Cielo dell’Attica

Cielo dell’Attica azzurro
spazio e respiro profondo,
un mare verde
per i marinai dell’anima.
Navigare è sogno,
la luce rincorrere, il sorriso.
Cielo dell’Attica azzurro
la sera che ti ho visto
eri raccoglimento, silenzio illimitato.
Già mi ritrovo tua memoria,
sfumato affresco negli occhi,
lievi colori, la tua bellezza.
Ma tramonta il sorriso
sfiorisce la dolcezza,
si perde il grido
nella pieghe delle labbra.
Cielo dell’Attica verde
il colore dei tuoi occhi
forse ho perduto per sempre,
chè se tornano il sorriso e la dolcezza
penserò ad un diverso cielo
senza colombe e senza voce,
un silenzio che incombe solenne
e seppellisce gloria e amore.
Cielo dell’Attica azzurro
mia tenerezza, illusione e pianto,
sei come il mio cielo cangiante
come il mio sogno errante.

Rolando Certa

(Il sorriso della Kore, Palermo, Il Vertice, 1985)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 54.

 




 Il mare sano è vita 

Attendo la calda estate, da quando mi accorsi che il tuo Stagnone, o mare, stava a poche centinaia di metri da casa mia. E sono smanioso di tuffarmi nelle tue acque, perché solamente esse mi spogliano di tutti i pensieri che nascono e affollano il mio cervello, anche quando m’appisolo dopo pranzo. E in te m’illudo d’essere bambino o, meglio, embrione, immerso nel liquido amniotico. E più mi muovo in te e più mi sento libero, senza alcun disturbo, anche quando, giunto malconcio, agitandomi a più non posso, l’euforia che m’aveva preso aveva lasciato il posto all’incoscienza, che è uno stato paradisiaco. 

Non so se tale magnifico effetto, che somiglia – per quello che ho letto – a quello della droga, sia dovuto al tuo colore che non riesco a catalogare, tanto è vario e bello e si confonde in lontananza con quello del cielo, tranne dove ci sono isole alte, come le Egadi, di fronte a San Teodoro, o quando c’è foschia o al tuo sapore che pare di bibita eccellente, quando vieni ingoiato con una boccata di tramontana, che lì è di casa, o alla tuamusica incessante che anche quando è debole, è sempre dolce e struggente, ancor più di quella di Brahms o di Schubert che sono le mie predilette. 

Quando sei immobile, mi stendo come un cartellone pubblicitario o, meglio, uno spaventapasseri e faccio il morto con il petto gonfio d’aria e il viso rivolto al cielo. Attratto dal tuo fondo che scopro nitidamente, mi tuffo con gli occhi aperti ma dolenti e lacrimosi alla ricerca di un qualcosa che non conosco, infilo le mani nella ghiaia, nella sabbia o nella melma o in una polla d’acqua dolce e fresca. Allora mi piace scavare, seguire l’andamento geometrico delle dunette sabbiose prodotte dai tuoi moti, che gli anglosassoni chiamano ripple marks, tastare gli scogli erbosi sino a toccare un granchio, leggere le impronte dei gasteropodi, il lavorio del paguro, studiare il comportamento dei neonati tra ciuffi algacei o in praterie di posidonia, e risalgo sbuffando, come un palombaro, quando il fiato mi viene meno. 

Tutto filmerei, perché sei vario, dal Baltico alla Patagonia, e nello stesso luogo da oggi a domani e ininterrottamente girerei per conoscerti meglio. La tua immensità, la molteplicità dei tuoi habitat, con la vivacità, le forme, i colori, le abitudini dei micro e macrorganismi che t’abitano, le tonnellate e tonnellate di elementi chimici e le innumerevoli molecole che ti costituiscono, il cui calcolo approssimato farebbe soffrire il più quotato cervello elettronico, mi fanno minuscolo ma grandemente consapevole che tu sei – permettimi, forse ti sentirai offeso – una creatura come lo sono io, o come lo è quella farfalla bianca che approda sulla terraferma visibilmente stanca, dopo non so quante ore di volo, come lo sono quei germani reali che remigano allineati e coperti come fanno i ciclisti, velocemente verso settentrione, come lo è l’aria o quella stella che fiammeggia ininterrottamente da miliardi di anni prima della comparsa dell’uomo, come lo è tutto il sensibile e tutto quello che ancora non percepiamo che, a prescindere delle anime dei trapassati, è più abbondante del pur maestoso visibile. 

