Bontà loro
In un mondo fatto di egoismi e di egotismi, di gelosie e di ricatti, d’indifferenza e di furberie, di ipocrisie verniciate o trasparenti, di brutalità e di rancori, di demagogia sordida, di vanità e di arrivismo, di falsità morali materiali e ideologiche ad ogni livello, di declamata falsa fratellanza, di malcelate invidie, in cui viviamo, sembrava che la Bontà, virtù spirituale che è un segno di nobiltà dell’animo umano, fosse stata relegata in soffitta, fosse diventata oggetto di derisione e di scherno come tanti altri valori etici in disuso, in una parola, sembrava fosse introvabile … un’araba fenice!
Invece no: c’è stato chi ha avuto tanta costanza da riuscire a trovare qualcuno che, bontà sua, si presta ad apparire sugli schermi televisivi, per essere intervistato fino all’ultimo confronto, come si fa con i detersivi.
Qualcuno potrebbe insinuare che non si tratta di vera bontà, ma piuttosto di esibizionismo, giacchè vediamo ad ogni piè sospinto, quanto grande sia l’ansia di vedersi … televisionato, in individui di ogni estrazione sociale e culturale: ti vedono familiari e amici, nonché nemici che si rodono dentro per non esserci arrivati.
È come entrare – e officiare – in un tempio magico, precluso alla maggioranza dei comuni mortali, essere oggetto dell’attenzione altrui, cosa che solletica la vanità, sentendosi parte della schiera degli eletti, degli iniziati alle segrete cose: talchè, dal grave ed ermetico uomo politico, all’asso dello sport, all’attore più o meno di grido (anche se già altre volte televisionati) all’ultimo popolano o ragazzino i quali, quando una telecamera distrattamente o volutamente li inquadra, esultanti, non sanno resistere alla voglia di dimenarsi e agitare la manina, tutti, godono un inesprimibile fasullo gaudio, che ne solletica le varie papille.
È perciò una semplice frase stereotipata di grammatica – senza valore perché trita e ritrita quel “grazie per avere aderito all’invito” che spesso si sente, invito la cui accettazione era largamente scontata. Piccole ipocrisie, del resto veniali, che sono l’immancabile corredo della socievolezza.
Costanzo, dal fare sornione, è un abile intervistatore che cerca di sondare nei recessi, e talvolta vi riesce, un po’ molcendo, un po’ mordendo, a volte dolce, a volte graffiante.
Tempo fa, la triade che aveva aderito all’invito era composta da un magistrato, del quale sfugge il nome, da un’attempata ex attrice dall’eloquio fluente, spumeggiante e talvolta straripante, e da un terzo che vorrà scusare se, per labilità di memoria non viene citato, ricercato per formare la terna ed occupare la terza poltrona: una persona intelligente e spiritosa che, profittando dell’occasione, pensava solo a rimirare certe residue grazie femminili, invero non molto eclatanti, perché costituite solo dalle lunghe gambe, generosamente e variamente esibite, quali ruderi di una passata altezza.
Il paziente Costanzo durava fatica a strappare di bocca la parola a colei che anche in quella occasione si rivelava brava attrice, ma riuscendo inutili i freni a disco e quelli idraulici tentati, doveva arrendersi alla foga impetuosa.
Però, il personaggio chiave della seduta era il magistrato, un alto magistrato, sembra, altamente qualificato, tanto che, se la memoria non falla, era stato eletto a far parte del C.S.M.
Una delle domande rivoltegli da Costanzo, e sulla quale vogliamo soffermarci – considerata la risposta – era: che cosa provava, lui, giudice, entrando in aula erestando da una parte della barricata, nel guardare l’uomo che doveva giudicare, seduto sulla panca degli imputati, e cioè, dall’altra parte della barricata.
L’inattesa, inaudita, aberrante risposta: “un senso di vergogna”!
Pur facendo credito alla sensibilità, alla sincerità, al senso intimo della risposta, spiegato con accenti di umiltà e comprensione dal giudice interrogato, non si può non osservare che la risposta è da considerarsi abnorme, come contenuto, per cui sarebbe apparso più logico ed opportuno dire: “un senso di disagio.”
La risposta sarebbe sembrata, così, meno demagogica e più credibile, nonché più valida e più apprezzabile dal lato umano, quel lato, cioè, che il giudice ha inteso accreditare: e sarebbe valsa anche a tener lontano ogni eventuale dubbio, come, ad esempio, quello, da respingere, di aver cercato di ingraziarsi certi franchi tiratori. Il fatto di aver avuto la fortuna di appartenere a famiglia che ha potuto dargli una istruzione e una educazione, mentre l’altro, l’antagonista, può non aver avuto tali provvidenze, non è sufficiente a giustificare “il senso di vergogna”. Non tutti i delinquenti sono nati e cresciuti nei ghetti, e viceversa, tanti, cresciuti nei ghetti, diventano onesti lavoratori. Non tutti i nati da famiglie patrizie o doviziose sono uomini esemplari, ma molti di essi delinquono. Né mi si venga, a questo punto, a parlare della “società”, perché in essa vegetano sia le piante buone che la gramigna. Solo un superuomo mancato (con buona pace dei Nietzsche) di tipo radicaleggiante, potrebbe appigliarsi a certe motivazioni neoplatoniche e capziose, con ben precisi scopi.
Il fare il giudice è un servizio sociale, forse il più nobile, è il più difficile, e non c’è da vergognarsi a farlo quando si è scelta quella strada, altrimenti dovrebbero vergognarsi tutti quei funzionari dello Stato che hanno una funzione, spesso sgradita agli altri, ed a volte a se stessi, a cominciare dal questore al generale dei carabinieri, dai funzionari del fisco fino all’ultimo degli agenti appartenenti a tali categorie: sarebbe curioso, anzi interessante, invitare tutti costoro a vergognarsi (… su, vergognatevi un po’ . . .) per sentire le loro reazioni. Al contrario, se qualsiasi funzione è esercitata con zelo, con onestà, con comprensione, con senso di misura, in una parola, con equità ed umanità, può essere fonte delle migliori soddisfazioni morali. Con senso di equità e con umanità: nessuno, più di un giudice, nell’assolvere il suo mandato, può esplicare pienamente tali virtù, che tramutano la durezza del compito, non in vergogna ma in intima gioia, per avere contribuito, con la propria discrezionalità e con animo puro, all’affermazione di princìpi della più affinata etica sociale.
Infine, nessuno toglie a un magistrato, quando il “senso di vergogna” prevalga su quello del retto dovere, la facoltà di dimettersi dalla sua funzione ed abbracciare la professione dell’avvocato, venendo, così, a trovarsi dall’altra parte della barricata, e potendo così tutelare la difesa dei derelitti che le solite insufficienze della società hanno costretto a intraprendere la via del delitto.
Il potere – e la Magistratura è un potere – è deplorevole e nefasto quando è volto ad opprimere: quando, invece, è spinto dal nobile intento di amministrare saggiamente e onestamente la Giustizia, esplica la funzione più nobile in una società evoluta, ed è perciò altamente apprezzabile.
Non resta che augurarsi che la risposta data sia da attribuirsi ad un semplice lapsus, nel dover rispondere con immediatezza a una domanda forse inattesa, cosa che avviene non di raro in tivù, dove la suggestione esercitata dall’ambiente può provocare momentanei smarrimenti anche in chi, in altra sede, è agguerrito, distaccato e disinvolto. Donato Accodo
Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 13-16