Lasciatemi Cantare

Lasciatemi cantare la canzone
del desiderio
sul greto verdecupo
del rio
sfogliando margherite
bianche e gialle
nell’estasi di un’occàso di agosto
e le spalle
posare alla felicità.

Vincenzo Gentile

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag.45.




Eredità

Il sole tramonta
tra fragori
gli animali cercano le tane
cade a pezzi la tua nudità
Adamo, 
fugge Eva col suo dolore
di donna.
Noi solo questo ereditammo:
la vergogna
che cresce ad ogni istante.

Erminio Gandolfo

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 45.




L’aratro

L’aratro a chiodo
è appeso nel mio cuore.
Non trema più
sotto il robusto carro
il lume,
sulle trazzere solitarie
delle nostre contrade.
O dolce canto
nenia
lamento d’amore
sospirato
sul metallico fruscìo
del pizzicato
scacciator di pensieri.
E il mulo
torna all’usato solco
senza guida,
schiavo
del lavoro
e del tempo.

Gaetano Trainito

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 45.




A noi Indifferenti

Sfrecciano gli aerei
della morte
per i limpidi cieli
della mia casa a Marsala.
I colombi spaventati
volano al capanno e
tubano a coro,
deprecando.
I cani sdraiati sotto l’ulivo
storditi
sembrano chiedersi cos’è,
e guardano il cielo
e tendono le orecchie,
inorriditi.
Enigma è l’uomo
che cerca la pace facendo guerra,
che è sempre preso da oscure manìe
e sparge sangue
e semina odio
che si riproduce nella terra
che subisce, ammutolita,
le tante stragi
le grida dei bambini
il dolore represso dei vecchi
il pianto straziante delle madri,
le morti innocenti,
e le case ridotte a pietraie
e le bombe che sono intelligenti!
E noi indifferenti, stiamo a guardare!
Siamo il bersaglio di notizie falsate,
come oppio per non far pensare,
per dire solo ciò che altri vuole, e
giust’apposta manipolate
da gente che ha deciso di lucrare
sulle grida di chi ha bisogno,
sulle vite degli altri che non contano.
E noi indifferenti, stiamo a guardare,
sperando che qualcosa almeno avvenga,
magari altri tempi vividi e giulivi!
Gemono intanto al sibilar del vento
i giovani pioppi della via e
i rami abusati degli ulivi.

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 44.




CI DOMANDANO SPESSO

Ci domandano spesso
cosa vogliamo per le nostre valli.

Non vogliamo
i fiumi si disperdano nel mare,
le montagne aride si erodano
allagandoci ad ogni piovasco.
Non vogliamo
case insicure, senza respiro,
scuole-galere in mura decrepite,
fontane con quattro pisciatelle,
qualche pianta in museo, nel giardino pubblico
per la domenica. 

Non vogliamo
stare inerti, o non valorizzati,
o andare a venderci spersi altrove
(senza conprendere a chi ci si vende
e a quale prezzo),
sprecare vite in traffici fessi
seppure con macchine elettroniche,
farci fessi sorbendo reclame.

Vogliamo
valorizzando il nostro impegno
vallate perennemente verdi,
foreste ombrose crescere dai monti
sui vasti laghi dalle nuove dighe
mentre il mare rimane ancora mare
e sulle spiagge luccica la sabbia.
Case nel verde
respirino cielo pulito.
Per New Jork e Milano è troppo tardi.
Vogliamo una nuova città
dove la gente impari a farsi i piani –
come persuade a ciascuno:
dove si possa parlare e intenderci
sviluppando la nostra cultura
con la gente più saggia
e coraggiosa al mondo, vivi e morti.
Acqua democratica vogliamo
– e come l’acqua ogni fonte di vita –
non di mafia diretta dalla gente
organizzata in nuove iniziative,
consorzi non fascisti
cooperative e sindacati aperti:
affrontando conflitti necessari
come gente cosciente, non da fiere.
Vogliamo materiale da museo
i mafiosi e i residui parassiti,
memorie antiche di un tempo incredi – bile. 

Danilo Dolci

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 42.

 




Un povero siciliano

Nato da genitori siciliani Mario non conosceva la Sicilia. Il viaggio verso l’isola pertanto gli aveva messo in corpo una trepidazione mista di paura e di speranza. A pari di un animale smarrito, che cerchi di riconoscere il suo branco dal colore della pelle, Mario era dominata dal terrore di non riconoscersi nei suoi conterranei. D’altra parte lo incitava la speranza: quasi che risalendo il corso di fiumi a lui sconosciuti potesse risalire parimenti le vene della sua anima; scoprendo l’isola, scoprire se stesso. Giaccché egli si illudeva di poter ora trovare la ragione dei suoi difetti, delle sue inibizioni, che il tempo della prigionia in Germania aveva fatto affiorare lentamente come fiori acquatici, fissandone l’origine nel colore della sua terra, del mare; nella luce del cielo, nel suono delle voci dei siciliani. La vita avrebbe potuto proseguire intera, pensava, più libera. Forse sarebbe cessata quella sorta di umana solitudine in cui a Mario sembrava di procedere nel mondo.

Man mano che il treno avanzava nell’interno egli guardava tuttavia diffidente il profilarsi delle colline. Le colline erano a forma di dune, e i campi di grano pieni di sole; coltivati sino allaa sommità rotonda, con per sfondo il cielo. L’azzurro di questo si trovava unito dappertutto con il giallo biondo del grano. E il poco verde, che tentava in ordinati filari di arrampicarsi sui costoni, come non ci fosse altra terra, era sommerso da quei campi di messi. Il cielo invece, mancando gli alberi alti quali i cipressi e gli olmi che lo innalzassero e lo animassero, era lì, avvicinato, reso piatto dalla terra liscia e umile, custodito da esso come in una cappa amorosa. A volte la terra aveva una cre pa; e allora affiorava prepotente, scagliosa, al pari delle case che si incastravano tra il mare invadente delle spighe.