Tu, o mare, ogni qualvolta vengo a te, cosa che faccio spesso nella calda stagione, rinnovi la mia vita, al pari dell’elettrauto che ricarica le batterie. Ed anche oggi, mentre la Rotonda e la Torre, da cui per mesi interi si levarono odori di fritture e suoni agitati, stanno uscendo dal letargo, mentre alcune roulottes già si preparano ai viaggi, e nubi bianche e sparse gareggiano nell’alta troposfera da Ponente ad Oriente, io sono là, al sole di mezzogiorno, con Maria Antonietta e Paoletta, insaziabili quanto me. Non te la prendere, ti prego, se mi vedrai per molto a mollo e saltellare come un fauno forsennato sulla tua spiaggia bagnata, dove oggi ho tentato ancora una volta, ora che il curioso è impegnato altrove, di battere il record del mondo stabilito da Mennea, perché tu, che sei un componente essenziale dei miei liquidi vitali, che entri in me attraverso i pori e per le decine di migliaia di scambi osmotici che trame e te si stabiliscono, dal momento che m’avviluppi, e talvolta a sorsi dalla bocca, mi sei gradevole lassativo: accettando le mie annuali scorie, mi disinquini e riequilibri le condizioni fisico-chimiche dei miei ambienti interni, condizione determinante per poter vivere sano e a lungo, Mi trattieni quasi con un elastico invisibile, forse testimone delle origini dei nostri lontanissimi progenitori o perché in te solo riesco a scaricare le tensioni dell’anima mia senza nuocere a nessuno. 

Anche i viaggi mi rasserenano, e per questo ho girato un po’ per l’Europa, Mi piace l’alta montagna, quella delle nevi eterne e l’intricata foresta, e la tundra e la nuda hammada, ma in esse non saprei starci che qualche mese, mentre mi scoppierebbero certi organi se dovessi lasciarti per qualche anno, mare vivo, fecondo, ventilato, pulito, genuino e musicale, accolto come mamma da coloro che t’hanno avvicinato, medicina naturale polivalente, Anche se non sempre sei accettato, e sconsigliato da certi che, non avendo ben compreso le funzioni semplici ed insostituibili della natura, si affidano a somministrazioni di farmaci ottenuti per sintesi. Sostanze che inquinano gli ambienti interni e non giovano, anzi rovinano spesso irreparabilmente il paziente. 

Avviciniamoci alla natura con animo fiducioso, e rispettiamola, se vogliamo essere amati come figli e tutelati. 

Aldo Nocitra 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 14-16.




I PESI CHE TI PORTI APPRESSO

Con questi pesi che ti porti appresso
giri per la città, tutto da solo,
la cattiva coscienza t’importuna:
un vino inacidito dentro l’anima.

C’è un bar all’angolo dove ti faranno
la carità di un dito di J&B
e una voce sospira Summer time
portandoti veleni d’oltre Oceano.

Le colombe s’inventano Venezia
e tu rianneghi nella tua laguna, 
senza violino.

La cassiera sorride a una battuta
arguta sul suo seno che è in rigoglio,
ti tratta già da vecchia conoscenza
e niente sa di te, dei tuoi fantasmi.
Carmelo Pirrera

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 29.




UN RITRATTO DELLA MADRE

C’era pure un ritratto della madre 
                      – di lei nessuno sa niente,
s’affaccia a guardare con aria stranita,
rispunta tra le carte di una lite
che il tempo non può più sedare.

Che suonava l’armonium nella chiesa
lo ricorda qualcuno,
e che cantava 
inni sacri alla gloria del Signore;
e si nutriva di letture bibliche,
conversava con Sara e con Isacco,
con Esaù che volle le lenticchie.
E lottava con angeli, a sua volta.

Ai ragazzi insegnava l’alfabeto
e a far di conto.
Le diedero persino una medaglia
con l’effigie del re: c’era una volta…

Carmelo Pirrera

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 29.




FRANCESCO GRISI, L’affettuoso sentiero – poesie, Palermo, Thule ed., 1994.

L’affettuoso contemptus di Grisi 

Scoprire l’«affettuoso sentiero» che Francesco Grisi ci invita a percorrere è cosa difficile ed insieme facilissima. Difficile, perché nella raccolta non esiste una poesia eponima o per lo meno una nella quale ricorra l’espressione del titolo. Ma se guardiamo al trans-correre delle ventitre liriche, ci accorgeremo facilmente che il “sentiero” che costituisce la guida e quasi l’anima degli “affetti” che accendono la fantasia del poeta è l’ordine stesso con cui quelle liriche sono state raccolte e presentate al lettore.

