Calogero Messina, storico della Sicilia e dei Siciliani. (Dizionario storico dei comuni della Sicilia, L’Orma, Palermo 2022-2023)
Calogero Messina, pubblicando il Dizionario storico dei comuni della Sicilia, ha coronato il sogno di tutta una vita. Non era da crederci, e nemmeno lui ci credeva, eppure quel sogno, durato quasi cinquant’anni, è diventato realtà. Edito da L’Orma tra il 2022-2023, è un’opera monumentale (7 grossi volumi) che mancava da secoli, se consideriamo che il Lexicon topographicum Siculum di Vito Maria Amico, in 3 voll., fu pubblicato nel 1757/1760 e soltanto successivamente tradotto in italiano da Gioacchino Di Marzo nel 1855/1859. Tanti, per la verità, hanno nel tempo tentato l’impresa, ma non ci sono riusciti, fermandosi dopo qualche anno agli inizi di un lavoro che risultava abbastanza impegnativo e molto faticoso. Messina vi è riuscito, dando alla collettività un supporto indispensabile per la conoscenza della Sicilia e dei Siciliani con la loro storia (un quadro storico che non ha niente da spartire con le solite storie della Sicilia), gli usi, i costumi e il vario parlare, secondo le aree linguistiche più o meno influenzate dalle tante dominazioni che si sono succedute nell’Isola.
Apre il Dizionario l’ “Introduzione” dell’Autore che, dopo una breve premessa, scrive:
«Quest’opera non si raccomanda a chi predilige le statistiche, le tabelle, i grafici; essa vuole essere soprattutto una storia e un documento del costume in Sicilia, osservato nella sua diversità nei comuni dell’isola: l’ho ricercato nel contatto diretto con la gente e attraverso la lettura delle consuetudini, degli episodi, dei gesti, dei modi di dire, dei proverbi, delle feste, della poesia popolare. Ho cercato di capire le idee e le attitudini, i comportamenti, gli umori degli uomini di questa Sicilia, così diversa nelle sue parti; di cogliere nella storia di un paese qualcosa di particolare, di proprio della sua vita. Sono stato sempre convinto che per intendere l’anima ed esprimere l’immagine di una società può valere più una nota di costume che un elenco delle successioni dei signori, il semplice gesto di un uomo comune più dell’enfasi di un notabile».
L’Autore non si tradisce! Così come in tutte le sue opere storiche o letterarie, il punto di partenza, il fine che si propone è quello di ricercare e conoscere l’uomo, perché lui, con tutto ciò che gli appartiene e lo caratterizza, è il soggetto della storia e la storia nel senso pieno del termine. La critica che rivolge a tanti storici di professione non è campata in aria, e dice bene Calogero Messina quando asserisce che a niente valgono le statistiche o i fatti di guerra, se non si cercano e mettono in evidenza tutti i contesti che ne sono alla base; la storia non risulta tale e non riscuote interesse, come se si fosse fatta da sé, senza alcun supporto da parte dell’uomo che invece ne è l’artefice. Ma il Nostro non asserisce soltanto; ne dà prova anche nella trattazione dell’ultima sua pubblicazione, Sicilia 1492-1799. Un campionario delle crudeltà umane (2022) e in modo specifico affronta l’argomento nel “Discorso sulla storia” che chiude l’opera, in cui ribadisce che lo storico «non deve perdere di vista l’uomo e deve guardare alle cose che lo riguardano nella loro interezza, a quello che c’è dentro, e parlare degli uomini agli uomini» (Sicilia 1492-1799, cit., p. 570).
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Buona parte dell’“Introduzione” di questo Dizionario costituisce una storia della storia, perché altro non è che un resoconto dei contributi storiografici municipali della Sicilia pubblicati dal ‘500 in poi fino agli inizi del Duemila (Francesco Maurolico, Ferdinando Paternò, Filippo Paruta, Leandro Alberti, Vincenzo Littara, Rocco Pirri ed altri, fino a Virgilio Titone e allo stesso Messina), dando maggiore risalto all’opera di Tommaso Fazello, De rebus Siculis, in cui non soltanto l’autore narra la storia degli antichi abitatori della Sicilia, non trascurando anche i miti, ma descrive i paesi e ne dà notizie. Ancora prima – è importante per entrare nell’ottica di Calogero Messina – egli si sofferma a delineare il carattere dei Siciliani, suscettibile di variazioni da un paese all’altro e influenzato da quello degli antichi dominatori. Riporta, a proposito, il giudizio espresso diverse volte nelle sue orazioni da Cicerone che, essendo stato in Sicilia, anche da questore, conosceva bene l’animo dei Siciliani, intelligenti, acuti, spiritosi, come scrive nelle Tusculane o nell’orazione per M. Emilio Scauro, sospettosi, prudenti, scaltri, eruditi. Ne risulta che essi non sono un blocco monolitico, facile da potere gestire, ma nella loro apparente tranquillità imprevedibili. E Cicerone li conobbe e comprese bene, perché – come scrive lo storico – i Siciliani non erano della stessa indole dei Romani, «non furono interessati dalla loro passione militare né si entusiasmarono per i successi della politica imperiale; sperimentarono i rigori del loro dominio e non diedero che scarsi contributi alla loro cultura».
Non così fu per altri popoli dominatori, come per gli Arabi e gli Spagnoli, di cui avevano in comune l’attaccamento alla terra o la compatibilità di carattere, mentre «odiarono invece i piemontesi e gli austriaci, soprattutto per il loro aspetto – l’aspetto influisce molto, ma spesso non se ne parla nelle storie -, la loro severità e il loro fiscalismo; li considerarono degli estranei a tutti gli effetti, per mentalità, tradizioni, per la lingua, ecc.».