Mario scese in una cittadina della costa. Si sentiva la presenza della povertà ovunque. Una povertà tradizionale, disperata e orgogliosa. Pure, osservando meglio, poreva di poter dire che non è vero che i siciliani fossero poveri; o almeno dei poveri autentici. Mario guardava qua e là, stupito. Quasi avrebbe detto paradossalmente che essi facevano lusso della propria povertà.

Ne ostentavano gli oggetti e i simboli. Le camere da letto al primo piano erano aperte come vetrine sulla strada, e sempre qualche oggetto, una sedia, una macchina da cucire, sorpassando il limite, rimaneva lì fermo, di modo che la strada assumeva un carattere privato: diventava il corridoio di un appartamento qualunque solo chiuso, in alto, da una striscia di cielo di cui dispiaceva a Mario violare camminando l’intimità.

Ma poi in tutto questo sciorinamento di vestiti laceri, di studiata sporcizia, di studiata trasandatezza, frammisto all’inaspettato apparire di cose di valore quali mobili e servizi di bicchieri finissimi, affiorava un sospetto: che ci fosse in Sicilia una ricchezza nascosta, trafugata, la cui presenza permettesse ai proprietari quella ingiustificata esibizione di povertà. Che fosse sotto terra; che fosse nel mare. E una volta sulla scia di questo sospetto, a lui pareva già di vedere i siciliani tradirsi in un gesto, ammiccare al cielo, lasciarsi trasportare di colpo e senza ragione, al pari di ricchi camuffati pei quali l’abbondanza è abitudine, da una contentezza esagerata, da una generosità eccessiva. Quasi che le case basse e gessose che il mare nel ritirarsi aveva lasciato sulla terra come sassi e conghiglie, non fossero le loro, ma piuttosto le barche e le vele; e al di sotto di questa mobile città, la vera, ci fossero altre miniere più redditizie e favolose delle grigie zolfatare. 

Una volta del resto aveva letto: 

«Quella maschera di indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano: pareva che istintivamente si trincerasse nella sua ignoranza come fosse la forza della sua povertà».

Mario vedeva ora che proprio in questa coscienza delle proprie inibizioni, della propria povertà era l’intransigenza e il coraggio dei siciliani. Conoscere i propri difetti e sbandierarli, invece che nasconderli e cercare di superarli. I loro difetti divenivano la loro forza, in una contrapposizione continua, che confinava con una dialettica dell’assurdo. In realtà, se per altri era ingiusto generalizzare nella inutile ricerca di un tipo, quei contadini e pescatori, artigiani e commercianti di nulla, avevano in comune non solo nasi e orecchi neri, e coloriti bruni e pallidi; ma anche eguale modo di gestire, di vivere, di pensare. L’educazione, cioè tutto ciò che di tradizionale e di passato veniva loro insegnato, gli pareva fosse essa a guidare i loro atti e pensieri quotidiani in un rigorosa catechismo. La stessa lingua, più che un mezzo di espressione, gli sembrava fosse un costume, una regola di vita; un severo e fantasioso galateo dell’anima.

Davanti alle case di gesso i mantelli neri delle donne annunciavano a tutti la povertà. Ma in Mario ora cresceva il disappunto, direi quasi il rancore, di fronte a questa antica e enimmatica fierezza.

Nello Saito

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 41-42.




Un vuoto memoriale

Può accadere che per un vuoto memoriale ci si ritrovi, improvvisamente, per una via cittadina simile ad una fitta boscaglia. Il panico che assale si abbarbica come rampicante ubertoso ed inesorabile che ti farà preda tra le sue spire.

Con il cuore in tumulto parrà d’essere piombato, per pura fatalità, tra un gruppo di acrobati in esercizio che, inconsapevoli, ti sfiorano al limite del rischio. Resti, perciò, incenerito dalla tua stessa rivelazione e vieni trafitto dai più contrastanti pensieri che annebbiano la vista e la mente.

È lo spasimo del disperso che, colto dallo spavento, sentirà sciogliersi muscoli e cervello senza alcun dominio. Cercherai un sostegno fisico per reggerti perché il suolo che ti sostiene sembrerà liquefarsi attraendoti in una voragine immaginifica dove ti sentirai un cespo isolato, e il tuo capo si volgerà a scatti in ogni direzione come a voler suggere dalla gente che ti sfiora un invito a trarti da quel labirinto senza tempo in cui sei stato depositato.

L’aria di un mesto novembre ti addosserà tutti i brividi del suo cielo corrusco ed indifferente; eppure, in quella solitudine estrema può anche accadere di notare nimbi di fiori dalla cromia evanescente far bella mostra nella vetrina del negozio davanti al quale ti trovi, inconsapevole, e per la prima volta quella visione che, di solito, ti beneficia, non ti susciterà vibrazioni dell’anima.

Il tuo corpo sarà teso allo spasimo e in quegli istanti di panico invocherai mentalmente, come naufrago alla deriva, gli spazi confortevoli della tua dimora, e un volto di donna dal sorriso rassicurante, particolarmente caro a cui implorare di trarti da quel limbo dove sei stato precipitato senza colpa. Allora ti sentirai un Ulisse anelante Itaca, sicuro l’approdo.

Sono, quelli, momenti sospesi che annullano il presente, adagiandoti crudelmente in una giungla di idee in fermento fuori di ogni realtà. I passanti, come alberi di foresta pietrificata, non parteciperanno al tuo sgomento; eppure, in quello stato afisico potrebbe accadere di sentire aleggiare un vago senso di poesia a tentare di sorreggerti prima che la mente tracimi nel delirio. È, quella, una “roulette” sulla quale ti parrà di tallonare un numero impazzito e di sentire che la poesia, che ti fiorisce dentro una sovrana solitudine, tenterà di venirti in soccorso attraverso insondabili provenienze.

