Attendo la calda estate, da quando mi accorsi che il tuo Stagnone, o mare, stava a poche centinaia di metri da casa mia. E sono smanioso di tuffarmi nelle tue acque, perché solamente esse mi spogliano di tutti i pensieri che nascono e affollano il mio cervello, anche quando m’appisolo dopo pranzo. E in te m’illudo d’essere bambino o, meglio, embrione, immerso nel liquido amniotico. E più mi muovo in te e più mi sento libero, senza alcun disturbo, anche quando, giunto malconcio, agitandomi a più non posso, l’euforia che m’aveva preso aveva lasciato il posto all’incoscienza, che è uno stato paradisiaco.
Non so se tale magnifico effetto, che somiglia – per quello che ho letto – a quello della droga, sia dovuto al tuo colore che non riesco a catalogare, tanto è vario e bello e si confonde in lontananza con quello del cielo, tranne dove ci sono isole alte, come le Egadi, di fronte a San Teodoro, o quando c’è foschia o al tuo sapore che pare di bibita eccellente, quando vieni ingoiato con una boccata di tramontana, che lì è di casa, o alla tuamusica incessante che anche quando è debole, è sempre dolce e struggente, ancor più di quella di Brahms o di Schubert che sono le mie predilette.
Quando sei immobile, mi stendo come un cartellone pubblicitario o, meglio, uno spaventapasseri e faccio il morto con il petto gonfio d’aria e il viso rivolto al cielo. Attratto dal tuo fondo che scopro nitidamente, mi tuffo con gli occhi aperti ma dolenti e lacrimosi alla ricerca di un qualcosa che non conosco, infilo le mani nella ghiaia, nella sabbia o nella melma o in una polla d’acqua dolce e fresca. Allora mi piace scavare, seguire l’andamento geometrico delle dunette sabbiose prodotte dai tuoi moti, che gli anglosassoni chiamano ripple marks, tastare gli scogli erbosi sino a toccare un granchio, leggere le impronte dei gasteropodi, il lavorio del paguro, studiare il comportamento dei neonati tra ciuffi algacei o in praterie di posidonia, e risalgo sbuffando, come un palombaro, quando il fiato mi viene meno.
Tutto filmerei, perché sei vario, dal Baltico alla Patagonia, e nello stesso luogo da oggi a domani e ininterrottamente girerei per conoscerti meglio. La tua immensità, la molteplicità dei tuoi habitat, con la vivacità, le forme, i colori, le abitudini dei micro e macrorganismi che t’abitano, le tonnellate e tonnellate di elementi chimici e le innumerevoli molecole che ti costituiscono, il cui calcolo approssimato farebbe soffrire il più quotato cervello elettronico, mi fanno minuscolo ma grandemente consapevole che tu sei – permettimi, forse ti sentirai offeso – una creatura come lo sono io, o come lo è quella farfalla bianca che approda sulla terraferma visibilmente stanca, dopo non so quante ore di volo, come lo sono quei germani reali che remigano allineati e coperti come fanno i ciclisti, velocemente verso settentrione, come lo è l’aria o quella stella che fiammeggia ininterrottamente da miliardi di anni prima della comparsa dell’uomo, come lo è tutto il sensibile e tutto quello che ancora non percepiamo che, a prescindere delle anime dei trapassati, è più abbondante del pur maestoso visibile.
Tu, o mare, ogni qualvolta vengo a te, cosa che faccio spesso nella calda stagione, rinnovi la mia vita, al pari dell’elettrauto che ricarica le batterie. Ed anche oggi, mentre la Rotonda e la Torre, da cui per mesi interi si levarono odori di fritture e suoni agitati, stanno uscendo dal letargo, mentre alcune roulottes già si preparano ai viaggi, e nubi bianche e sparse gareggiano nell’alta troposfera da Ponente ad Oriente, io sono là, al sole di mezzogiorno, con Maria Antonietta e Paoletta, insaziabili quanto me. Non te la prendere, ti prego, se mi vedrai per molto a mollo e saltellare come un fauno forsennato sulla tua spiaggia bagnata, dove oggi ho tentato ancora una volta, ora che il curioso è impegnato altrove, di battere il record del mondo stabilito da Mennea, perché tu, che sei un componente essenziale dei miei liquidi vitali, che entri in me attraverso i pori e per le decine di migliaia di scambi osmotici che trame e te si stabiliscono, dal momento che m’avviluppi, e talvolta a sorsi dalla bocca, mi sei gradevole lassativo: accettando le mie annuali scorie, mi disinquini e riequilibri le condizioni fisico-chimiche dei miei ambienti interni, condizione determinante per poter vivere sano e a lungo, Mi trattieni quasi con un elastico invisibile, forse testimone delle origini dei nostri lontanissimi progenitori o perché in te solo riesco a scaricare le tensioni dell’anima mia senza nuocere a nessuno.
Anche i viaggi mi rasserenano, e per questo ho girato un po’ per l’Europa, Mi piace l’alta montagna, quella delle nevi eterne e l’intricata foresta, e la tundra e la nuda hammada, ma in esse non saprei starci che qualche mese, mentre mi scoppierebbero certi organi se dovessi lasciarti per qualche anno, mare vivo, fecondo, ventilato, pulito, genuino e musicale, accolto come mamma da coloro che t’hanno avvicinato, medicina naturale polivalente, Anche se non sempre sei accettato, e sconsigliato da certi che, non avendo ben compreso le funzioni semplici ed insostituibili della natura, si affidano a somministrazioni di farmaci ottenuti per sintesi. Sostanze che inquinano gli ambienti interni e non giovano, anzi rovinano spesso irreparabilmente il paziente.
Avviciniamoci alla natura con animo fiducioso, e rispettiamola, se vogliamo essere amati come figli e tutelati.
Aldo Nocitra
Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 14-16.