Michele Falci, Luna sikana, Caltanissetta, Paruzzo Editore, 2010.

Un romanzo concentrato sulla dimensione della realtà

L’autore di Luna sikana, Michele Falci, insegnante di materie tecniche in una scuola media di Palermo, quando è andato in pensione, tornato nella sua città natale Caltanissetta, dove ha pubblicato il suo primo romanzo, nel 2001, dal titolo Pane e zolfo, sulle zolfare siciliane. Nel 2009 ristampa il libro, sempre con lo stesso editore Paruzzo, a cui aggiunge una seconda parte, in modo da rappresentare, complessivamente, sessant’anni di storia romanzata siciliana, che va dal 1879 al 1940. Ora esce questo ultimo libro, che ha, come sottotitolo, «Completa la trilogia di Pane e zolfo»

Si tratta però, di un’opera abbastanza diversa, in quanto il primo libro ha una sua struttura oggettiva e si avvale di approfondite ricerche e di fatti storici intrecciati a personaggi, quasi sicuramente esistiti, ma romanzati, nel secondo si ha una maggiore soggettività e una stesura sicuramente autobiografica, che arriva ai nostri giorni.

Luna sikana rappresenta la realtà di una Sicilia, impegnandosi con attenzione verso grandi temi etici e politici, segnati dall’approfondimento di questi temi, in sintonia con le grandi trasformazioni della società. È la storia di circa settant’anni di provincia italiana vista attraverso lo specchio di varie vicende intime e umane dell’autore, con un procedimento veristico tradizionale, in modo che il nesso connettivo non vada perduto, anzi ne esca sviluppato come il concorso di un coro. Vengono codificati nuclei contenutistici e canoni stilistici, senza che venga perduto di vista il necessario contatto con le consuetudinarie quotidianità. Gli eventi hanno un taglio naturalistico in una storia che bada ai sentimenti e li esprime con mezzi semplici, con discrezione e con misura, dove la comunicazione diventa esposizione asciutta ed efficace.

Nella prefazione Francesco Luly scrive: «La ricerca e la riflessione della “identità siciliana“ da recuperare come bagaglio al seguito, porta a soffermarsi e innestare un processo di frammentazione della memoria a guisa di un’analisi dicotomica e semantica nella scelta di coltivare e proteggere il valore della propria memoria storica… Si intravede nello scritto il progetto del recupero di un’operazione culturale-politica dell’intera dimensione storica impron tata di distacco fisico dal territorio nazionale, da una cultura “multietnica”, da un differente assetto sociale, di tradizioni popolari, di sentimenti ancorati all’ideologizzazione della condizione siciliana dipendente da una reale condizione della propria storia antica costruita con tessere di vita sofferta e sofferente, di un forte rigore morale…»

Protagonista del romanzo è l’io narrante, uomo impegnato sul piano politico, etico e sociale, mentre è ricorrente la metafora naturalistico-filologica, vale a dire un grumo esistenziale di materie che consistono nella sostanziale realtà dell’uomo. La scrittura è austera ed essenziale in una struttura narrativa di stampo tradizionale mentre lo stile risulta scorrevole e senza alcun tipo di narcisismo.

Emanuele Schembari

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 56-57.




Domenico Cara, Le diagonali della psiche, Borgomanero (No), 2010.

Parola fluida e dilatata

Scrittore prolifico e autore di numerosi libri, sia in versi che di critica, a partire dal 1959, il calabrese Domenico Cara, abitante da molti anni a Milano e fondatore delle Edizioni Laboratorio delle Arti, continua a pubblicare con cadenza quasi annuale e sempre ad alto livello. Il suo ultimo libro di versi, Le diagonali della psiche contiene testi dal 1995 al 2006 dove emerge un’inquieta ricerca linguistica di strutturale avanguardia, che Cara ha, da sempre tenuto presente. Emerge dal silenzio della pagina essenziale la valorizzazione della forma, in modo che si realizza un’attenta ricerca, fino alla pura sequenza nominale, sin dall’inizio, che sta oltre la parola stessa, rifrangendola in parecchie direzioni, aprendo una nube di significati.