La prima lirica (“Veleggiavo una mattina…”) sembra dire che la vita del poeta trova “ormai” significato soltanto nella “disperata memoria” del passato, negli anni dell’adolescenza calabrese dello scrittore. Ma se così fosse la poesia di Francesco Grisi sarebbe come quella di tanti altri, anzi, una di quelle voci “prometeiche” e pagane che, non sapendo dare un significato alla “realtà della morte” nella vita degli esseri e del mondo intero, si inventano favole di immortalità terrestre e battaglie baroccheggianti contro il tempo, la Morte e l’oblio nel tentativo “disperato” di essere ricordato dai posteri o di richiamare in vita il passato, il tempo perduto: magari illudendosi ed illudendo, come il buon Proust, che il sapore del tempo è superiore al tempo stesso e che il ricordo è l’unica realtà in un esistere ridotto a mera apparenza, senza più alcun barlume di trasparenza.

Il culto della memoria, per quanto seducente, è religione da disperati – dice Grisi; “allarga il cuore”, ma lascerebbe vuota la nostra esistenza, se il veleggiare nel mattino all’ombra degli ulivi di Crotone, si fermasse alla pura memoria, se non tendesse a trascendere il fatto o il ricordo in sé, se non diventasse mito facente parte di una globale armonia, nella quale il tempo non si divide più in “stagioni” perché gli uomini «siamo nati invece per non morire»; anzi, in verità, malgrado la presenza della morte e proprio grazie ad essa «siamo quelli della resurrezione». Ecco, Francesco Grisi non rimpiange, né ci attrista con il suo rievocare l’infanzia, la figura del padre, quella della madre, o le cadenze e i ritmi musicali del mare di Calabria (“Allora. Il mare”). La rievocazione non è canto dolente, né il “così sia” che egli scandisce e quasi frantuma con amabile, irriverente ironia, significa rassegnazione, bensì capacità di cogliere i ritmi dell’universo nella bellezza che contraddistingue le figure, le scene, gli accadimenti, le cose. Tutto e sempre, di là e oltre, la pura (o stupida) peculiarità di ciò che serve a caratterizzare un individuo o una civiltà, un momento della nostra vita o una tranche della storia.

Il poeta è così sereno dinanzi alla prospettiva della morte da affermare che allora, quando che sia, egli tra giorni sarà “greco in Cielo”; ma noi vorremmo aggiungere che egli è greco, nobile figlio della Magna Grecia, anche per il suo sentimento di una vita che ha inchiodato Prometeo «per secoli/ a una rupe rassegnata» ed ha rifiutato l’atteggiamento implorante di  Orfeo («Orfeo implorante più non mi appartiene») per ricercare alla fine il Dio Ignoto della Resurrezione, rivelato agli Ateniesi da Paolo.

E allora, se la realtà vera è la resurrezione, la morte non fa più paura, né la vecchiaia si carica di attributi poco lusinghieri, né in essa e di essa si rilevano le sofferenze o gli acciacchi. Essa è un sereno avanzare per “i sentieri del ritorno” verso il Padre, dopo che la giovinezza e la maturità hanno esaurito quella carica, cosiddetta vitale, che ci aveva portato, come folli tralci, ad allontanarci dalla Vite-Vita, e ad inorridire della morte. Scrive il poeta: «Per ignoto privilegio / accolgo anche la morte / e docilmente la scrivo / in forme di vita».

In questa prospettiva autenticamente cristiana, attraverso la celebrazione mitica dell’infanzia, di Crotone, della nativa Cutro, del suo mare e del suo cielo, di Todi e dell’Umbria, terra di fede, attraverso il canto della donna, dell’amore, delle bellezze della natura, il poeta perviene ad una sorta di contemptus mundi rovesciato, dove l’attesa dell’altra vita e l’ansia della resurrezione non comportano il distacco dalla vita di ogni giorno o il disprezzo dei beni materiali, ma piuttosto un più attento e vigile amore per le cose del mondo, un disincantato “affetto” ricco di ironia, il quale, fra l’altro, ci fa scoprire che fra le verità religiose e le seduzioni terrestri non c’è contrasto ma complementarietà e che – anche in questa vita – la creazione e il mondo nei suoi infiniti aspetti di bellezza e bontà fanno parte di un piano armonico tutto da scoprire e da gustare: Dio – dice il poeta in forma potentemente suggestiva – è un racconto senza fine.

Vincenzo Monforte

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 64-65.




Salvatore Vecchio, La Terra del Sole. Antologia di cultura siciliana, 2 voll., Caltanissetta, Terzo Millennio Ed., 2001.

Un’originale panoramica antologica 

Ho potuto leggere e apprezzare l’opera in 2 volumi di Salvatore Vecchio La Terra del Sole. Antologia di cultura siciliana. Il primo volume va dalle origini ai Borboni, il secondo dal Risorgimento ai nostri giorni. Elegante nella veste e densa di contenuti riccamente annotati, è originale nei dettagli e nella panoramica, anche antologica, della letteratura siciliana.