Riprendendo il discorso della storia municipale che introduce l’opera, il Messina esamina i contributi di tanti studiosi che, seppure con qualche manchevolezza, diedero inizio ad una “storia” (quella dei vari comuni), da cui veramente viene fuori il volto della Sicilia che tutti accomuna. Nonostante siano da evidenziare alcuni difetti, spesso dovuti a mero campanilismo, lo storico non critica negativamente, rifacendo l’errore ad altri rinfacciato («Più che i pregi gli storici hanno voluto mostrare i difetti e i limiti della nostra storiografia municipale»); riconosce che, come in ogni impresa, non avendo le idee ben chiare, agli inizi ci sono sempre delle incertezze e chiunque può sbagliare. L’importante è correggere il tiro e migliorare, cosa che è stata fatta negli studi successivi, ma a rilento, se nel xvii e xviii secolo si continuava a fare storia municipale come in passato. A proposito, sono menzionati alcuni autori (Vincenzo Auria, Agostino Inveges, Francesco Baronio Manfredi ed altri), ma a distinguersi tra tutti è Vito Maria Amico e Statella con la sua Catana illustrata, perché – scrive il Messina – «era uno che sapeva cosa significa fare le storie municipali».
È l’autore del Lexicon topographicum Siculum sopra ricordato, in tre volumi, quanti i Valli in cui era divisa la Sicilia, pubblicati il i a Palermo nel 1757 e il ii e il iii a Catania nel 1759 e il 1760; è stato l’unico tra tanti che portò a termine un’impresa così impegnativa e tuttora molto utile. Il Messina, al pari di Biagio Pace, gli riconosce il merito di non essersi limitato alla singola topografia, ma ha raccolto notizie, testimonianze e documenti vari che danno un quadro della Sicilia e degli abitatori del suo tempo, aprendo così la strada ad altri ulteriori studi.
Lo storico si sofferma più a lungo su Rosario Gregorio e le sue opere, di fondamentale importanza: Introduzione allo studio del dritto pubblico siciliano (1794) e Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino ai presenti, in 6 voll. (1805-1816), in parte postuma, essendo l’autore morto nel 1809. Le pagine che il Messina gli dedica mettono in risalto l’apporto fattivo del Gregorio alle storie municipali, ritenute più costruttive e importanti rispetto alle storie generali, e il valore che hanno in sé le leggi per la conoscenza degli uomini e delle loro consuetudini. Leggiamo:
«Regola fondamentale per l’interpretazione delle consuetudini il Gregorio saggiamente riteneva che si tenesse presente che non tutte le costumanze sussistevano insieme e che erano state introdotte in diverse epoche: ce n’erano anteriori ai tempi normanni, altre in vigore in quel periodo e non più in quello aragonese, altre ch’erano state introdotte sotto i re aragonesi. Andavano dunque studiate con l’ausilio delle storie dei tempi, dei diplomi e degli altri documenti».
Sulla scia delle Considerazioni di Rosario Gregorio, Messina rifà in sintesi la storia municipale dal Cinquecento al Novecento, dando risalto a quanti si cimentarono a scrivere sui loro paesi e città che intanto erano cresciuti di numero, specie tra il xvii e il xviii secolo. Insieme ad altri è ricordato Gioacchino Di Marzo con la sua traduzione del Lexicon di Amico; il Messina rileva l’apporto positivo, nonostante le manchevolezze («Ma tutto fa pensare a una fretta, propria degli anni giovanili, della quale per altro era cosciente lo stesso autore. Manca la storia civile»), ed è ricordato anche l’attrito fra Gaetano Di Giovanni e Luigi Tirrito su alcuni aspetti della storia municipale. Ne risulta che, mentre Di Giovanni cade in eccessi descrittivi, il Tirrito, attento ricercatore e vero storico, coglie nel vivo la realtà e la riporta in lavori che sono esemplari, come nei fascicoli di Sulla Città e Comarca di Castronovo di Sicilia (1873-1885), raccolti in volume e ristampati dallo stesso autore nel 1983, con un saggio introduttivo del Messina, che gli riconosce la capacità di osservare e riportare tutto ciò che fa parte della vita dell’uomo. E, insieme a questi studiosi, non tralascia i tanti ricercatori (N. Colajanni, V. La Mantia, S. Salomone, G. Di Vita, F. Nicotra, E. Castellana, I. Scaturro ed altri) che tra l’Ottocento e il Novecento diedero impulso alla storia municipale, recuperando quanto era stato trascurato nel passato, convinti che non si poteva fare storia nazionale, se non c’era e non si teneva conto di una storia locale. A proposito di Scaturro, Messina scrive:
«Lo Scaturro non fu né un puro impiegato né un semplice erudito. E perché non semplicemente erudita, la sua storia riesce di piacevole lettura; il suo primo pregio è la chiarezza e chiunque può ad essa accostarsi: l’autore fu del parere che le storie municipali dovessero essere conosciute a tutti i livelli, e da questa consapevolezza dovette essere certamente sollecitata la sua volontà di dare un’informazione essenziale sugli avvenimenti generali della Sicilia e anche dei più lontani eventi ai quali essi sono legati. Denunciò l’indifferenza dei suoi conterranei, l’ignoranza degli amministratori, l’insensibilità di certi preti nei confronti delle opere d’arte».
Ignazio Scaturro aveva pubblicato in 2 voll. Storia della Città di Sciacca (Napoli 1924-1926), opera ben riuscita e apprezzata, nella cui Prefazione aveva rinfacciato agli storici municipali un diffuso campanilismo che non permetteva loro di vedere oltre e scrivere la realtà nella sua molteplicità. Come fa lui che, per avere un quadro completo, pubblicherà in seguito una poderosa Storia di Sicilia in 2 volumi (Roma 1950).
Calogero Messina menziona altri studi in cui si cominciava a dare spazio a campi inesplorati, che erano un buon segno per l’avanzamento degli studi. Ricorda i Capibrevi di Gian Luca Barbieri, pubblicazione ultimata da Giuseppe La Mantia, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia di San Martino De Spucches ed altre opere ed autori che contribuirono notevolmente a fare conoscere aspetti poco noti o, addirittura, sconosciuti. Il Nostro non può non apprezzare questi contributi. «Da solo – scrive per il De Spucches – e in tempi in cui non c’erano gli strumenti che tanto agevolano la copiatura, trascrizione e riproduzione dei documenti, poté portare a termine il San Martino il suo lavoro: un esempio da imitare. L’opera ha i suoi difetti, ma più gravi ne avrebbe se fosse stata compilata da diversi autori».