Andrea Rompianesi, nella sua postfazione, scrive, tra l’altro: «Simboli, complicità, lacerazioni coniugano il dettato tematico di Cara che giunge a tale riva attraverso viandanze che hanno conosciuto febbri, rigenerazioni, utopie, macerie, un dilagare anche corale e drammatico nel quale un approccio ermeneutico non soccombe all’incedere forzato dei relitti… Ma la poesia è qui conoscenza, incisione grafica connessa a ritmica definizione, enjambement filosoficamente rivolto all’accidentato percorso dei sensi… Energico, a questo punto, l’impegno intellettuale di Domenico Cara, il suo condividere epidermico passioni, ricerche, quesiti di senso, oltre le contaminazioni dei dettati stilistici, tale da costruire lo stile stesso in un attento edificare demiurgico.»

L’uomo e lo spazio, sia fisico, che spirituale, sono i capisaldi intorno ai quali ruotano molteplici significati di molti testi. Tutto è realizzato da un impasto linguistico, che ha risorse di rilievo proprio dove l’espressione si rasserena e diventa approccio diretto alle cose. E si ha una poesia compiuta, perciò autonoma, che trova la forza nel movimento fluido e nella drammaticità delle sue immagini, in cui il linguaggio della natura si traduce in forma di suono, e di sogno, di luce e di ombra. L’autore conosce la coscienza delle parole e il fermento dei pensieri e sa leggere la realtà di ciò che vi sta sotto, ma non è disposto a barattare la forma. Viaggia alla ricerca della propria intrinseca realtà, in un ostinato disincanto, tormentato e sfuggente.

Emblematiche sono alcune sue composizioni più brevi, dove il messaggio è più chiaro e più significativo. «Prima di me l’idolo arcano / sfiorava epoche perdute / adesso legge incantamenti / s’annida nelle mie preghiere / e affonda in aloni e cerchi» (“L’idolo“ ). «La pietà non raccontava fasi / di lamentazione ma si mostrava / attiva con il silenzio di soprassalto» (“ La pietà“). «Manipola la storia una sua rima / l’ibrido fatto o un desiderio / nel luogo di stupori / e il vento porta ricordi / odori di vendette cieche» (“Il clima”)

L’atto diretto dello scrivere, in Cara, si stagna come momento di un’istituzione espressiva che fa della parola qualcosa di fluido e si dilata sotto l’influenza di un io che vuole verificare la realtà per una sorta d’istinto viscerale. Vengono inventate ossimoriche strutture che determinano spazio alla  riproduzione reale di eventi e di emozioni devastanti, per ridare valore alla normalità, sublimando il reale.. Emerge dalla pagina la valorizzazione della forma, in modo che si realizza un’attenta ricerca del sostantivo, fino alla pura sequenza nominale, che sta oltre la parola stessa, rifrangendola in parecchie direzioni, aprendo una nube di significati. Gli impulsi più profondi attivano e animano il flusso incessante della comunicazione e, alla fine, si scoprono sollecitati da motivazioni verticali. Il segno tracciato dall’uomo e il significato che riassume è uno dei tempi di questa complessa ma interessantissima raccolta di versi, nella quale la parola, come mezzo di comunicazione, perseguita il poeta, che si sente impotente di fronte alla vita, data la molteplicità delle valenze che assume.

Emanuele Schembari 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg.55-56.




Maria Attanasio, Amnesia del movimento delle nuvole, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2009.

Sensazione delle cose

Maria Attanasio, scrittrice calatina e intellettuale raffinata e profonda, alterna la pubblicazione di opere in versi, di grande rarefazione, a romanzi a carattere storico e sociale, con Sellerio, come Correva l‘anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, Di Concetta e le sue donne, Il falsario di Caltagirone .In questo suo ultimo libro di versi, Amnesia del movimento delle nuvole, l’autrice di Caltagirone riesce a fondere le sue atmosfere, di sottile densità a dimensioni più realistiche. Sta qui, essenzialmente, la novità di quest’opera della Attanasio, nella metafora delle contraddizioni delle profondità dell’animo umano, dove coesistono varie spinte contrapposte.

Giancarlo Maiorino, nella sua prefazione, intitolata “Ansimare quotidiano e fantasie di mutamento“ scrive: «L’originalità e l’energia latente di questo bel libro sembrano inoltre matericamente risedere in una condensazione di elementi eterogenei sinora ritenuti opposti o comunque non passibili di compenetrazione reciproca. Sono ravvisabili difatti mosse di spostamento drasticamente figurate, mescolanti ‘sofferenza intelligente‘ e piacere delle risorse linguistiche, ansimare quotidiano e fantasie di mutamento, abbandono alla bellezza della natura e misurazioni psicologicamente acuite di corpi, sentimenti, gesti.»