La mente è nebulosa, eppure vi coglierai lampi di lucidità perversa mediante un frasario sommesso e rielaborato che ti giungerà come nenia di madre che canti. Intanto un brivido di luna, avvolgendoti, ti caverà gli occhi per un’oscurità non soltanto fisica a sottolineare riverberi d’angoscia.

Nel mesto declinare pomeridiano di quel novembre uggioso sarà naturale tentare di cogliere tra gli ignoti passanti un viso, un sorriso caro, ma ti troverai tra i flutti di un mare gonfio d’ira e berrai acqua e sale tra palazzi muti di una città che non conosci, ma ti appartiene e ti sfugge come sabbia dalle mani.

La cognizione del tempo sarà svanita, e non percepirai più il suo stillare inesorabile dentro la voragine in cui sei caduto. Allora ti sentirai colto da una disperazione muta ed invocherai con occhi famelici e senza voce quel viso muliebre dal sorriso rassicurante. D’improvviso, però, come destato da un flash fotografico in viso, sorgerai da quel limbo in cui eri precipitato.

Ti sei destato. Il tuo ansimare avrà una ragione fisica. E nella luce declinante di quell’uggioso pomeriggio, tornerai come d’incanto alle tue dimensioni fisiche, alle apparenze, ai valori quotidiani marchiati dalla tua storia personale. Percepirai il palpito della città e ritroverai i tuoi ritmi e quell’anima che s’era persa nel sogno malefico.

Il breve letargo pomeridiano ti abbandonerà per restituirti a te stesso. Si è trattato certamente di uno sfogo dell’anima che, planando senza meta per vie non tracciate nella tua mappa mentale, si è espressa con il treno onirico che alberga in noi e che, per particolari fini insondabili, ha scelto quella fermata per indicarti, a monito, gli squilibri, le ansie represse e quanto d’inconfessato t’agiti.

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 40-41.




Dialogo con Adolf Hitler ovvero il male nella storia

Braunau am Inn, Austria, vicino Linz. Il Führer seduto su una panca contempla lo scorrere del fiume. È solo.

