di cui tutti i valori nominati sono annuncio. Né si tratta, ovviamente, di chiusura nell’estetico, ché la poesia di Saba, in tutta la sua superbia, non ammette alcun lenocinio del ‘bello’: il poetico è valore supremo in quanto corrisponde alla sublime fioritura della disperazione»16. Un poeta, insomma, sempre lirico, anche quando sembra troppo realistico, e spesso, come si è visto, meno realistico di quanto sembri. 

1. G. Debenedetti, Saggi critici, Milano, Mondadori, 1952, pag. 163. 

2. G. Spagnoletti, Saba, Ungaretti, Montale, Torino, E.RI.. 1973, pagg. 13, 20. 

3. C. Bo, La nuova poesia: Saba, in Storia della letteratura italiana, Garzanti, 1969, Vol. IX, pagg. 336-337. 

4. U. Saba, Meditazione («Poco invero tu stimi, uomo, le cose. / Il tuo lume, il tuo letto, la tua casa / sembrano poco a te, sembrano cose / da nulla, poi che tu nascevi e già / era il fuoco, la coltre era e la cuna / per dormire, per addormirti il canto. / …Che millenni di strazi, uomo, per una / delle piccole cose che tu prendi, / usi e non guardi; .. ./ ma che gemma non c’è che per te valga / quanto valso sarebbe un di quel poco») vv. 11-16, 22-24, 29-30.

5.S. Guglielmino, Guida al Novecento, Milano, Mondadori, 1978, pag. 226/227. 

6. P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, pagg. 188-189.

7. W. Binni. Critici e poeti dal ‘500 al ‘900, Firenze, La Nuova Italia, 1951, pagg. 224-225., 

9. F. Flora, Storia della letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1967, Vol. V, pagg. 629-630. 

10. G. Spagnoletti, cit. , pag. 20.

11. C. Muscetta, Introduzione a Antologia del «Canzoniere», Torino, Einaudi, 1987, pag. XXXIV. 

12. U. Saba, Storia e cronistoria del «Canzoniere», In C. Muscetta, cit., pagg. 295-296; E. Gioanola, Storia letteraria del Novecento in Italia, Torino. S.E.I., pag. 183.

13. P.V. Mengaldo. cit. pag. 190. 

14. G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1970, pag. 58.

15. Ibid, pagg. 63-64. 

16. E. Gioanola, Storia della letteratura italiana, Milano, Librex, 1987, pag. 570.

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 19-30.




L’intrattenimento del gioco 

L’intrattenimento del gioco 
 
È fresco di stampa il libro Game show, logica e mercato del ricercatore siciliano Walter Ingrassia, che analizza i giochi televisivi, partendo dall’ipotesi che essi «- così come le altre forme d’intrattenimento – siano retti da una logica frattale per cui l’articolazione generale del prodotto si ripete in maniera identica e a diversi livelli di profondità all’interno di ciascuno dei sintagmi che la compongono». 

Pubblicato da Scripta Web di Napoli nel 2009, il libro è frutto di una ricerca che si rivela doppiamente utile, perché fornisce agli addetti ai lavori un quadro di esplorazione dettagliato e ai fruitori, invece, partecipa tutto ciò che sta dietro ai game show, comprese le leggi di mercato che tutto condizionano. È articolato in tre parti ed è corredato da un’ “Appendice”, relativa alla programmazione dei game show, con un quadro di dati della televisione italiana che interessano tutto il decennio 1998-2008. 

Il game show, nella prima sezione, è presentato nelle sue componenti e nelle sue classificazioni. È analizzato, ed è un aspetto portante del lavoro che l’Autore ha svolto, il “saper giocare”, alla cui base è il «tipo di abilità e le competenze che ciascun concorrente deve necessariamente mettere in atto per determinare la situazione ludica», ed è tenuta in considerazione la voce “competenza”, pervenendo, attraverso Eco e Greimas, e tenendo presenti Chomsky, von Neumann e Morgestern, al rapporto esistente tra la competenza, o le competenze, e la performanza. «La manipolazione del destinante – scrive l’Autore – consiste in una performanza cognitiva che modifica la competenza del soggetto operatore. Questi, dopo aver aderito ai valori proposti dal destinante ed aver virtualizzato il proprio programma narrativo, comincia a considerare l’ipotesi di compiere l’azione e per questo motivo si dota di un saper fare e di un poter fare necessari per agire». L’obiettivo è creare un tessuto narrativo che, da un lato, deve garantire la buona riuscita del gioco, dall’altro, soddisfare lo scopo che è quello di coinvolgere un maggior numero possibile di telespettatori. 

La seconda sezione affronta il format del gioco, su cui Ingrassia, partendo dalla valenza di significato che la voce acquista, si sofferma per dare un quadro d’insieme dei mutamenti fatti dagli anni Ottanta in poi, quando la fascia dei consumatori, e con essa anche quella oraria, si era allargata ad un pubblico più vasto. Il format diventa, così uno schema, più che un programma, o un contenitore entro cui trova spazio il contenuto, suscettibile di variazioni e adattabile, secondo le esigenze culturali dei vari Paesi, anche tenendo conto delle leggi di mercato che ora hanno a che fare con la globalizzazione. Più che mai, gli autori di format devono tener conto sempre della soglia di audizione, che deve essere alta, perché è con la pubblicità che le aziende televisive fanno grossi affari. In sostanza, pur investendo poco, interessa loro arrivare ad un pubblico abbastanza vasto per garantirsi un considerevole guadagno. 

La logica del game show è l’argomento della terza sezione. L’Autore prende il via da Aristotele, secondo cui una creazione poetica è un fare che si traduce sempre in un’imitazione, nel senso di ri-creazione di un qualcosa, e sostiene che «ogni testo, sia esso una puntata di un game show o di una fiction, si organizzerà intorno all’intreccio delle azioni dei concorrenti personaggi i cui caratteri, pensieri ed interiorità si costruiscono a partire dal loro ruolo narrativo all’interno del racconto ed hanno senso solo in rapporto ad esso». 

Le regole che costituiscono la logica del game show ruotano tutte sull’azione; è una logica rigida, all’interno della quale si muovono le varie sequenze che portano alla realizzazione del gioco, il quale, a sua volta, ubbidisce alle esigenze di intrattenimento degli spettatori. 

Game show, logica e mercato è un libro che suscita interesse, perché apre ai meccanismi che regolano questi giochi, presenti anche in ore preserali, e spiega cosa c’è dietro a tutta la loro proliferazione e come, alla fine, tutto si gioca sul fruitore. I nuovi mezzi tecnici, di cui si serve la comunicazione di massa per trasmettere i suoi messaggi, producono queste merci che, al pari delle altre, sono pronte per essere comprate e consumate. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 56-57.




V. Segalen, Gauguin nel suo ultimo scenario, Bollati-Boringhieri, Torino, 1990, pagg. 139.

Quando Segalen, medico, arriva alle isole Marchesi, il grande pittore era già morto. Da qui ha inizio il libro, da questo incontro che non c’è stato, per crearselo nella fantasia con brevi scritti, annotazioni e dialoghi, nei luoghi che videro Gauguin negli ultimi tempi della sua vita. 

Questi luoghi offrono all’autore lo spunto per portare avanti un dialogo, sempre conciso, da visionario (.Pensieri pagani», .La marcia del fuoco»), quasi smorzato, che contribuirà molto al consolidarsi della prosa novecentesca. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pag. 55