Ci sono due filoni, infatti, nella stessa opera dell’Attanasio, una lirica più raffinata si alterna a versi duri e realistici. Per esempio a «Lampo di melograno / fiamma di malvasia / in una stanza globalizzata / rosso di poesia » (“Lampo“) si alternano composizioni come a «Repente, ahi dolore alla mente, / come se niente fosse la notte / senza salvacondotti allupata / la mano trema la casa vacilla» (“Repente“) e come «Roma sottonotte di ultras-clandestini / cosparsi di benzina-combusti resti / tra i cartoni del sottopassaggio / quietamente / sbucciando piselli in cucina» (“Notizia di cronaca”).

Si tratta di una poesia alla quale viene dato lo spessore della responsabilità di una testimonianza che cerca di rappresentare la sensazione delle cose e dei fatti. I versi sono attraversati da una sorta di fluido che cristallizza ricordi elencati a flash e riesce a liquefare tutto il concreto della vita quotidiana ricordata. La Attanasio interpreta una riflessione indagativa a carattere in parte onirico, in parte favolistico e, per il resto, realistico. Usa un linguaggio analogico e metaforizzato, con precisi riferimenti autobiografici, affondati in un’eco di occasioni disperse. C’è uno spessore personalissimo nel suo dettato, che si dipana in filamenti analitici, rilevatori di disagi esistenziali e di una lievitazione del vissuto. È un mondo dalle scabre modulazioni, con illuminazioni sui valori e sugli effetti. E, soprattutto, c’è la ricerca delle mutazioni dell’essere, nell’ambito del sentimento del tempo.

Emanuele Schembari

Domenico Cara, Le diagonali della psiche, Borgomanero (No), 2010.

 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 54-55.




Grazia Guttilla, Nulla accade per caso, Palermo, Ila Palma, 2010.

Il fascino dell’amore provvisorio

Nulla accade per caso è un romanzo di Grazia Guttilla che la fertile editrice Ila palma di Palermo ha da poco mandato in libreria.

L’opera più che di storia sa di diario avventuroso ed intrigante di giornate vissute in un villaggio vacanze in Messico, scelto apposta per dimenticare i fallimenti affettivi, affogando nelle avventure e nella trasgressione. Sfilano perciò pagine tra balli e sballi, aperitivi e ubriacature, escursioni e lunghe nuotate, appuntamenti per cicaleggio da spiaggia e, ovviamente, concessioni al sesso provvisorio che l’attrattiva del luogo e la predisposizione psicologica della donna delusa e inquieta consentono. Difatti la protagonista è una Lisa, donna più che trentenne, fisicamente in forma e assai piacente, con appresso una figlia già in grado di prestarle all’occasione motorino o minigonna, con alle spalle un matrimonio fallito e la persistente ansia di comunicazione affettiva, per cui incorrerà in ulteriori delusioni con uomini affascinanti ma incapaci d’impegno durevole e di assunzioni di responsabilità. E nel molto animato villaggio non le mancheranno le occasioni di evadere, ora con uno spregiudicato Javier, ora con un misterioso Diego per il quale prenderà una cotta tormentosa.

Ma quello che fa di questa Lisa un personaggio tipico della femminilità come valore passionale è il suo continuo sentirsi legata al richiamo di un precedente amore, quello narrato nella prima parte del libro, un’esperienza che appare appagante in tutti i sensi, eccetto quello di voler prevedere qualcosa di duraturo. Nonostante ciò, quest’uomo, anzi il solo suo nome, affiorerà di continuo, quasi come fantasma nel corso delle vicende che animano i giorni di relax. Anzi alla fine, egli, Luca per l’esattezza, sembrerà addirittura rifarsi vivo per Lisa, come per agnizione teatrale, attraverso la figura del fratello, il Diego di cui sopra.

Forse questa conclusione disturba un po’ il clima di greve follia vacan  ziera al sole invernale dei Caraibi, nel  quale le pagine hanno coinvolto; o forse inficia la naturale leggerezza degli incontri e degli amplessi che nel libro a volte ben sanno di quella delicatezza erotica, umanamente plausibile, che però nulla ha a che fare con l’auspicata durevole felicità, raro sogno dei soliti amanti di questo mondo.

Elio Giunta

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 53-54.




Pino Aprile, Terroni (Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”), Milano, Ed. Piemme, 2010.