È un lavoro sobrio, proprio di chi rifugge dal perseguire effimere mode, convinto della necessità di sottoporre all’attenzione dei lettori contenuti efficaci, di scrupolosa fattura. Egli ci introduce nel teatro di trascorsi eventi e ci rende partecipi delle azioni dei protagonisti in un’analisi di piacevole scorrevolezza senza mai tradire, dall’inizio alla fine di ciascuna scheda d’autore, l’impegno a mantenere costantemente lineare la narrazione e a renderla accessibile in tutto il contesto esposto con puntigliosa fedeltà di una obiettiva ricostruzione che ravviva i tempi e penetra nell’intimo i fatti, ricercando e riscoprendo le lontane origini della civiltà sicula per riproporla, con solide fondamenta, a quanti ritengono giusto e doveroso difende la cultura dei nostri avi dallo scadere dei valori tradizionali della nuova lingua.

In quest’opera l’Autore dimostra spiccata professionalità ed ingegno non comune dotato di molteplici risorse nell’arte di sviluppare e coordinare il lungo percorso storico-letterario in argomento, evidenziando nei numerosi approfondimenti inseriti qua e là nell’intera opera le varie derivazioni dei vocaboli, spiegando e rilevandone, all’occorrenza, le avvenute trasmutazioni attraverso i secoli.

Nel contesto dei due volumi Salvatore Vecchio ricostruisce i tempi in cui si sono formati i singoli protagonisti e li segue nei loro vari itinerari culturali, fino al raggiungimento dei loro traguardi, progredendo in questo suo nuovo studio il discorso già da tempo avviato con successo in altre precedenti ternate editoriali dedicate a personaggi di spicco, quali Cardarelli, Pirandello e Ionesco. Il tutto sempre con ineccepibile rispondenza alle fonti ben rigorosamente controllate.

In conclusione, si può dire che l’opera induce a far riconoscere all’Autore un riuscito tentativo di rivalutazione di tutti i personaggi dei quali si è occupato con appassionate ricerche che mettono in rilievo la sua competenza di critico equilibrato e di vasta cultura.

Donato Accodo 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 63-64.




AA . VV., Dio nella poesia del Novecento (a cura di R. Ricchi-M. Rosito), Firenze Libri, 1991.

La coscienza del sacro

Una lunga catena di poeti, ordinati alfabeticamente, sfila come le perle di una collana bene assortita nel colore prescelto; in questo caso la religiosità in campo letterario nella sublimazione poetica. È nell’amore che parla al proprio Dio, è nell’io trascendente l’amore dell’anima assetata in cerca della fonte della vita che nella quiete contemplativa si fa domanda, esce dal tormento e si fa estasi. Nel libro così impostato da Renzo Ricchi e Massimiliano Esposito, direttore della rivista “Città di Vita”, si susseguono poeti noti e meno noti, poeti santi e poeti inguaribilmente scettici, dove sussiste qualche sprazzo di luce e dove l’ironia sorniona è assunta per sottolineare la cecità degli uomini chiusi alla lunga mano di Dio insita anche in un timido coniglio (vedi il caso Prévért).

Nella vasta geografia letteraria europea del Novecento sono accostati poeti russi, spagnoli, francesi, inglesi, greci, tedeschi e italiani. Dalla russa Anna Achmatova che chiede consolazione a Cristo nel suo dolore stringato di madre e di sposa, il confronto, a rigore di pagina, con Guillaume Apollinaire che, svolgendo il suo credo in una ininterrotta discorsività spesso vaniloquente, addita poi «la torcia dalla rossa chioma che nessuno può spegnere». Insieme vanno Alfonso Gatto in “Santa Chiara” e Kahlil Gibran con la sua mistica orientale che «giunge a vedere il mondo come un’unità perfetta, e la vita un’armonia eterna». Così è per Rabindranath Tagore che dalla via del dolore risale alla gioia della conoscenza ed esclama: «La vita è immensa!».

Anche se da più parti si è gridato alla morte di Dio, gli Autori di questa bella antologia trovano la coscienza del sacro in ogni poeta; siano essi agnostici, nel tarlo del dubbio o nella dimensione della trascendenza, non negano mai l’esistenza di Dio in assoluto. La porta della Verità è lì che attende, sino alla fine dei secoli per dire ai giusti: «Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità il Regno, perché mi avete beneficiato nella persona dei miei fratelli»; dirà ai peccatori: «Andate maledetti al fuoco eterno, perché non mi avete amato nella persona dei fratelli bisognosi».