Lo storico, a questo punto, non può non ricordare Virgilio Titone di Riveli e platee del regno di Sicilia (1961), un’opera fondamentale per lo studio e la conoscenza della storia della Sicilia. Scrive il Messina che fino a quell’anno non s’era data importanza e addirittura erano in pochi a conoscere i riveli (F. Ferrara, F. Maggiore-Perni), ma nessuno s’era data la briga di mettere mano a tutta una marea di documenti vecchi di secoli. A spingere gli storici è stato proprio Titone, sicuro che soltanto tramite quella consultazione si poteva fare una vera storia della Sicilia, visto che nei riveli c’è di tutto (popolazione, commerci, averi e beni mobili ed immobili, usi e costumi, religiosità). Certo, allora come ora, non tutto ciò dichiarato rispondeva a verità, eppure i riveli sono utili per le varie indicazioni che da essi arrivano fino a noi. A commento Messina scrive:
«Resta la grande utilità dei riveli per le preziose notizie che se ne possono ricavare: sull’analfabetismo, sulla durata media della vita umana, sulla composizione dei gruppi familiari, sui quartieri e sulle chiese dei nostri comuni, sulle attività economiche, sul tipo delle abitazioni, delle colture, del bestiame e della pesca, delle botteghe, sugli utensili e oggetti vari, sui prezzi dei prodotti e degli animali, delle case. delle terre e degli alberi. Titone stimolava ad andare al di là degli schemi tradizionali, a esprimere il libero pensiero, a far parlare i documenti, anche i nudi numeri».
Convinzione di Virgilio Titone, fatta propria dal Messina, è che dallo studio dei riveli municipali risulta chiara e vera la storia della Sicilia, non ad altro riconducibile, avendo i Siciliani, almeno fino a quegli anni, interessi e rapporti più nell’ambito del proprio comune che dell’isola. Non un popolo nel senso vero del termine, ma diversificato per usi, costumi e per aria linguistica di appartenenza.
Nel 1972 veniva pubblicato il libro di Messina S. Stefano Quisquina, Studio storico critico e, a proposito, l’autore ricorda l’incontro e la conoscenza con Titone che non soltanto apprezzò il lavoro, ma lo volle con sé nella cattedra di Storia Moderna. Lo studio riscosse da subito il consenso di critici e cattedratici, a cominciare da Nicola Giordano che nello stesso 1972 gli dedicò una recensione nell’«Archivio Storico Siciliano», seguito da Francesco Brancato ed altri ancora.
S. Stefano Quisquina è per gli storici municipali tuttora un lavoro da emulare per la serietà della ricerca e la minuzia dei particolari, sia storici che di costume, dalle origini al Novecento, successivamente ripresi e pubblicati, come «Lu recitu» di S. Stefano Quisquina (1973) e La Quisquina, dello stesso anno; scritti che rivelano, da una parte, l’attaccamento al paese natio del loro autore e, dall’altra, l’amore con cui dà voce a personaggi o eventi che altrimenti sarebbero rimasti nell’oblio e sconosciuti. C’è da dire che Messina riesce bene a calarsi nell’ambiente del suo paese e nei personaggi che lì vissero e fecero storia (Lorenzo Panepinto, Giordano Ansalone e altri anonimi che lottarono all’insegna dei Fasci siciliani), perché è uno scrittore, oltre che storico e poeta, che conosce bene quelle realtà e le descrive con tanta passione.
Ritornando agli studi storici municipali degli anni ’70, oltre i lavori di F. Brancato, Messina ricorda quelli di Carmelo Trasselli e di Ignazio Gattuso che tanto fecero per la valorizzazione delle storie locali. Di Gattuso, che aveva conosciuto nell’Archivio di Stato di Palermo e di cui riporta gli scritti (quindici e tutti dedicati al suo paese, Mezzojuso), scrive:
«In questi quindici libri, come quindici capitoli di uno stesso libro, il Gattuso trattò delle origini di Mezzojuso, dei suoi signori, dei fatti risorgimentali, degli aspetti socio-economici, della demografia – utilizzò i riveli – , delle istituzioni civili e religiose – dei contrasti anche fra le due comunità etniche dei greci e dei latini -, della cultura, delle consuetudini, delle tradizioni popolari. Riuscì a fare di Mezzojuso uno dei paesi più conosciuti della Sicilia; la sua opera va annoverata fra i classici della storiografia municipale».
A quegli anni risale anche l’apporto degli storici di «Annales» che fanno il punto sulla ricerca storiografica municipale, autonoma, qualitativa, ma aperta – secondo Paul Leuilliot -, con un vasto raggio d’azione e senza alcun condizionamento da parte della ricerca universitaria che avrebbe voluto «proporre, se non imporre, i suoi metodi». Messina legge e condivide il saggio Défence et illustration de l’Histoire locale del Leuilliot, dando risalto ai punti su cui gli storici locali dovrebbero basare le loro ricerche.