Apriamo gli archivi (e gli occhi), leggiamo la storia!

Di solito, dopo cinquant’anni, stemperati gli ardori e le passioni degli uomini che l’hanno condizionata, la storia si delinea e svela nella sua luce migliore. Ma non è così per quella unitaria del nostro Paese o, perlomeno, per la parte dello Stivale che fu conquistata per rendere grande il piccolo Piemonte. Questo pezzo di storia, a centocinquant’anni dall’unità d’Italia, non si conosce affatto e non si vuole che si conosca; meglio se rimane ancora richiusa a chiave negli archivi o distrutta, ad onore e gloria della retorica ufficiale che continua ad osannare ai “fratelli” che vennero a liberarci dalla “tirannia e dall’arretratezza”.

Sempre più in molti ci chiediamo: perché quest’accanimento contro la verità storica che non può essere taciuta? Forse si teme qualcosa? Ormai, l’Italia è stata fatta, e nel bene e nel male ce la teniamo. Nessuno la pensa diversamente, ma conoscere la storia, conservare la memoria di quello che è stato, è un diritto di tutti che avvicina a sé e all’altro. Venendo a mancare questa conoscenza, non ci può essere dialogo e si alimenta di più il razzismo. La riprova è in quello spavaldamente manifesto dalla Lega e dal leghismo di questi ultimi tempi. Qualcuno, nei primi anni dell’avvenuta unità disse, a ragione, che s’era fatta l’Italia, ma non gl’Italiani, e lo diceva con cognizioni di causa; a tuttora, non è cambiato niente. Si è creato un muro divisorio Nord/Sud discriminante, favorevole per il Nord e penalizzante per il Sud, con la complicità di tanti che, pur potendo, niente hanno fatto per risollevare le sorti del Sud, maltrattato sempre persino dai suoi uomini, tutti presi da pseudopolitica e da interessi di ogni genere. Tutto questo discorso, ben modulato e argomentato con solide pezze d’appoggio, è ripreso da Pino Aprile nel suo nuovo libro Terroni (Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”), pubblicato dalla Piemme ed., 2010. È un libro da leggere, a prescindere dalla geografia di appartenenza, perché è utile anche ai nordici conoscere la controstoria, se non altro, per ridimensionare il loro atteggiamento nei confronti della gente del Sud, e interessa quest’ultima per tenere alta la memoria e riconsiderarsi, riprendendosi l’orgoglio che era dei padri.

Il libro si compone di nove capitoli, e si legge come un romanzo, una pagina tira l’altra, ma romanzo non è, tanto meno è storia romanzata; bensì vera che non ha spazio (così vogliono!) nei libri di scuola e che è stata scritta da uomini che meridionali non erano prima dell’unità o, meglio, prima dell’occupazione piemontese del Regno delle Due Sicilie. C’è una frase che colpisce, leggendo il primo capitolo “Diventare meridionali”, a proposito delle malefatte, le angherie e le uccisioni perpetrate dai soldati piemontesi nei vari paesi messi a guerra e a fuoco: «Criminale non è quel che fai, ma per chi lo fai», come a dire che, se agisci per conto dello Stato, tutto è concesso; e, a colpi di crimini e di furti, si fece l’Italia, contro il diritto internazionale e contro l’umanità, così fu per la conquista dell’America, da parte di Hernán Cortés, così in Iraq e negli altri Paesi, dove Americani e Alleati fanno guerre in nome della democrazia. L’altro che difende la sua terra e la famiglia è un criminale e un terrorista, l’aggressore è il liberatore a cui tutto è concesso, anche lo stupro e l’uccisione di innocenti con la colpa di aver detto – ai soldati che chiedevano – Francesco, anziché Vittorio.

Eppure queste cose non si sanno, la storia ufficiale scrive ben altro; parla di briganti e dello Stato che interviene per imporre la legge dei vincitori, marcando di più la separazione dai vinti. A proposito del patriota borbonico Romano, Pino Aprile scrive:

«E mio padre ne doveva aver udito parlare in quei termini: da messia, non da delinquente. A lui, persone vicine ai fatti narrarono il coraggio di un uomo; a me, i libri di storia, il disonore di troppi ribaldi e del popolo che li espresse. Dall’orgoglio alla vergogna. Sono sempre più numerosi, al Sud, quelli che ripercorrono questo rio all’incontrario, per ritrovare, con la verità sull’origine della loro storia unitaria, la ragione di essere fieri. E uscire dallo stato di minorità.»