Francesco – Führer, sto per scrivere una tragedia wagneriana su di Lei. Vorrei cortesemente chiederLe qualche chiarimento sul nazismo.
Führer – Non perdere tempo. Hanno scritto migliaia di libri su di me e sul Nazismo: non diresti nulla di nuovo.
Francesco – Beh, non è come dice Lei. Film ne hanno girato molti e libri ne avranno scritti migliaia, ma tragedie poche. Forse nessuna.
Führer – E perché vuoi scrivere una tragedia su di me?
Francesco – Per dare un contributo alla verità. E perché l’epoca moderna comincia da Lei. Chi non comprende il Nazismo e la Seconda guerra mondiale non può comprendere la modernità. Quello è lo spartiacque tra il tempo antico e quello moderno.
Führer – Non ne saresti capace. Non hai le forze per un’impresa così grande.
Francesco – Perché? Ho letto tanti libri su di Lei e ho buona cultura.
Führer – Sei un professorino di provincia. In due tuoi romanzetti sei stato superficiale verso di me e il Nazismo. Una volta mi hai definito l’incarnazione del Demonio, un’altra volta hai parlato di ricerche sull’immortalità ad opera di fantomatici movimenti prenazisti, come la Società Thule. Sei un cospirazionista. Lavori troppo di fantasia. Occultismo, pratiche esoteriche: stupidate! Adolf Hitler è un figlio dell’Occidente.
Francesco – Ma perché, Führer, nel Partito Nazional Socialista Tedesco dei Lavoratori non c’erano molti membri della Società Thule? E non portarono anche il loro simbolo, la svastica? Anton Dexler, il fondatore, non era un membro della Thule? E poi, via, non potevo certo presentarla come un benefattore dell’umanità!
Führer – La verità è che il mondo è pazzo di me. Libri, film, tragedie, cronache, saggi, televisione, io sono la star del Tremila! Tutti sono nazisti ma non vogliono ammetterlo. Mi dileggiano, mi offendono, ma in realtà mi amano. Comunque, premio chi osa. Che vuoi sapere?
Francesco – Vorrei parlare del male, Führer. È necessario il male nella storia?
Führer – Il male nella storia a volte è necessario. Lo sosteneva anche il tuo connazionale Machiavelli: ogni grande progetto passa sempre attraverso grandi sofferenze.
Francesco – Veramente Machiavelli parlava del pugno forte che, in quel particolare momento storico in cui gli Stati italiani erano deboli, doveva avere un principe nella creazione dello Stato. E poi lui, Niccolò Machiavelli, sostanzialmente, era un repubblicano.
Führer – Anch’io sono repubblicano.
Francesco – Questa mi è nuova, perbacco!
Führer – Non ti scandalizzare. Mi lasciavo dietro la consunta Repubblica di Weimar. La dittatura era necessaria per qualche decennio. Le dittature sono necessarie quando si devono creare nuove epoche e grandi sistemi, grandi progetti. Le dittature non durano in eterno, se non sono sostenute da istituzioni solide. La situazione del mondo tedesco dopo la Prima guerra mondiale era simile a quella in cui si trovavano gli Stati italiani nel ‘500. Unmondo disgregato, umiliato.
Francesco – Mah, sarà come dice Lei. Ma qual era questo Suo grande progetto?
Führer – Il dominio degli ariani, razza eletta. Solo così il mondo avrebbe raggiunto il massimo delle sue possibilità. I fatti di oggi, del resto, mi danno ragione. L’ Occidente e l’Europa con la Germania come guida sono i leader del progresso, con il Giappone ad Oriente. Per il resto, guarda un po’ quello che sta accadendo in Africa, nel mondo arabo, nell’est europeo, in Asia. Con la sconfitta della Germania questo processo è stato ritardato di 50 anni.
Francesco – La sua analisi politica, lo ammetto, è spiazzante. Io, però, prima di parlare di politica, vorrei cominciaredall’inizio: dall’amore. Perché io sono convinto di una cosa. Anche Lei ha amato, Führer. Forse a suo modo, ma ha amato.
Führer – Sì, io ho amato. Ho disperatamente amato. Ho amato la Germania.
Ho amato mio madre. Prima di morire, ho sposato Eva Braun, la donna che amavo, e ho stretto al petto la foto di mia madre. Ricordatevi questo nome: Klara Pölzl. Una donna meravigliosa. Una madre sublime. Morì a 47 anni: il suo nome si leva alto sulle miserie del tempo.
Francesco – Lei ha amato ed è stato amato. Tutta la Germania era ai suoi piedi.
Führer – Sì. La Germania era ai miei piedi. Il nostro glorioso ideale è andato in rovina e con esso tutto ciò che di bello e meraviglioso ho conosciuto nella mia vita. Il mondo che verrà dopo il Führer e il nazionalsocialismo non è più degno di essere vissuto e quindi porterò i bambini con me, perché sono troppo buoni per la vita che li attenderebbe, e un Dio misericordioso mi capirà quando darò loro la salvezza… Sono parole di Magda Goebbels. Lo so, sono parole tragiche, ma sono un atto d’amore sconfinato verso di mee il Nazismo.
Francesco – Sono parole che racchiudono tutta la follia di un’ideologia e diun’epoca, con tutto il rispetto, Führer. Helga Susanne, Hildegard Traudel, Helmut Christian, Holdine Kathrin, Hedwig Johanna, Heidrun Elisabeth, sei bambini innocenti uccisi col cianuro dalla madre, prima che lei si suicidasse con il marito, un sacrificio collettivo in onore di un dio pagano. Lei ha stregato il popolo tedesco perché la sua abilità oratoria era superba.
Führer – Non solo per questo. Non si fa la storia solo con i discorsi. Avevo grandi capacità politiche, di organizzatore. Avevo un programma, un’ideologia, una cultura dietro di me. Io sono arrivato al potere democraticamente. Anche se Hindenburg, ormai vecchio e rincoglionito, non mi amava, e me lostava impedendo. Io sono l’espressione massima dell’anima tedesca, sono ilpiù grande dei tedeschi. L’annessione dell’Austria, dei Sudeti, della Moravia, di Danzica, ovunque andavo le folle erano in delirio per me!