Senza perdere di vista la ricerca degli storici siciliani, l’autore individua al tempo stesso un avanzamento degli studi con i lavori pubblicati nel 1979 da Giuseppe Gangemi e Rosalia La Franca (Centri storici di Sicilia. […], e nello stesso anno con quello di Maria Giuffrè (Città nuove di Sicilia xv-xix secolo […]), mentre il secondo volume, Per una storia dell’architettura […], fu pubblicato nel 1981 sempre dalla Giuffrè e da Giovanni Cardamone. Per chiudere ricorda Henri Bresc con il suo Un monde méditerranéen. Économie et societé en Sicile 1300-1450 del 1986, in due poderosi volumi, contenenti «un Index rerum, un Index nominum e un Index locorum» che «ne consentono un’agevole consultazione» e altri (A. Casamento, D. De Gregorio, E. Guccione) che con le loro opere «utili ed esemplari» hanno consolidato e aperto a nuovi traguardi la storia municipale della Sicilia. Del Can. Domenico De Gregorio sono da ricordare Cammarata. Notizie sul territorio e la sua storia (1986) e S. Giovanni Gemini. Notizie storico-religiose (1993), storie molto ricche di notizie, così come Cammarata. Cronache dei secoli xix e xx, ritenute frammentarie, con lacune incolmate e incolmabili dall’autore, ma importanti, perché – come scrive Messina in Il mio dialogo con il Can. De Gregorio (2014), p. 120 – «aveva la consapevolezza del significato e dell’utilità del suo lavoro […]. Le lacune incolmate e incolmabili non rappresentano un difetto del ricercatore, ma possono al contrario rivelare il suo scrupolo e la sua saggezza, come nel nostro caso».
Scrivevamo all’inizio che, più che essere un’introduzione al Dizionario, questa di Messina è una storia della storiografia municipale. Essa, dando un quadro d’insieme della ricerca degli studiosi siciliani, ha aperto, nel silenzio e con i contributi di tutti, la strada alla storia della Sicilia e dei Siciliani i quali soltanto nella diversità costituiscono un unicum intraprendente e vero.
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Esposta nelle linee di massima, ma in modo esauriente, la storia della storiografia municipale di Sicilia, Calogero Messina presenta il suo Dizionario nelle sei sezioni contemplate per ciascun comune, grande o piccolo che sia, con la relativa bibliografia, di cui si è servito per la stesura. Un lavoro certosino, di appassionato che niente tralascia, per dare veste unitaria al suo lavoro.
La prima sezione presenta ogni comune, con il nome in italiano e siciliano, nella sua collocazione e descrizione geografiche, riportando la distanza dal capoluogo, i comuni confinanti e le frazioni o contrade di appartenenza. Il nostro autore si è servito delle pubblicazioni dell’Istituto Nazionale di Statistica, del Touring Club Italiano e di quelle della regione Sicilia. Sono dati, questi, di cui non si può fare a meno e non resta che riportarli nella loro interezza e fedelmente.
La storia è oggetto della seconda sezione, dove viene affermato quanto già esposto, che, cioè, va intesa come esposizione della vita del popolo nel suo insieme, con gli usi, i costumi, le consuetudini che gli sono proprie. Scrive Messina:
«Quello che a me interessa cogliere, in Sicilia come in qualsiasi parte del mondo, nei piccoli come nei grandi centri, è, ed è stato sempre, il costume. Per questo una particolare attenzione è rivolta alle consuetudini e ho voluto riportare tutte quelle che sono riuscito a trovare […]. Le consuetudini, gli statuti delle maestranze debbono essere fra le cose da prendere in considerazione negli studi locali, ci riportano alla vita, ai rapporti sociali degli abitanti dei nostri comuni; svelano il costume, la mentalità di quegli uomini; ci ragguagliano delle attività, delle produzioni, delle necessità delle città; sono anche documenti del linguaggio, dello stile».
In effetti, prendendo come esempio un comune qualsiasi, notiamo l’attenzione che presta ai particolari. Non è certo la prosopopea degli uomini che detenevano il potere, ma la vita che nel suo insieme svolgevano i paesani o i cittadini che da veri protagonisti agivano e operavano. Eppure non mancheranno tra i signori quanti si distinsero per opere di beneficenza ed altro, come l’assestamento e bonifica del territorio, le opere di beneficenza, d’arte e di difesa. Un esempio lo offre Carlo Tagliavia Aragona, principe di Castelvetrano, che diede un aspetto accattivante al paese, visitato anche da viaggiatori stranieri, tra cui Goethe, che «ammirò la ridente vegetazione della campagna; dormì in una misera osteria, nel cui tetto c’era una fessura, attraverso la quale gli apparve una stella» (p. 551).
A leggere le varie voci del Dizionario viene da ricordare quanto scrive il Messina, dove afferma che la storia della Sicilia si conosce e si ritiene veramente tale attraverso quella dei suoi comuni, perché proprio questa ci fa entrare nel vivo, facendo conoscere particolari che altrimenti sarebbe impossibile conoscere. Riferisce dei signori, non tenendo conto delle loro gesta, ma quando le loro opere sono rivolte al bene comune. Sempre Carlo Tagliavia Aragona, oltre che principe di Castelvetrano, titolare di tante altre investiture, fece costruire la piazza Bologni di Palermo e il porto, così come migliorò quello di Marsala. Questo Don Carlo e così altri non sono nemmeno menzionati in tante storie della Sicilia, mentre qui e in quelle municipali acquistano un loro spazio ed emergono con la loro personalità e le loro opere. E insieme ad essi acquistano spazio gli uomini che, come le formiche, cooperano e costituiscono un aggregato che li distingue dagli altri e gode di una vita propria, differenziandosi anche nella lingua.
«La storia particolare dei comuni è vera storia: dove c’è l’uomo c’è storia. Le astrazioni, le generalizzazioni non aiutano a cogliere la verità delle cose, non spiegano i fatti, i gesti dell’individuo. La storia di un comune è vera storia, perché ogni comune è diverso dagli altri e in esso, per quanto piccolo e ignorato, c’è l’uomo che opera, l’uomo intero, e agisce in un determinato modo, in rapporto ad una società concreta, non astratta: ciò che per l’appunto è storia».
Lo storico non tralascia niente. A proposito della lingua, dove può e ritiene necessario riporta documenti nelle lingue classiche e in siciliano. Nella voce Agrigento, per es., troviamo, datato 1304 e in latino, un documento di conferma delle consuetudini cittadine da parte di Federico iii e relative alle successioni in caso di morte; subito dopo inserisce alcuni capitoli in siciliano (28 maggio 1423), relativi al commercio della città, allora fiorente, presentati dagli Agrigentini al viceré Nicola Speciale. A seguire, datati 6 giugno 1426 e approvati dallo stesso viceré, altri capitoli relativi al costume (Supra li portamenti di li donni, Di la osservancia di li festi, Di li obsequii di li defunti, ecc.), dove, a parte la regolamentazione, si apprezza il siciliano del tempo, lo scritto che poi era la parlata di tutti i giorni con qualche aggiustamento dovuto allo scrivano, considerato in quel tempo persona colta e si apprezza anche la volontà del sovrano di imporre il siciliano come lingua scritta.