È, questo della “minorità”, un altro punto fermo del libro; è ripreso qua e là, e l’autore gli dedica anche un capitolo. Il Sud è stato – a cominciare dallo sbarco di Garibaldi a Marsala – oggetto di metodica spoliazione che lo rese nel giro di pochi anni povero e in condizioni pietose, sia dal punto di vista materiale che morale (basta pensare alla leva obbligatoria che tanti rifiutarono, dandosi alla macchia, e quella che fu una protesta di popolo fu chiamato brigantaggio), con la conseguente umiliazione del sé che, a lungo andare, condizionò di molto le popolazioni, facendole passare per arretrate e incuranti della legalità. Ma – ci chiediamo -, quale legalità poteva vigere in uno stato di continuo assedio in cui si trovava il Sud, vilipeso e martoriato dall’arroganza piemontese? La verità è che con quell’arroganza il Piemonte s’impadronì della ricchezza che aveva fatto potente il Regno borbonico, mentre l’umiliazione inferta alle popolazioni le condizionò tanto da subirne tuttora le conseguenze e, intanto, in quegli anni si sperimentavano ancora di più la mala politica, la delinquenza associata e la corruzione, che cominciò a interessare anche le istituzioni.

La frase che rimane impressa ed è stata un po’ prima riportata («Criminale non è quel che fai, ma per chi lo fai»), al termine della lettura del libro, appare ancora più chiara perché nell’immaginario comune razza di criminali sono i Meridionali che, invece, hanno subito e continuano a farlo, per questi centocinquant’anni dall’unità, il male dei nordici; non quest’ultimi, perché vincitori e fruitori delle ricchezze saccheggiate investite nella loro terra, rendendola ricca e privilegiata da avere il primato delle industrie e degli inve stimenti, a scapito delle altre regioni. 

Il libro – abbiamo scritto – è fatto con amore, è ben documentato, e merita di essere letto perché è un gran contenitore di notizie che, altrimenti, non potremmo conoscere, sia per i motivi sopra esposti, sia perché l’informazione ufficiale non è disposta a diffondere e rivelare notizie di questo genere. Piuttosto ha interesse a divulgare il negativo, e ad essere colpiti di più sono i Meridionali per mettere in risalto la loro “minorità”, rispetto ai Settentrionali che godono anche di questi favoritismi. Persino il cinema segue questa tendenza, diffondendo un’immagine del Sud e della Sicilia stereotipata e falsa, nascondendo le magagne del Nord, dove s’annida la vera mafia dei capitali e degli intrighi.

L’auspicio, che poi è quello con cui Pino Aprile conclude la sua analisi, è ritrovare il passato e l’identità che ci è stata tolta quasi del tutto, e nella consapevolezza cominciare a riprenderci il maltolto e governarci nella vera autonomia (non quella della Regione Sicilia, ancora rimasta sulla carta statutaria). C’è l’intraprendenza, c’è l’intelligenza, ci sono anche le risorse per potere emergere! Sono esse i lieviti forti che da soli possono e devono risollevare il Sud.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 51-53.




Luigi Accattoli, Quando il papa chiede perdono, Milano, Mondadori, “collana Leonardo”, 1997.

Woitila chiede perdono

Stupisce la scarsissima risonanza che ha avuto sino ad oggi il libro di Luigi Accattoli Quando il Papa chiede perdono, Ed. Leonardo, cui si è ispirato anche il recentissimo incontro alla Stampa Estera a Roma al quale ho partecipato e dove non c’erano che pochissimi ascoltatori sia cattolici che laici nonostante la presenza del famoso teologo vaticano svizzero G. Cottier e di uno storico universitario, F. Cardini.

Eppure se l’intelligenza è flessibilità, e questo vale per tutti gli schieramenti, il libro-antologia di testimonianze degli interventi di Wojtila degli ultimi decenni è uno dei libri più sconvolgenti e sorprendenti ch’io abbia letto. Sono testimonianze che invitano a rivedere radicalmente se non a ribaltare non solo il discorso sulla storia della Chiesa ma della Storia stessa. Sopratutto dell’Occidente, del suo comportamento di fronte alle diatribe con l’Oriente, con le chiese cristiane ma non cattoliche, con l‘Islam, gli Ebrei, il razzismo, gli indios e così via.