Francesco – Va bene, Führer. Certo, penso alla sua infanzia difficile, se l’avessero accettato all’Accademia di Belle Arti di Vienna…
Führer – Sarei rimasto un buon paesaggista, un pittore e un architetto minore. E la storia avrebbe preso un altrocorso. Secondo me, anche peggiore. È questo che volevi dire? Ma la storia non si fa con i “se”.
Francesco – Sì, ha ragione. Vediamo allora in che cosa consiste questa sua grandezza. Un argomento alla volta. Il lavoro, per esempio.
Führer – Bene. Il lavoro, il progresso sociale. Sotto il mio governo c’era la piena occupazione. Il mio Stato era autoritario, non antiproletario. Il mio partito era e si definiva Nazional-socialista a tutti gli effetti. La Germania era il Paese più sviluppato d’Europa, più progredito sul piano tecnologico e scientifico.
Francesco – Sulla tecnologia e sulla scienza, lo riconosco, eravate i più moderni. Per il resto… Io non mi intendo d’economia, ma secondo me fu la politica di riarmo a contribuire alla piena occupazione. Altro che socialismo! Furono soppressi i sindacati, il diritto di sciopero, i contratti collettivi, gli stipendi furono fissati dal governo nazista. Non parliamo poi dell’economia di guerra di Albert Speer e dei dodici milioni di schiavi dell’est nei campi di concentramento. Anzi, i campi di sterminio. Lo spazio vitale, il Lebensraum.Parliamo, adesso, di questo. Perché tutte quelle guerre di aggressione?
Führer – Perché la Germania non doveva espandersi a est? La Francia aveva un impero, la Gran Bretagna aveva un impero, perfino la povera Italia aveva un impero, il Giappone, la Cina, gli USA, la Russia, tutti avevano un impero. Perché la Germania non doveva averlo? Il Lebensraum lo ha voluto l’Europa, perché ha privato il popolo tedesco delle colonie e del trenta per cento del suo territorio, a vantaggio di popoli insignificanti, come quello polacco, per esempio. L’est degli Slavi inutili, un territorio sterminato e spopolato, mentre la Germania, nazione proletaria, stava demograficamente esplodendo. Ci hanno accusati di volerfare quello che l’intero Occidente aveva già fatto. Ma la storia, si sa, la fannoi vincitori.
Francesco – Lei si è messo dalla parte sbagliata della storia. Quegli imperi, infatti, sono quasi tutti crollati.
Führer – Li ho fatti crollare io; se non ci fosse stata la Seconda guerra mondiale, tutto sarebbe rimasto come prima. La guerra! La guerra ha risolto i problemi economici e sociali dell’Occidente. L’Occidente agonizzava, dopoil crollo di Wall Street del 1929. Questa è la verità. La guerra, spesso, è il male necessario nella storia.
Francesco – Non credo che le guerre risolvano i problemi. Perché, mi chiedo, uno spazio e un tempo superiori, perché la volontà di potenza di un popolo sugli altri?
Führer – Io sostengo che la civiltà europea è superiore a tutte le altre. Lo dice la storia. Nel suo contesto, la Germania ariana merita il primato di Nazione guida. Wagner, Beethoven, Bach, e tanti filosofi, artisti e imperatori, che fanno molto lunga la lista, sono personalità di questa grande Nazione, di cui il più grande sono io, Adolf Hitler, il signore della guerra. Sotto di me la Germania per tre anni raggiunse la sua massima espansione. 
Francesco – Certamente. E anche Marx, Engels, Freud, di origini ebraiche, erano tedeschi. Altre Nazioni, però, come quella italiana, mi perdoni Führer, possono fare elenchi così lunghi. 
Führer – I Tedeschi sono una razza superiore, questa è la verità. Lo dice, lo conferma la storia. Un popolo che, in un secolo, ha perso due guerre mondiali, ha perso tutte le sue colonie, ha visto defraudato il proprio territorio del trenta per cento, il Paese diviso in due Stati, in quattro zone d’occupazione, la sua capitale squarciata pure in quattro zone d’occupazione, la peste del comunismo nella ex DDR, con il ritorno di un intero popolo di diseredati alla Patria. Un Paese che per due volte è stato devastato e distrutto, che, senza materie prime, è ancora la Nazione guida d’Europa.
Francesco – Ho già detto che la Germania è una grande Nazione. Ma Lei, Führer, non ha risposto alla mia domanda. Perché la guerra?
Führer – La Germania era il Paese piùpopolato d’Europa. Vuoi forse negare che il tedesco è, ancora oggi, la lingua più parlata in Europa?
Francesco – No, non lo nego. Ma adesso la Germania vince col lavoro, con la democrazia. Lei ha scatenato un conflitto apocalittico.
Führer – Io dovevo dare una patria comune a un popolo benedetto dal destino. Quello che si era meritato nella storia. Sono le leggi geopolitiche che determinano i destini di un popolo e la sua costituzione in Stato. Te l’ho detto: la Germania aveva perduto tutto, tranne la memoria. La Germania rischiava di essere spazzata via dalla storia, di scomparire dal mondo o di servire gli altri come nazione schiava. Guarda a est e a sud dell’Europa che c’è. Vedrai che i fatti mi hanno dato ragione.
Francesco – Me lo dica Lei: che c’è, Führer?
Führer – Non ho problemi. A est ci sono popoli insignificanti che dispongono di territori sterminati, c’è una massa sterminata di popoli subumani che, a vent’anni dalla caduta del comunismo, non hanno ancora fatto un bel niente. Gli Slavi hanno confermato di essere una razza inferiore. Ecco perché la Germania, per la sua storia, meritava un palcoscenico più grande. A sud, altre razze sottosviluppate con governi antidemocratici, preda del fanatismo islamico, ricattano l’Occidente col petrolio.
Francesco – Dunque la guerra era necessaria.