Non mancano i riferimenti ai viaggiatori stranieri e, quindi, ai loro diari di viaggio, che non solo riportano e riferiscono dell’arte e delle bellezze di natura della nostra terra, ma sono anche veicolo di conoscenza degli usi e costumi dei nostri antenati. Goethe mangiò e poté gustare ad Agrigento i maccheroni, pasta che gli «è sembrata, per candore e delicatezza gusto, senza rivali». Usanze che si sono perse, di cui veniamo a conoscenza, grazie a questi documenti che sono preziosi per chi deve fare storia degli usi e costumi del passato. A buona ragione il Messina ritorna nei suoi scritti – ricordiamo Sicilia 1492-1798, oltre l’”Introduzione”, su cui ci siamo soffermati – al concetto di storia e insiste nell’affermare che non sono le date o le imprese a farla, ma la vita dell’uomo nel suo insieme.
Questo Dizionario – come tutti gli altri libri di Messina – è costituito da un grande lavoro di ricerca, non soltanto fatto negli archivi comunali, ma tra libri e giornali che riferiscono e dedicano spazio a momenti di vita ormai lontani, e riportano a nostra conoscenza eventi, usi e costumi che fanno storia. L’autore, ricordando il “Fascio dei Lavoratori” del 1892, accenna al Pirandello de I vecchi e i giovani e, sempre a proposito di Agrigento, riporta un articolo di Gustavo Chiesi, dove il giornalista scrive delle condizioni della città e delle impressioni avute, quando nel 1890 la visitò. Così annota:
«La posizione, piuttosto incomoda della città sulla vetta d’un monte, a quasi 350 metri dal livello del mare, appartata, si può dire, per molti dal rimanente della Sicilia, a cui non l’univano che poche malagevoli strade mulattiere ed una mal sicura via postale, od il mare; considerata dai governi del passato nell’Isola, ed un po’ anche del presente, con occhi di noverca; limitata nell’espansione della sua attività[…], questo stato di cose dovrebbe esser sprone, in chi può e deve, ad incoraggiare, ad aiutare moralmente e materialmente, la nobile, se non la magnifica – come la dissero gli antichi – città, sulla via di quella graduale trasformazione, di quel progresso morale e spirituale, sulla quale, certa ormai due suoi destini e della fibra forte, laboriosa del suo popolo, si è messa, nella fede di non più arretrare» (ib. pp. 263-264).
Se queste sono le considerazioni, non manca di apprezzare la vivacità degli abitanti e il vario cangiare del panorama «sempre nuovo e vario che la città presenta», da dove ammira non solo le bellezze e le antichità, ma si sofferma ad annotare particolari che fa piacere conoscere.
Tutto torna utile alla conoscenza dell’uomo e di ciò che gli appartiene, ed è quanto a Calogero Messina interessa. Nella voce Santo Stefano Quisquina, suo paese natio, riporta un dialogo molto divertente e significativo dal giornale di Lorenzo Panepinto “La Plebe” del 20 aprile 1903, quando andavano forti le ideologie e aspri erano gli attriti fra le parti avverse. In contrasto con il contadino Peppi Romanu, socialista, è un predicatore, padre Emanuele Lauricella, che insiste nella condanna al socialismo, mentre l’interlocutore lo difende a spada tratta ed auspica tempi migliori per fare piena luce alla verità e alla giustizia. A più di un secolo di distanza ci tornano vivi questi personaggi con le loro idee e le loro speranze di un tempo migliore, sicuramente non quello di oggi, e chissà quando verrà!
Sempre dalla stessa voce riprendiamo alcuni versi di Lamentu pi la morti di Lorenzu Panepintu di Giuseppe Albano (pp. 694-695), componimento oralmente tramandato e fatto proprio dagli Stefanesi che ricordano il loro concittadino che tanto si era battuto per la sua gente contro le ingiustizie sociali e ogni forma di sopruso.
Lu sidici di maju a prima sira
lu tempu scuru e luna nun cci nn’era
l’empii scilirati e traditura
nun vosiru addumari li lampera.
E complici cci su l’affittaiola,
magari genti di cancillaria,
lu diligatu cu lu brigateri
prestu ‘dda sira si jeru a curcari.
Lu portafogliu cci scrusciva beni
ca foru abbivirati di dinari.
Pi ‘st’omu dottu leggi nnun cci nn’era
e mancu pi la pupulazioni […]
Panipintu era un prufissuri
ca nni lu munnu nun c’era l’uguali;
di lu munnu miritava tantu onuri
c’a li populi vuliva cunsulari (ib., pp. 694-695).
Il poeta popolare denuncia gli uccisori e le coperture per cui poterono agire e compiere il misfatto; ma denuncia anche le tristi condizioni della povera gente, abbandonata a se stessa e sfruttata dai forti, indifesa da chi avrebbe dovuto garantire la legalità e fare giustizia. Al tempo stesso ricorda l’opera del Panepinto e i benefici apportati, in termini di lavoro e di resa, tra i contadini di Santo Stefano e dei paesi vicini. Illuminanti, a questo punto, sono i lavori che il Messina ha dedicato all’illustre concittadino (Il caso Panepinto, Palermo 1977; In giro per la Sicilia con «La Plebe» (1902-1905). Un giornale dell’Agrigentino introvabile, Palermo 1985; Lorenzo Panepinto e il Fascio dei Lavoratori di S. Stefano Quisquina, in «Nuove prospettive meridionali», gennaio-dicembre 1993; I vendicatori, Rimini 1995; Il socialista scomunicato dai socialisti ufficiali, in Discorsi e scritti editi e inediti, Palermo 2023), di cui fino al 1977 gli stessi storici conoscevano poco e niente o appena il nome. Con questi suoi scritti il Nostro ha messo in chiaro la vita e l’opera di Panepinto, ormai conosciuto ovunque, ed ha fatto storia con la sua ricerca in archivi e biblioteche varie, calandosi nel personaggio con la disinvoltura propria dello storico. Così ha messo in evidenza l’uomo, il suo modo di essere, la cultura, e con questo, come sottofondo, il modo di vivere degli Stefanesi tra Otto e Novecento, con gli usi, i costumi e la loro parlata che sapeva, e sa ancora, di ancestrale.