Nella ricerca di Dio attraverso il dolore pur necessario a smuovere la coscienza della Verità, il canto religioso si fa preghiera di conforto. Illuminato dalla fede il cammino della conoscenza si fa ardore in Ferdinando Antonio Nogheira Pessoa, macerazione in Clemente Rebora, abbandono in Miguel de Unamuno: «Non cerco più, / non mi posso più muovere, m’arrendo; / t’aspetto qui, Signore, e qui t’attendo…». Il distacco riverente di Costantino Kavafis accede alla “pietas” nel senso umano, non va oltre:«Forse sarà la luce altra tortura».

Incombe la paura nella caratteristica follia dei tempi moderni in cui la mancanza di equilibri genera smarrimento e diffidenza in tutto ciò che va oltre il visibile percettivo. Paura e pigrizia mentale non offrono sostegno allo scavo interiore. Anche Guido Gozzano si trincerà dentro rifugi d’avorio e in un suo sonetto semiserio dice: «Amare giova! Sulle nostre teste / par che la falce sibilando avverta / d’una legge di pace e di perdono: / – non fate agli altri ciò che non vorreste / fosse fatto a voi!». E mi pare giusto per la pace del mondo.

La poesia religiosa si è fatta preminente in questi ultimi decenni, di buon auspicio per il nuovo millennio. Ben vengano queste antologie. I poeti riportati sarebbero tutti da citare, ma ci contentiamo di concludere con un’attenzione al poeta Herman Hesse, considerato un maestro delle nuove generazioni che apprezzano soprattutto il forte equilibrio interiore che è nelle sue opere e certe forme di misticismo orientale. Così scrive in una sua riflessione: «Dio è lo Spirito ed eterno, / Incontro gli andiamo, strumento di Esso / ed immagine; a questo aspiriamo nell’intimo: / diventare com’Esso, brillare della sua luce». Nella discordia dei tempi moderni ora si avverte un incipit vita nova.

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 62-63.




Elena Milesi, Paggio in viaggio, Torino, Genesi editrice, 1991.

Un viaggio augurale

Si legge con gusto Paggio in viaggio di Elena Milesi; è una miniera di immagini che si rincorrono, si perdono, si cercano a rimpiattino con un gioco festoso e splendido come può esserlo il leit motiv di una sinfonia cromatica di altri tempi. È la musica che ci viene da lontano sul filo delle tradizioni da ritrovare di cui il Paggio è l’annunciatore felice con la sua spada d’argento in pugno per fugare le tenebri incombenti del nostro tempo perverso. Ci fa riprendere coscienza del contrasto con il nostro rumore assordante dove l’arrembaggio è parola d’ordine, e il disordine nel corpo e nella mente. Il Paggio dice basta a tutto questo e parte, lancia in resta a testa alta, fiero di precedere «un altro Angelo (che) sguainerà la spada/ contro questa peste». Paggio come Amore, come Angelo, Spirito guida per aiutarci a « scavare il pertugio d’oro / per l’occhio del sole».

Noi vediamo crescere i fanciulli con disappunto e dolore; gli anni dell’adolescenza ancora fusi all’infanzia e proiettati nell’ignoto del futuro rimangono delusi della realtà, il disamore li traumatizza mentre vorrebbero nutrirsi d’amore come la loro età li sollecita d’istinto. È l’età in cui prendono coscienza di un mondo violento e falso da abbordare loro malgrado; unificarvisi oppure cedere a paradisi artificiali per surrogare quelli dell’infanzia felice o mancata. Tutti i fanciulli del mondo sono piccoli paggi brutalizzati in questa civiltà corrotta che li priva di tenerezza e di comprensione.

I loro desideri sono fugati troppo 

presto dalla loro anima assetata di gioia cui vorrebbero uniformare il mondo per un futuro da conquistare a misura della loro umanità. Purtroppo solo i più fortunati riescono a equilibrare le loro nascenti pulsioni sul filo dei “palloncini colorati” da far scoppiare nel momento creativo di sensate iniziative. Il punto è avere i maestri giusti, altrimenti rimangono immensi nelle nevrosi e nelle inquietudini che ammalano l’anima per tutta la vita fino a scendere nell’abisso della violenza e del terrorismo, giusto quello che la società ha insegnato loro, e nel «delirio salpa la nave dei pazzi».

Paggio in viaggio sollecita alla memoria la visione di una gioventù felice ed appagata nelle sue pulsioni interiori proiettate al bene, e certo il viaggio non può essere che augurale della buona novella risanatrice verso una riconciliazione umanistica per l’edificazione del III millennio. Avanti, sembra dire, venite con me ad altre sponde.

Lasciamoci guidare dal Paggio fanciullo amico dei fanciulli. Egli viene alla testa di un corteo già formato di giovani ansiosi di marciare con lui verso la luce limpida del mattino per le nuove tenzoni dello Spirito ed esorta come Gesù. Il Paggio con passo lieve li condurrà «in alto là dove cadono le cose / splendono eterne, particelle divine».