Chiedere perdono? Che cosa significa e che importanza ha? Intanto è più difficile perdonare che chiedere perdono, questo lo riconoscono gli stessi presentatori. Ma perdono a chi ? E a quali fini? Più che di perdono si parla all’inizio di “confessione di peccato”, giustamente perché essa è cardine delle chiese della Riforma. Il perdonare comporta ovviamente prima di tutto l’autocritica. E bisogna ammettere, sopratutto per chi non ha seguito le interne vicende ecclesiastiche che Wojtila ha cominciato proprio da qui. Con il rischio di rimanere isolato di fronte alle obiezioni per non dire all’ostilità di molti cardinali.

Ma Wojtila, anche chi è anticlericale deve riconoscerlo, è uomo di coraggio. Le sue battaglie contro il comunismo e contro l’invadente consumismo che tenta di sostituirvisi sono note. Meno note le sue polemiche all’interno della Chiesa. È i1 primo papa non italiano dell’epoca moderna e questo può essere un vantaggio per la sua apertura culturale. Leggendo per esempio le sue proposte contenute nel Pro memoria di Giovanni Paolo II al V Concistoro straordinario del 1994, mai pubblicate ufficialmente dal Vaticano ma riaffermate dallo stesso Wojtila più volte, un testo di straordinario interesse, anche le ardimentose polemiche di Hans Küng trovano una sia pur debole risposta.C’é la speranza che entro il Giubileo del 2000 molte colpe della Chiesa cattolica vengano quanto meno ammesse.

Intanto verso i protestanti. I riconoscimenti verso Lutero e la giusta esigenza da lui sostenuta per una immediata riforma della Chiesa in relazione alle Scritture e non ai problemi mondani sono molteplici. Wojtila va a Magonza nel 1980 quasi pellegrino e poi alla chiesa luterana di Roma come Lutero andò pellegrino a Roma nel 1510-11. Lutero, altro uomo forte, pur scomunicato, ma la scomunica finisce con la morte, è oggi sempre un interlocutore valido, importante per Wojtila. La separazione tra cattolici e protestanti nel 1997 in Europa, a tre anni dal Duemila è una delle realtà più assurde e dolorose. E Wojtila questo contrasto non lo vuole perpetuare. Le guerre di religione devono finire se non vogliono essere sopravanzate, ridicolizzate dalla scienza e da una laicizzazione ormai mondiale. È la Chiesa che deve cambiare. E poi le guerre di religione favoriscono l’ateismo? È un problema.

Necessaria è intanto una ‘purificazione della memoria’. Verso i protestanti ma anche verso gli Ebrei e i Musulmanì. Verso 1’Islam, nonostante gli appelli vaticani, non c’è stata adeguata risposta. Inutile l’insistenza che cristiani e musulmani sono ‘fratelli in Dio’ come li ha chiamati in Africa Wojtila riferendosi ad Abramo. Inutili le sue dichiarazioni di essere contro l’integralismo cattolico (“noi seguiamo il principio evangelico” (date a ognuno, a Cesare e a Dio quel che è loro). E allora Buonaiuti? E Maritain? Viene perfino il sospetto tra i laici che dietro tanta frenesia di viaggi e tanta voglia di perdono ci sia la speranza di unire tutti sotto la tenda del cattolicesimo, il che non significa più vero ecumenismo ma di nuovo una sorta di colonialismo cattolico.

E verso gli Ebrei. C’è una richiesta di perdono ma il perdono forse imminente dopo il riconoscimento di Israele e la visita alla sinagoga di Roma non è ancora avvenuto esplicitamente. Certo nel libro così accurato non si fa per esempio alcun motto sul silenzio dì Pio XII sull’Olocausto di cui egli pur conosceva l’orribile sviluppo. Ma un Papa non critica un altro Papa. Già è molto che almeno Wojtila dichiara che per lui gli uomini bianchi o neri sono eguali. II razzismo dovrebbe cessare anche se per ora questa è un’illusione.

Certo è che i cristiani, del XII secolo erano altra cosa dei cristiani di oggi anche perché la società è diversa, distratta e laicizzata. Per cui la fede in Dio è una cosa, e la Chiesa che molto lentamente può mutare nel tempo è un’altra cosa. Con questo Wojtila cerca di riportare la sua Chiesa al centro della problematica mondiale. Ognuno fa il suo gioco e Wojtila che vuol pareggiare i conti con l’umanità lo fa molto bene, quasi una sfida. Si è perfino detto che se Wojtila non avesse viaggiato tanto non avrebbe chiesto il perdono!