Führer – Veramente, io volevo un’intesa con l’Inghilterra. Lo sostenevo già nel Mein Kampf. Volevo stracciare il Trattato di Versailles, riannettere i territori tedeschi tolti, isolare la Francia, procurare alla Germania il Lebesraum, distruggendo l’Unione Sovietica, la peste del comunismo. L’alleanza con l’Italia si è resa necessaria per evitare l’isolamento politico. Solo per questo. Sapevamo che l’Italia era una potenza di seconda categoria.
Francesco – Bella divisione! I mari all’Impero britannico, l’Europa alla Germania. L’Europa meridionale, Francia, Italia, Spagna, Grecia, per le vacanze dei tedeschi, l’est per la manovalanza. Mezza Africa alla Germania e mezza all’Italia, Stato vassallo. E l’Asia al Giappone.
Führer – Perché, adesso non è così?
Francesco – Lei è testardo, vuole averesempre ragione. Tornando all’Inghilterra, Lei forse chiedeva troppo. Forse.
Führer – L’Inghilterra era in debito con noi. Il Trattato di Versailles è stato un’umiliazione cocente. Una vergogna, una vendetta della Francia. L’Inghilterra aveva concesso troppo alla Francia. Devo ripetere tutte le disposizioni? La perdita delle colonie, di buona parte del territorio tedesco, le limitazioni alle forze armate tedesche, lestratosferiche somme di riparazione…
Francesco – Questo è un punto dolente, riconosco che il Trattato è stato ingiusto. Ma mi chiedo se una revisione del Trattato non fosse possibile. 
Führer – La Francia non voleva ed è responsabile e nemica mortale del popolo tedesco, anzi di tutta l’Europa. La guerra è stata una scelta dolorosa ma necessaria. Ci sono momenti della storia in cui è necessario un bagno di sangue per costruire un grande progetto. Forse che il mondo moderno non nasce col bagno di sangue della Rivoluzione francese? O che l’Unione Europea di oggi non ha origini nei massacri compiuti dall’Impero Romano? O che la civilizzazione dell’America non abbia avuto il contributo sanguinario dei Conquistadores? Devo parlare delle stragi compiute dai Cristiani in tutta Europa, del colonialismo? Di tutti gli atti di aggressione internazionale con cui l’Italia ha conquistato la sua unità? Forse che Cavour non era un calcolatore bieco, Garibaldi un avventuriero guerrafondaio, e Mazzini un terrorista?
Francesco – È inutile insistere, Lei ha le sue idee. Sinceramente, non ho capito la strategia.
Führer – La guerra era inevitabile nel 1939. Dovevo attaccare prima che si riarmassero Francia e Inghilterra. Certo, non mi aspettavo che spendessero una sterlina per Danzica, ma ero preparato anche a questo. Volevano fare i liberatori dei popoli oppressi, loro che avevano colonizzato l’intero pianeta!
Francesco – E l’Unione Sovietica?
Führer – Attaccai l’Unione Sovietica per convincere l’Inghilterra all’armistizio e a non sperare più nell’aiuto americano, e per evitare di combattere la guerra coi bolscevichi in Germania. L’Unione Sovietica era pronta ad attaccare, ho anticipato Stalin di due settimane. Stalin aspettava che ci scannassimo noi europei per venire, da liberatore, a impadronirsi dell’Europa. Il Patto Molotov-Ribbentrop era un espediente provvisorio. Ci hanno messo un po’ di tempo, ma alla fine gli storici hanno capito. Qualche storico acuto ha capito pure che l’invasione della Polonia fu opera della Germania e della URSS in azione coordinata. Devo parlare dei dettagli del Patto e della divisione dell’Europa orientale? Dell’occupazione della Finlandia ad opera di Stalin? Noi fummo accolti come liberatori in Ucraina e in Bielorussia… Ma ci vuole fortuna in politica come nella vita. Il criminale Stalin nel 1941 si trovò nella parte cosiddetta giusta della storia, quella dei vincitori.
Francesco – Per opera sua. Mi perdoni, ma molti storici sono convinti che l’attacco all’Unione Sovietica fu un clamoroso errore strategico.
Führer – No. L’errore strategico lo commise il Giappone, coinvolgendo gli Stati Uniti nel conflitto a Pearl Harbor. Nonostante l’embargo petrolifero, gli Americani dovevano restare fuori. A quel punto noi dovevamo dichiarare guerra agli USA, per rispetto del Patto Tripartito. E l’Italia nella guerra fu una palla al piede. Anch’essa doveva restare fuori. Doveva avere solo una funzione deterrente.
Francesco – Führer, se non Le dispiace, cambiamo argomento. Parliamo della politica razzista?
Führer – Il razzismo! Immaginavo che  saresti finito qui. Qui ti senti a tuo agio, vero? Bene, sai che ti dico? Oggi il Paese meno razzista del mondo è la Germania. Abbiamo più lavoratori stranieri e rifugiati politici noi che l’intera Europa. Mentre voi e i Francesi oggi litigate per quattro tunisini. Siete buoni solo per bombardare i Libici.
Francesco. Rimaniamo nel passato. Lo vuole evitare? È il punto più dolente del Nazismo. Tutto comincia da lì: il razzismo è la vera essenza del Nazismo.
Führer – No. E comincio con Il passaggio della Grande Razza del 1916 di Madison Grant, amico di Theodore Roosevelt… La mia legge del 1933 per la prevenzione dei difetti ereditari aveva come modello quella statunitense di Harry Laughlin. E le leggi per la sterilizzazione dei criminali e degli imbecilli promulgata nell’Indiana nel 1907…
Francesco – Per carità! Lasciamo stare. Lei arriverà alla sterilizzazione degli omosessuali, a Martin Luther King… Führer, il razzismo non ha nessun fondamento scientifico.
Führer – Tu dici? E allora fammi capire perché l’Europa intera era razzista, tutto l’Occidente era razzista. Il razzismo! Vuoi che ti citi tutte le leggi razziste americane? Che ti elenchi tutti i provvedimenti razzisti perpetrati in Europa? Ti racconto la storia della cacciata degli Ebrei da tutti i Paesi europei? Sono un incompreso, il più grande incompreso della storia dell’Occidente! Da millenni l’Europa voleva risolvere il problema ebraico, una volta per sempre lo stavo liquidando, glielo mettevo su un piatto d’argento: non mi hanno capito.