L’attesa del sacro si fa voce per un futuro meno aberrante e caduco dove le nuove generazioni più attente alle profonde intuizioni dell’essere sappiano fare tesoro delle meravigliose risorse dello Spirito, il solo che unisce le genti nella ricerca di un dominatore comune, Dio. Purtroppo i nostri paggi sono ammalati: la morte di Dio come l’assenza del Padre è stata fatale alla loro evoluzione psichica, ma per fortuna c’è un Paggio Padre che li segue dall’alto; silenzioso e accorto illumina dove vuole perché la ricerca sia fruttuosa. Ecco l’invocazione salvifica: «Si è coricato il sole e non si sveglia / Paggio, teniamoci per mano in questo buio». A testa alta!, esorta il poeta, la dignità ormai è: «senza cinte: i costumi rilassati»; non attendiamo oltre. Tuttavia, quando tutto sembrerà perduto ci sarà sempre la salvezza per chi: «ritorna dentro l’uomo / alla scoperta del mistero», e per i bimbi ci sarà per sempre un Paggio ad attenderli a braccia aperte, e saranno «quelli che cambieranno il mondo».

Il Paggio è una figura regale e la poesia di Elena Milesi gira attorno a problemi esistenziali drammatici con fare regale, li punzecchia anche con ironia come si addice dal’alto di una superiore forza, li stringe infine amabilmente nell’intento di entrare senza forzature nell’animo del lettore. Se sarà in grado di cogliere il messaggio, sfronderà da sé le scene delle parti per capirne l’essenzialità e farne tesoro. Un po’ per celia e un po’ per non morire, dunque, ma che l’abilità del poeta si avverte attenta e sagace al punto di servirsi di un’entità magica come il Paggio Spirito-Guida per aprirsi a sfere di conoscenza meditativa ed instaurare così una filosofia di vita nuova.

Il discorso raffinato fa risaltare la volgarità imperante ancora più disgustosa nel confronto di chi nella sua fragilità mostra una sapienza millenaria che ribadisce, in sostanza, che l’uomo può cambiare le carte della sua esistenza finché vuole, ma che sempre si troverà ad indagare nelle domande di sempre, dinanzi alle quali l’oracolo di Delfi dette una sola risposta, per prima cosa: Uomo, agnosce te ipsum.

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 60-61.




Rosa Barbieri, Il volto delle Madri, Foggia, Bastogi, 1992.

Un viaggio dell’anima

Non a caso la nuova silloge poetica di Rosa barbieri, dal titolo emblematico Il volto delle Madri è dedicato ad Andrea, il nipotino adolescente incompreso, a tutti i fanciulli che soffrono, poiché la genesi ispirativa ed esistenziale di questo canto risale a questa remota pena nel salvifico dono della poesia.. La raccolta si allinea su 70 composizioni liriche (suddivise in tre segmenti: Adolescenza, Il viaggio delle madri, Iside cantare), senza titolo, quasi stazioni di un “viaggio” dell’anima, tenero e struggente, nelle contrade della memoria, ognuna, autonoma e singolare ma, in realtà, legate tra loro da un filo di luce, in progressione dialettica, per delineare un diorama, estetico e ideologico, dell’eterno rapporto madre-figlio, donna-bambino, che si dilata, da una testimonianza vissuta e sofferta, agli orizzonti della società e del mondo.

Un atto d’amore, trafitto dall’infelicità e dal dolore, tramite un lirismo intenso e vibratile, si trasforma un atto d’accusa verso la disintegrazione di giovani vite avviate a un domani senza bussola e senza ideali. La poesia di Rosa Barbieri raffigura, così, un elemento di rottura, una scheggia di polemica pungente contro le aporìe della incivile civiltà contemporanea, balenante di violenza, di odio, di droga, di scientismo, di egoismi, di razzismo, che minacciano di travolgere le nuove generazioni. Il verso si fa ora grido di protesta, ora sussurro di preghiera, ora rabbiosa disperazione, ora mistico incantesimo,ora consolante messaggio. Le problematiche, a sfondo etico-pedagogico, sono come fiori di montagna sospesi su baratri di luce o madrepore sprofondate negli abissi memoriali o di frammenti di cristallo custoditi nel segreto dell’inconscio. La tessitura semantica degli stilemi, a volte si fa affannosa e franta, quasi imbrigliata nei viluppi criptici del pensiero che rischia di soffocare il sentimento e i sogni. Ma il linguaggio è, tuttavia, coerente nell’architettura dell’impeto che governa i moduli ispirativi, i ritmi musicali, mai banali, raramente patetici o retorici, spesso doviziosi di colpi d’ala e di dissolvenze pindariche, con opportuni richiami mitologici, riferimenti biblici o evangelici, frutto di una robusta cognizione umanistica e filosofica, di autori classici e moderni. L’Autrice, infatti, ha coltivato con lungo studio letture di filosofi e di poeti, e si è dedicata con passione alla pittura e alla musica. Il talento naturale di Rosa Barbieri, incanalato verso le arti, ha trovato, nel rapporto con le cose, con la vita, con la visione del mondo, il suo sbocco spirituale nella fede cristiana che l’ha sorretta nelle ore crudeli che hanno ferito il suo sensibile cuore di donna e di madre.. E potrebbe dire con Maritain: «…solo chi è accesa può accendere, solo chi è convinto, può convincere, solo chi è stato scosso può scuotere, solo chi è entusiasta può entusiasmare, solo chi ha pianto, può commuovere…». 