Dalle voci menzionate (Castelvetrano, Agrigento, Santo Stefano Quisquina), così come da tutte le altre che compongono il Dizionario, emerge chiaro che tutto concorre a fare storia. Ciò che il poeta popolare denuncia, potrebbe non rispondere in parte a verità, ma ciò non significa non tenerlo in considerazione. Scrive Messina:
«Anche le cose false hanno la loro parte nella storia di un popolo e vanno ricordate accanto a quelle che comunemente si considerano vere; se un fatto si ritiene accaduto, va tenuto presente, anche se non è veramente accaduto […]. C’è di più: a volte la tradizione orale, popolare, e anche le opere della letteratura, le poesie e i romanzi compresi, possono essere più veritiere dei documenti degli archivi».
Ciò si può costatare leggendo anche i versi sopra riportati. Giustizia per Lorenzo Panepinto non fu fatta; i colpevoli se la cavarono per i tanti cavilli giudiziari, quando in
13 paese tutti conoscevano gli esecutori e i mandanti, come il poeta che chiaramente li addita e condanna. Se ne ricava che effettivamente tutto ciò che riguarda la vita di un paese è storia e va preso in considerazione. La Sicilia stava vivendo un momento di grande tensione. Le idee di libertà e giustizia sotto l’egida del “Fascio dei Lavoratori” (1893) vi avevano trovato terreno fertile e grandi erano le aspettative della popolazione che rivendicava migliorie economiche e sociali.
La terza sezione di ogni singola voce del Dizionario è dedicata alle chiese, ai luoghi di culto e alle opere caritatevoli. Anch’essa è molto interessante, fa conoscere non soltanto i luoghi di culto, ma anche la religiosità che caratterizzava quel dato comune, con i santi patroni e le festività ad essi collegate. Sicché l’opera è ben documentata e ricca di particolari, utile persino al cittadino o paesano che spesso non è a conoscenza dei beni culturali di cui dispone il suo paese o la città.
Oltre ai monumenti, particolare cura rivolge alle chiese, con le notizie sulla loro fondazione e le eventuali ricostruzioni, ricordando anche i benefattori e i signori che nel tempo si interessarono a mantenerle fruibili, perché attorno ad essi effettivamente si svolgeva la vita di tutto l’abitato, ed erano centri di istruzione, non esistendo una scuola o, se c’era, era frequentata da pochi privilegiati.
«Molte volte la storia di un paese s’identificò con quella della sua chiesa: dentro e intorno ad essa si svolgeva la vita dei suoi abitanti; era essa il punto di riferimento, la casa di tutti, dei signori e dei loro sudditi, dei ricchi e dei poveri. E osservando i quadri e le statue dei Santi cominciano da piccoli, di qualsiasi condizione, a prendere dimestichezza con l’arte».
Il Dizionario, così com’è strutturato, è interessante anche ai fini turistici. Il visitatore che vuole conoscere l’arte e i monumenti del paese o della città da visitare trova nella voce di quel comune ciò che gli torna utile, e non ha bisogno di guide, perché spesso non sono così ben preparate da soddisfarne l’interesse e la curiosità.
La quarta sezione riporta i censimenti (dal Cinquecento in poi) e le attività economico-sociali. Per quanto riguarda i censimenti – avverte lo storico – non c’è di fare affidamento, perché non rispondono a verità e sono soltanto indicativi. Eppure – afferma – hanno la loro importanza, perché su di essi «si costruisce una verità e anch’essi hanno una loro storia».
I numeri che vengono fuori sono puramente indicativi, mentre interessante è conoscere l’attività economica e imprenditoriale che vi si svolge. Ne viene fuori un quadro molto dettagliato e ricco di notizie che non fa che esaltare la produttività e la fertilità della Sicilia, anche se è triste costatare l’abbandono di tante terre, a causa di una politica agricola che non incentiva per niente il lavoro dei campi e le attività collegate. Eppure da quello che viene fuori dall’opera del Messina è che la Sicilia non è seconda a nessun’altra terra, capace di produrre di tutto (anche riso, come avviene a Piazza Armerina (En), o cotone, come nel passato), se fosse messa nelle adeguate condizioni di agevolare i contadini e di valorizzare le varie produzioni. Anche perché – asserisce lo storico -, ma ciò vale per la gran parte della Sicilia, «le risorse principali continuano a venire dall’agricoltura». A Castelvetrano (Tp), per es., si producono cereali, agrumi, vino ed altro, ma particolare incidenza ha la “nocellara del Belice”, nota ovunque per l’olio pregiato e le olive in salamoia; a Vittoria (Sr) la viticoltura e, come in altre parti, la serricoltura; a Pachino (Rg) il ciliegino, apprezzato ovunque.
La quinta sezione ricorda gli uomini illustri che fanno onore alla terra di provenienza. A questo punto lo storico non manca di dare una tiratina d’orecchi a quanti nelle loro storie hanno elogiato uomini a loro vicini o, addirittura se stessi, senza alcun merito. Ma la Sicilia di uomini grandi ne ha sempre avuti, alcuni operanti nei luoghi natii, tanti altri in Italia o all’estero per necessità, e questo dall’antichità ad oggi. Basti sfogliare il Dizionario e il lettore se ne renderà conto, anche se sono menzionati soltanto coloro che hanno lasciato un’impronta che il tempo non potrà mai cancellare. Per avvalorare ciò, riportando da Agostino Gallo un giudizio discordante su Vincenzo Cutelli, che era stato vescovo di Catania, Messina scrive che i casi così equivoci sono innumerevoli, e perciò ha inserito e «menzionato sobriamente uomini che espressero qualcosa di significativo, che lasciarono un messaggio particolare, opere concrete dettate dall’intelligenza, dal genio, dalla fede».