Francesco – Però, sei milioni di ebrei sterminati! Un intero popolo! Lei ha fatto un bel servizio lo stesso agli Europei!
Führer – Ho seguito il modello americano del genocidio scientifico ai danni degli indiani d’America, venti milioni circa, mica sono bruscolini. Ma anche con la tratta degli schiavi durante il colonialismo l’Europa non ha scherzato: 40 milioni di africani massacrati. E, detto fra noi, Cesare come ha conquistato le Gallie, dando caramelle?
Francesco – Certo che voi, coi campi di concentramento, avete velocizzato i tempi.
Führer – Li ha voluti quello schifiltoso e sanguinario di Himmler. Le SS vomitavano a sparare sul cervello degli Ebrei. Riconosco però che è stata una buona soluzione: fornivamo manodopera gratis alle industrie e poi li liquidavamo.
Francesco – Non c’è che dire: ottima soluzione. Alla faccia dei revisionisti dell’olocausto!
Führer – Io non sono un ipocrita. Anche se non c’è nessun documento che porta la mia firma. La soluzione finale l’ho voluta io. Anche se i lager erano un provvedimento provvisorio. Bisognava fare un po’ di pulizia, per consolidare il potere. Non potevamo scannare Ebrei e subumani per l’eternità, era anche la confusione del momento. E i lager dell’URSS? E quelli…
Francesco – Non mischiamo le carte. Parliamo adesso dei vostri crimini. Quanti crimini contro l’umanità avete commesso!
Führer – Ah, sì? E Amburgo e Dresda rase al suolo? E Hiroshima e Nagasaki? Trecentomila innocenti inceneriti in un minuto? Dove le metti queste, Francesco, fra le opere umanitarie? Vogliamo parlare del Vietnam, dell’Iraq? La verità è che ogni tempo, ogni Nazione, almeno una volta nella sua storia, per rinnovarsi ha bisogno di un bagno di  sangue. E il sangue chiama sangue.
Francesco – La storia dell’umanità ha attraversato spesso momenti terribili. Eppure, vorrà perdonarmi, Führer, ma io ho la sensazione che il tempo del Nazismo sia stato il più buio della storia, che il Nazismo, più che un movimento politico, sia stato un’associazione per delinquere, la più pericolosa che sia mai esistita. Goering, Goebbels, Himmler, Hess, Ribbentrop… Mi vengono i brividi!
Führer – Patrioti, Francesco, patrioti che amavano disperatamente la Germania. Negli ultimi giorni, nella confusione e nell’emotività del momento, alcuni hanno tradito, come Goering, Himmler, ma sono stati perdonati da me, se non dalla storia. Tuttavia, riconosco che si deve talvolta cedere alle miserevoli ambizioni degli uomini per realizzare un grande progetto. Quanta umanità… il morfinomane Goering e la sua mania di grandezza, il fanatismo di Goebbels, il sanguinario Himmler, che credeva di essere l’incarnazione di Enrico I di Sassonia, poveraccio!
Francesco – Meno male che il Processo di Norimberga ha ristabilito un po’ di giustizia, Führer!
Führer – Capirai! Bella farsa il Processo di Norimberga! È stato come eliminare un senso di colpa. Ecco, eliminiamo il fantasma del Nazismo, purifichiamo la Germania e l’Occidente, eliminiamo il Demonio, riprendiamo il cammino. E no! Vuoi conoscere tutti i finanziamenti americani del Nazismo, le partecipazioni industriali? Hitler è un figlio dell’Europa, è un figlio dell’Occidente. Mi hanno creato loro. Non ho dormito per anni al pensiero di vedere Stalin sul tavolo dei vincitori. Francesco – Lasci perdere, Führer. Ormai la storia ha condannato anche lui. Si è fatto tardi. Prima di andare via, devo confessarle questo. Se c’è una cosa che io ammiro in Lei è il fatto che è andato sino in fondo al proprio destino. Non è scappato.
Führer – C’è chi sostiene che mi sono sottratto alle mie responsabilità. Che dovevo fare? Farmi giudicare da Stalin, da un criminale? Farmi impiccare o appendere a un palo? 
Francesco – Poteva andare via dalla Germania, guidare la resistenza. Se il popolo tedesco L’amava, l’avrebbe seguito.
Führer – Mi dicevano di liberarmi della sacca di Berlino. Io credevo che ci fosse per me sempre una sacca nel resto del mondo. Sì, potevo fuggire: non ho voluto.
Francesco – Si dice che nel bunker vivesse una realtà allucinante, fuori dal mondo, che fosse in pieno delirio, che manovrasse armate immaginarie.
Führer – No. La guerra fu perduta a Stalingrado. Nel bunker dovevo costruire il mito del Nazismo. E il Nazismo ha vinto.
Francesco – Ha vinto? Lei è incorreggibile!
Führer – Noi sostenevamo che la violenza fosse necessaria nella storia; che la razza ariana e germanica fosse superiore a tutte le altre, e che il comunismo era la peste dell’umanità ed andava liquidato. Bene, queste idee sono state rispettate. E sugli Ebrei, il nostro progetto poggiava sul modello di fanatica adesione ai dogmi e di estrema intolleranza della Chiesa cattolica. Devo ricordarti il silenzio di Pio XII?
Francesco – Per carità! Proprio adesso che mi sto convincendo di dover morire da cattolico.
Führer – Anche questa fu una mia scelta e sono morto da cattolico. Io ero, da buon austriaco, un fervente cattolico. Feci mio il motto Gott mit uns, Dio è con noi, dei re prussiani, anche se rimasi sempre convinto che l’educazione dei giovani doveva rimanere un affare nazista. Morii da cattolico e innamorato. Sposai la donna che amavo e strinsi al petto la foto di mia madre, te l’ho detto. Adesso devo andare. Sei ancora convinto di scrivere una tragedia sul Nazismo?
Francesco – Sì. Ma non su di Lei; non ho le forze al momento per mettere sulla scena Hitler e tutti i gerarchi nazisti. I personaggi principali di questa tragedia saranno Magda Goebbels ed Eva Braun: il Nazismo visto attraverso le donne.