In questo libro, Barbieri ha toccato le cuspidi più alte del suo itinerario artistico, perché, con uno stile perentorio, icastico, articolato, elitario e, nello stesso tempo, umorale, cattivante, e umano, ha saputo trascendere i confini del suo dolore per parlare a tutti i figli di mamma, di oggi e di sempre, esaltando, con appassionata esaltazione polifonica, la miracolosa vigilia dei “bambini di luce” nell’amorosa visione delle piccole madonne terragne che recano, con dolore nel loro grembo i destini della storia. Non c’è tesoro più prezioso, non esiste bene più grande che il candore e l’innocenza di un fanciullo che dorme o che sogna; non c’è bellezza più bella di una madre che veglia la sua creatura che gioca; non c’è preghiera più alta di una nenia su una culla che dondola nell’ombra. Sono gocce d’azzurro le lagrime e le sofferenze di una donna che, con gioia senza confini, consegna alla luce del mondo il frutto del suo amore. Ma, spesso, l’umanità, la sorte, la vita lacera e distrugge questa dolce poesia del sangue e dell’anima e, allora, dinanzi a un “figlio crocifisso”, il volto delle madri “indossa il cappuccio dei monatti”. E il pianto di una madre umiliata e offesa, diventa il pianto del Cielo, il pianto della Madre celeste, il pianto degli angeli. Unico rifugio alle sovrumane tragedie dei tanti figli che cadono sotto la croce dell’infamia, la pietà di Cristo, la voce dell’Eternità, il sorriso delle Mnemosine che raccolga il grido delle donne smarrite nelle ceneri della solitudine e dell’abbandono, le lucciole della poesia, le perle di ogni nuova poesia, come allodole innocenti verso il sole, dischiudono, allora, paesaggi ancora inesplorati, dove, unica sorella del dolore, è la speranza.

Franco Calabrese

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 59-60.




Ciro Spataro, Garibaldi a Marineo (con il Diario di Antonino Salerno, 1848-1882), Palermo, ISSPE, 2011.

Garibaldi e…«il governo di spoliazione»

Gli studi di storia patria, che in questi anni vedono una fioritura un po’ dappertutto, hanno spesso una peculiarità: quella di dire in tutta buona fede e con coraggio ciò che altri studi storici di ben più ampio respiro non dicono e, anzi, fanno di tutto per affossare la verità. Basta dare uno sguardo ai libri di testo per rendersi conto che il capitolo dell’unità d’Italia, per esempio, è trattato con molta enfasi adulatoria dei vincitori, e Garibaldi è l’eroe venuto a dare libertà e giustizia, non il mezzo di cui i nuovi padroni si servirono per impinguare e ingrandire il Piemonte.

Garibaldi a Marineo (con il Diario di Antonino Salerno, 1848-1882), edito da ISSPE di Palermo nel 2011, di Ciro Spataro ha il merito di rievocare persone che ebbero un ruolo di primo piano nell’impresa, e fatti successivi allo sbarco e alla conquista di Garibaldi avvenuti a Marineo e dintorni, teatro di scontri e di battaglie decisivi per le sorti future. E, ancora, il libro riporta qualcosa in più: la delusione, che trapela forte dallo scritto di Antonino Salerno, di quanti avevano sperato di vivere in un futuro migliore. Sulle prime, il libro non lo dà a vedere, e l’impressione è quella di una semplice rievocazione.

A parte i liberali più noti (Giuseppe, Calderone, Rosolino Pilo, Giuseppe La Masa, G. Cesare Abba), sono tanti i popolani ricordati che agirono dietro la spinta di promesse mai mantenute, e tanti quelli che sperarono di veder realizzato il sogno secolare dei Siciliani di avere una Sicilia autonoma, così come ci furono anche quelli che si fecero garibaldini perché non poterono farne a meno, spinti dai proprietari terrieri per i quali valeva la norma del cambiare per non cambiare niente.