Facciamo alcuni esempi, ma a sfogliare una voce qualsiasi dei comuni siciliani il lettore può ben rendersene conto. Nella voce Palma di Montechiaro, oltre il pittore Domenico Provenzani e l’archeologo Giacomo Caputo, è anche menzionato Francesco Emanuele Cangiamila, palermitano, arciprete di Palma, che tanto s’adoperò per il bene spirituale e materiale dei cittadini, istituì opere di beneficenza e fece di tutto per dare assistenza medica gratuita ai bisognosi. «A Palma – annota lo storico – il Cangiamila fece praticare il primo taglio cesareo su una donna morta, salvando il neonato. Ma non fu appagato del suo impegno nel paese e nel 1742 rinunciò all’arcipretura” (., p. 469). A distanza di tempo Palma, riconoscente, gli dedicò una strada e una scuola.
Palermo e Catania hanno una miriade di personalità illustri, molti dei quali sepolti nel Pantheon siciliano (Chiesa di San Domenico) o nella Cattedrale di Catania. Sono personalità di ogni ordine e grado (letterati, uomini politici, medici, re, come Federico iii, scienziati), che tanto fecero e spesero le loro energie per il bene di tutti.
Modica, città natale di Salvatore Quasimodo, tra i suoi uomini illustri ebbe nel ‘700 Tommaso Campailla, poeta, filosofo, medico, autore di molti scritti, oltre di un poema, assiduo ricercatore e inventore della cosiddette “botti” (stufe di legno, vere e proprie botti di due metri circa, entro cui si facevano sedere i pazienti e da dove venivano fatti esalare fumi di mercorella), utilizzate per la cura della sifilide, della dismenorrea, delle artriti e delle infiammazioni in genere, che lo resero famoso in tutta Europa, tanto che ricevette la visita di George Berkeley, trovandosi in giro per la Sicilia sul finire del 1717 e fu in rapporto epistolare amichevole con Ludovico A. Muratori che gli offrì una cattedra all’Università di Padova che rifiutò.
Calogero Messina menziona personaggi, di cui spesso non si conosceva nemmeno il nome, che diedero un grande contributo al miglioramento in senso lato della società siciliana e non soltanto. Basti pensare allo stefanese Lorenzo Panepinto, che tanto fece per strappare dalle grinfie padronali i contadini, ai tanti storici e filosofi che sulla scia del Rousseau affrontarono il problema dell’uguaglianza e della libertà, e ai tanti altri che fecero scuola nel campo delle arti e della scienza.
La sesta sezione è dedicata alle tradizioni popolari. È l’ultima sezione, perché a chiusura segue la bibliografia (ricca e molto utile per chi vuole cimentarsi in lavori di ricerca).
Città e comuni in questo Dizionario sembra che facciano bella mostra (e la fanno!) di ciò che hanno o producono, invitano a visitare e conoscere direttamente il loro patrimonio artistico-culturale e prender parte alle feste e alle fiere che ogni anno si ripetono, come da tradizione, molto belle e partecipate. Spesso il visitatore si trova senza saperlo coinvolto in una di queste feste e la gusta, preso dalla novità e dalla tradizione, come capitò a Gustavo Chiesi, già ricordato, che nel suo giornale riporta:
«La vita e il commercio della città – di circa ventiduemila abitanti – si concentrano in questa via [via Atenea], che nei giorni festivi, quando accorrono per le provviste dalle cittaduzze e dalle borgate circostanti i contadini, coi loro vestiti caratteristici di sargia nera e di velluto, attillati, colle loro mantelline e i loro cappucci, prende un’animazione curiosa, singolare. Se poi, come a chi scrive, accade di capitare a Girgenti nel giorno di qualche speciale festività paesana […], allora vedi la via Atenea pavesata a bandiere marittime di tutti i colori e di tutte le nazioni possibili ed immaginabili e di tutte le segnalazioni portate dal codice telegrafico semaforico internazionale: con festoni di verdura tirati ad arco fra una casa e ed orifiamme d un’altra; cornicellesorreggenti una miriade di lampadine e lampioncini di carta per la luminaria alla veneziana; banderuole e stendardi ed orifiamme di carta da incendiarsi, da strapparsi dalla folla dei monelli , grandi e piccini, dopo il passaggio della processione, per finire degnamente il festino – che così in Sicilia son chiamate codeste cerimonie pseudo-religiose» (ib., p. 264).
Si nota subito l’attenzione che il giornalista presta a usi e costumi della nostra gente ed è un piacere rivivere quell’atmosfera festosa, sapere che bastava poco per avere svago e vivere momenti di allegra compagnia, senza il frastuono assordante di macchine e motori dei nostri giorni. C’erano privazioni, ma c’era la vita che pullulava e si manifestava in modo genuino e bello. Altra storia, vita paesana, ma storia vera, a differenza di quella che è fatta da uomini spinti per interessi propri e di pochi altri.
Ma Chiesi dovette assistere alla festa di San Calò, mentre l’altra, importante per i risvolti internazionali che ha, è la “Sagra del mandorlo in fiore”, che cadeva dentro la prima metà di febbraio. A farcela rivivere è lo stesso Calogero Messina scrittore, di cui riportiamo la parte finale, dove esalta l’uomo e, con esso, la storia. Ecco:
«Il momento più atteso è ancora l’apparizione delle majorettes color fiore di mandorlo; sono del nord, ma stanno benissimo davanti al millenario tempio del sud, nuovi boccioli della bellezza e dell’amore, nella natura che si rinnova. Trionfano sempre ad Agrigento, anche se altri avranno il tempio d’oro. È la giovinezza di fronte all’antico, ma si fondono e parlano insieme; per questo i vecchi vogliono partecipare alla sagra e rievocano i loro anni lontani. Chi non pensa al passare del tempo? È inesorabile, tutto doma. Ma è un conforto per l’uomo sapere che dopo di lui torneranno ancora le primavere, i campi a fiorire, altre creature a vivere col calore del sole, ad amare, a sognare e a fare sognare.