Un convegno minuscolo di fronte a problemi enormi. Con affermazioni perfino strabilianti. Come quelle di F. Cardini secondo cui, sono parole sue, «Cristo non sarebbe che uno dei tanti cabbalisti che circolavano all‘epoca» e che «la storia della Chiesa comincia da Costantino». E Dante? per non parlare di mille altri. ln effetti questo incontro con giornalisti e intellettuali é stato indetto più per ascoltare ipotesi e correzioni pregevoli all’interno della storia della Chiesa dopo il Vaticano II e della personalità imponente di papa Wojtila che non per metterle in rapporto con il Vangelo o più semplicemente con Gesù.

Eppure la figura di Gesù, esaltata o  criticata, è di moda, al centro di decine di libri in Francia e in America. Nonostante la presenza del teologo svizzero Cottier e l’invito del papa a fare un esame di coscienza (dove siamo? Dove Cristo ci ha portato? Dove noi abbiamo deviato dal Vangelo?) nel convegno il nome di Gesù non è stato nemmeno pronunciato. Ma la storia della Chiesa italiana, nella critica feroce o nell’apologetica (alle Inquisizioni nel libro sono riservate solo tre pagine) è la nostra Storia . Mai una parola da me richiesta su Savonarola, di cui l’anno prossimo cade il centenario della morte sul rogo o su Giordano Bruno.

Un silenzio terribile, che chiederebbe anch’esso il perdono.

A cura di Ugo Carruba
Nello Saito

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 49-51.




THUCYDIDES AND LOUGH OWEL, TUCIDIDE E LOUGH OWEL

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 48.

 

 




Cantu di carritteri

Quant’avi chi ‘un mi fazzu na fumata? 
quinnici jorna chi ‘un viu la zita! 
Mi sentu cu la testa strampalata, 
‘un si po’ fari cchiù sempri sta vita! 


Supra u carrettu ci staiu simanati
pi carricari mennuli, ogghiu e alivi, 
e li nuttati mei su attarantati
quannu partu di Chiusa mmenzu a nivi! 


Lu mulu già canusci tutti i strati, 
sapi a memoria tutti i me’ suspiri; 
io rormu supra i sacchi profumati, 
ma penzu a idda e mi sentu muriri! 


Appena agghicu ‘n casa m’a’ ‘mpupari, 
m’a’ mettiri profumu a mai finiri, 
ci curru ‘n casa e mi l’aju a vasari
stringennumilla cu tanti suspiri.

Tore Sergio

CANTO DI CARRETTIERE

Da molto ormai che non fumo,
e da quindici giorni non vedo l’amata!
Come se avessi la testa strampalata,
si può fare sempre questa vita?

Sul carretto passo settimane,
carico mandorle oli e ulive,
e le notti mi fanno accaponare,
se parto da Chiusa nella neve!

Il mulo conosce già le strade,
e conosce bene tutti i miei sospiri;
dormo su sacchi profumati,
ma penso a lei e mi sento morire!

A casa andrò a farmi bello,
metterò profumo a non finire,
correrò da lei a baciarla,
e la stringerò con tutti i miei sospiri.

trad. di Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 47.




Cosaruci

È veramenti certu
e unn’è poi tantu lariu
chi addivintannu vecchiu 
unu è cchiù manciatariu. 
Viscotta, viscutteddi, 
cornetti e cosaruci, 
dolcini cu li mennuli, 
gelati e mustazzoli, 
“genovesi” du Munti, 
fissa cu è chi ‘un ni voli. 
Me nanna mi ricia: 
“Fannu cariari i renti”. 
Sarà na cosa vera
Ma ‘un mi nn’importa nenti, 
tantu aiu la rintera.

Tore Sergio

DOLCI

Davvero è certo
e non è un male
se, da vecchi,
si è più mangioni.
Biscotti, biscottini
cornetti e dolci,
dolcini alla mandorla,
gelati e mostaccioli, 
“genovesi” di Mont’Erice,
da stupidi non volerne!
La nonna mi diceva:
«Fanno cariare i denti.»
Sarà una cosa vera,
ma non m’importa niente,
pertanto ho la dentiera.

trad. di Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 47.




Nulla mi resta

Non ho più una parola
che svegli questo cuore.

Nulla mi resta.
Aspetto nuovo un sole.

Vincenzo Gentile

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 45.