“Documenti e testimonianze” corredano la narrazione che tiene conto degli invasori e dei loro sostenitori; gli altri non c’è motivo per essere ricordati: sono nemici da combattere o, tutt’al più, briganti che vanno stanati e uccisi in modo esemplare. Ci volle un bel po’ per capire che si trattava di protesta sociale e non di brigantaggio. Ma ai Piemontesi non interessò la differenza, l’una valeva l’altro, e furono combattuti non con una legislazione adeguata ma con le armi, seminando sangue e terrore. Nel vuoto che si era creato nel passaggio dal Borbone al Savoia, ci furono i profittatori che agivano per tornaconto, come Santo Mele citato, che non vanno confusi con i protestatari si- lenziosi delle vessazioni, delle esosità delle tasse, delle famiglie penalizzate dalla coscrizione obbligatoria introdotta dal Savoia.

Altro aspetto molto indicativo, ri- portato nel libro di Ciro Spataro, è dato dal  prospetto dei risultati plebiscitari del 21 ottobre del 1860. I comuni del palermitano, ad eccezione di Palermo con 20 votanti No, risultarono favore- voli al 100% all’annessione.

Evidente, ed è risaputo, che si trattò di un plebiscito-falsa, voluto per giu- stificare l’invasione  del  Regno  delle Due Sicilie, da parte di Vittorio Ema- nuele II. Si votò senza alcuna garanzia per Francesco II e, tanto meno, per la libertà di voto. I votanti erano guardati a vista e tante furono le minacce e le bastonate per coloro che avrebbero vo- luto votare o votarono No. Moltissimi i non votanti le cui schede furono re- golarmente utilizzate per il Si. Eppure, di questo non se ne parla e si fa finta di niente; si preferisce la retorica, come se tutto fosse stato rose e fiori, voluto dal popolo osannante, quando invece esso aveva ben altro a cui pensare!

La realtà fu più palese qualche anno dopo, quando, spenti i fumi della con- quista, ci si rese conto che il nuovo governo «era andato avanti a colpi di decreti scontentando non solo gli auto- nomisti ma anche i veterani reduci del- le spedizioni del 1848 e del 1860». Qui Spataro cita Salvatore Costanza: «Alle promesse non erano seguiti i fatti: né terra per i contadini né benessere per i ceti  produttivi delle città; né libertà ed autonomia per la Sicilia come ave- va  reclamato  l’intellettualità  isolana, schierata quasi tutta sul terreno auto- nomistico. Anzi erano arrivati i funzionari piemontesi a uniformare le leggi, a imporre più tasse, a reclutare la leva».

Il “diario” di Antonino Salerno offre uno spaccato della realtà dei fatti vissuti da vicino, da liberale convinto e votato alla causa del re piemontese, seguace di Garibaldi che aveva interesse a coinvol- gere persone leali come lui per raggiun- gere il suo scopo senza riguardo per le sorti  delle  popolazioni.  Lo  denuncia Salerno  nel  suo scritto che riporta fe- delmente lo stato d’animo degli uomini del tempo nel passaggio da un governo ad un altro, dal sogno delle aspettazioni alla cruda realtà in cui essi nel giro di pochi anni vennero a trovarsi.

Antonino Salerno è il cronista della sua vicenda personale che, però, riflet- te  quella collettiva delle popolazioni del Sud. Egli si aspettava chissà che cosa e, invece, non fu integrato nel co- stituente esercito e non fu risarcito dei suoi beni andati a malora. Il rifiuto del

1862 a Garibaldi nasce da questo scon- tento  non  tanto  da  un  ripensamento della scelta a suo tempo fatta. Scrive:

«… io era alquanto scannaliato di avere fatto parte dell’armata e spedizione per la Calabria al ‘48 e al ‘60, che ben mi ho ravveduto essere ingannata la Sicilia; come tali, non intendo in nessun conto per fare parte a questa armata,sino an- che mo alzassero al grado di Generale, perché sembrami che l’inganno siegue più dippiù del passato».

C’è, nel “diario” dell’ex combattente la delusione che fu propria delle popo- lazioni che si trovarono soggiogate da un altro governo e disagiate ancora di più nella loro quotidianità. Ed esse che non avevano mai conosciuto l’emigra- zione («Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale») diedero inizio alla diaspora, prima nel Nord, poi nelle Americhe. Maltrattate e derubate, mentre i loro beni rubati e confiscati andavano ad impinguire le casse del nuovo Stato che li investiva ad uso e consumo dei nordici.

Con quale spudoratezza Bossi e la Lega dicono male del Sud, quando tuttora i Meridionali la ricchezza del Nord?

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 57-59.