Anche la sagra finisce, si dirada la folla, partono pure le majorettes e lasciano i templi soli; dalla strada che sale da Porto Empedocle, si rivedono in alto, allineati e illuminati più del solito. Fortunati noi che possiamo vederli, immagini del tempo, dell’uomo, dell’arte, della speranza, della vita» (ib., pp. 277-278).
Ma tante sono le feste, a cui i Siciliani sono stati sempre legati, e spesso dedicate ai santi patroni, protettori di paesi e città: Santa Rosalia a Palermo, Santa Lucia a Catania, la Processione dei Misteri a Trapani, molto noti, e così via; festini tutti con un’ultrasecolare tradizione, come quello che si celebra l’8 settembre a Palma di Montechiaro (Ag), dedicato a Maria SS. del Rosario, che ha la sua cappelletta nel locale castello chiaramontano, ricca di storia e di leggende, di cui si tramandano tante storielle, come quella di Dragut che nel 1553 non riuscì a portare via la statuetta. Ma la festa non finisce l’8 settembre, perché è ripresa quaranta giorni dopo Pasqua. La Madonna dal castello viene portata in processione al paese, «dove viene incoronata, e ripercorre le sue strade, acclamata dal grido “Viva la bedda Matri d’ ’u casteddu!” Le fanno la scorta i muli sfarzosamente bardati – la retina -. Una settimana prima dell’ascensione viene riportata, sempre in processione solenne, al castello» (ib., pp. 481 – 482).
Una festa, questa, come le altre di tutti i comuni della Sicilia, dove si rispolverano usi e costumi della tradizione che, nonostante il lavaggio continuo di modernità a cui siamo sottoposti, entusiasmano tuttora e fanno rivivere momenti di vita che, se ormai lontani, non sono da dimenticare.
***
All’inizio, scrivendo di questo Dizionario storico dei comuni di Sicilia, abbiamo detto che siamo dinanzi ad un’opera monumentale, e tale è per i 7 volumi che lo compongono e, soprattutto, per la ricchezza di contenuti e di particolari che vi sono immagazzinati. Per questo il suo autore ribadisce che le storie municipali non possono essere compilate da sprovveduti, ma da studiosi dotati di un solido bagaglio culturale, tenendo sempre presente l’uomo e il suo operato, qualsiasi sia il ceto di appartenenza, perché è lui – ripetiamo – che fa storia ed è storia.
Calogero Messina, studioso di letterature classiche e moderne, storico e docente di storia all’università di Palermo, scrittore autentico e raffinato, poeta, ha consultato archivi italiani e stranieri, ha utilizzato documenti, capitoli scritti in latino e in siciliano antico; ha menzionato autori classici e moderni, ha dato se stesso per offrire e mettere a disposizione di tutti un valido e utile strumento di conoscenza e, al tempo stesso, un esempio di come si fa storia municipale, lui che – va ricordato – ne ha dato un saggio negli anni giovanili, quando – ricordiamo ancora – nel 1972 pubblicò S. Stefano Quisquina. Studio storico-critico, seguito da Lu recitu del 1973 (raccolta di canti campestri recuperati che tuttora vengono recitati dagli Stefanesi nella processione in onore di Santa Rosalia), ed ha continuato nel corso degli anni a darci tangibile prova del suo talento che onora la cultura e la terra delle origini, amata e ricordata in tante sue opere, come nella raccolta Sodalitas (1999), in cui, tra l’altro, c’è il componimento Lu me’ paisi, scritto nel 1978 e riportato nella voce Santo Stefano Quisquina (pp. 707-709), dove in uno dei suoi ritorni, così lo descrive ad un interlocutore immaginario:
Autu lu viri
appiccicatu a la muntagna
cu acchiana di Vivona.
Di supra Muntivernu
‘nfaccia a San Caloriu
ti spunta addummisciutu
‘nti ‘na vaddi Santu Stefanu.
E subbitu a lu Carvariu ti trovi
unni cci su’ du’ strati
e lu pinseri torna a lu passatu.
Se in un primo momento al poeta sembra già pregustare la gioia di rivedere i luoghi dell’infanzia, dopo un po’ è portato a ricredersi, come se avesse avuto una repulsa, perché del paese di una volta non ha trovato nulla; tutto è cambiato, modificato, passato di bene in peggio, tanto da non riconoscerlo e non ritrovarsi a proprio agio. La modernità ha sicuramente portato dei benefici, ma ha peggiorato i rapporti umani, ha modificato in negativo e l’uomo tiene ad apparire piuttosto che ad essere. Questo produce al poeta tanto sconforto e con amarezza, rivolgendosi al paese che ha conosciuto, chiede:
Paisi miu,
terra di San Giurdanu e di Fra’ Vicenzu,
vallati e munti e cozzi
pridiletti di li Nurmanni
e rifugiu di li Santi,
unni su’ li travagliatura di un tempu
boni e rispittati,
ddi carusi beddi
chi aiutavanu a li patri
[…]
Nun cc’è cchiù ‘na fimmina chi famìa
o chi sapi dari un puntu
né cu la sira cunta un cuntu;
[…]
Scumpareru li gaddetti e l’oglialora,
li turduli, li frecci e li girialora.
Calogero Messina, da storico e poeta, in Lu me’ paisi dà al lettore un compendio di passato e presente, riporta usi e costumi di una volta, e offre a quanti si accingono a scrivere del loro paese un valido esempio di come si fa con competenza e onestà intellettuale storia municipale.
Salvatore Vecchio