Führer – Interessante. Auguri.

Francesco Bellanti

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 33-40.




Antoine de Saint-Exupéry

Lo scorso anno, il 29 giugno, Google dedicò la pagina di apertura al 110° anniversario dalla nascita di Antoine de Saint-Exupéry, essendo nato a Lione il 29 giugno del 1900 e morto nel Mar Tirreno il 31 luglio 1944, il suo aereo di ricognizione abbattuto dalla contraerea tedesca.
Di nobile famiglia, fu subito avviato agli studi, nel 1909 nel collegio dei Gesuiti di Notre-Dame de Sainte- Croix au Mans, dove si fece notare per discontinuità nello studio, ma era molto portato per la meccanica e l’invenzione; poi, nel 1914, nel collegio, sempre dei Gesuiti, di Mongré a Villefranche-sur-Saône. Successivamente andò in Svizzera e terminò gli studi superiori a Friburgo; s’iscrisse in architettura a Parigi. Qui, dopo il servizio militare nella marina e poi nell’aeronautica, fece diversi mestieri, dandosi nel tempo libero alla scrittura e alla lettura.
Il suo primo racconto, “L’aviatore”, è del 1926, un anticipo di Courrier Sud, pubblicato a Parigi presso Gallimard nel 1929. Sempre nello stesso anno fece un corso per pilota a Brest e diventò direttore della Compagnia Aeropostale Argentina. 
Nel 1930 fu insignito del titolo di Cavaliere della legione d’onore e fu protagonista nel salvataggio dell’amico Guillaumet nella cordigliera delle Ande. Di qui trasse lo spunto per scrivere Vol de nuit, con cui ottenne il premio Femina nel 1931. Ancora nel 1930 incontrò a Buenos Aires la donna che dopo un anno diverrà sua moglie, Consuelo Suncin. 
Altre pubblicazioni, oltre alle citate, lo avevano fatto già conoscere come autore di libri di avventura e di riflessione. Ricordiamo: Terre des hommes, 1939; Pilote de guerre, 1942), in cui, non tralasciando di andare oltre la semplice narrazione, riporta la sua esperienza di uomo tra gli uomini e il suo approccio con la natura nelle sue manifestazioni che esprimono una sensibilità, al pari di quella umana, ora dolce e aperta, ora cupa e minacciosa, come quando con il suo aeromobile l’Autore si trovò nel mezzo di una bufera.
Il piccolo principe era stato pubblicato un anno dopo, nel 1943, in inglese, senza che l’Autore ne avesse dato il consenso. Era stato scritto nel 1942, ed ebbe subito un successo strepitoso.
Antoine de Saint-Exupéry fu scienziato e pilota, pensatore profondo e scrittore, autore di opere da leggere e meditare, perché in ogni suo scritto c’è l’uomo, a cui si rivolge con molta cura e rispetto, da signore qual era. L’impegno che lo caratterizzò fu frutto di un’intima esigenza di partecipazione e di dedizione agli altri, mai di un bisogno di emergere e di farsi notare. 
Era tanto schivo quanto grande per non curarsi di quello che si diceva della sua opera, motivo di spunti polemici per i detrattori, mossi da invidia di mestiere piuttosto che da argomentazioni serie e degne di essere considerate.
Alternò alle opere di narrativa saggi e scritti di riflessione, considerazioni di vita ed altro in cui si rivela acuto pensatore e valido amico di viaggio alla volta della ricerca e della conoscenza.
Citadelle (Fortezza) è del 1948, pubblicato postumo da Gallimard; Écrits de guerre (1939-1944) è apparso nel 1982; Manon danseuse è un romanzo giovanile portato a termine nel 1925 e pubblicato nel 2007; poi, i saggi e corrispondenze varie che fanno di Antoine de Saint-Exupéry un autore prolifico e aperto a sé e agli altri.
Fu attaccato dai detrattori – abbiamo scritto -, e ciò perché, prima gli si rimproverò che la sua letteratura era frutto di esperienza vissuta, poi, quando cominciò a interessarsi più apertamente dell’Uomo (lo scriveva così, con la U maiscola), come se ci fosse uno stacco tra le prime opere e le successive, non venne accettato nella nuova veste di saggista e di pensatore. Ma tra le une e le altre opere non c’è ancuno stacco, non c’è passaggio da un argomento ad un altro; la tematica è la stessa da un’opera all’altra. Cambia, semmai, l’approccio, seppure gradatamente, perché lo scrittore darà più peso alla riflessione che non è dovuta al mero ragionamento, che avrebbe trovato il tempo che vuole, bensì diviene più insistente, frutto della ricca elaborazione esperienziale e del dialogo che sa instaurare con gli uomini e le cose. Altrimenti non ne sarebbe stato capace, perché in lui l’azione, il vissuto quotidiano, precedono la scrittura; e questo sempre, anche in quelle opere che meno lo fanno notare, come ne Le petit Prince, l’opera che gli diede la notorietà mondiale. 
Écrits de guerre (1939-1944) lo conferma con molta evidenza: quando ha la possibilità di volare, per rendere un servizio al suo Paese, Antoine è allegro, non risente dei dolori residui delle tante cadute, gioca, come a Napoli, librando aquiloni tra le grida festose dei bambini, si sente di avere «un cuore di vent’anni»; quando, invece, per età avanzata non gli si consente di volare è triste, gli sembra avere «notte nella testa e freddo nel cuore», e non è capace di scrivere. Ecco cosa dice in un’intervista rilasciata a Dorothy Thompson del “The New York Tribune”, pubblicata il 7 giugno 1940:

«Nessuno, attualmente, ha il diritto di scrivere una sola parola se non partecipa alle sofferenze della società. Se non opponessi la mia stessa vita, non sarei capace di scrivere. E ciò che è vero per questa guerra deve essere vero per tutte le altre cose. Bisogna servire l’idea cristiana del verbo che si fa Carne. Lo si deve scrivere, ma con il proprio corpo.»

Il mestiere di pilota, che Antoine de Saint-Exupéry esercitò dal 1927 fino all’anno della morte e che dà lo spunto a molti suoi scritti, non lo chiuse agli uomini, come si sarebbe potuto verificare; anzi, operò in lui una metamorfosi rispetto al giovane aristocratico che era stato. L’altitudine lo avvicinò alla terra e all’uomo più di quanto si possa immaginare e gli fece amare la vita, con lo stesso entusiasmo e la commozione di quando si trovava dinanzi ai cartoni animati di Walt Disney.
Antoine de Saint-Exupéry non è il narratore della sua esperienza di volo, è il poeta innamorato degli uomini e delle sue cose. Il volo gli apre il cuore all’ascolto di milioni e milioni di altri battiti che, seppure a diecimila metri, negli agglomerati urbani, minuscoli e lontani, alla luce delle lanterne delle singole abitazioni, sono in stretta comunione con lui.
Già molto noto per i libri sopra citati, raggiunse notorietà internazionale con Il piccolo Principe, tradotto in tutte le lingue, con il primato delle vendite. Questo perché è un libro stupendo, un monumento imponente della letteratura mondiale che chiunque dovrebbe tenere caro e di tanto in tanto leggere, perché è patrimonio di tutti, parla la lingua semplice che va diretta al cuore per nobilitarlo e per rinsaldarlo nei suoi valori, a cui l’uomo non può e non deve rinunciare.
Antoine de Saint-Exupéry trova la molla ispiratrice nell’infanzia, nel ricordo vivo, sempre presente della sua:

«Chiedo perdono ai bambini di aver dedicato questo libro ad una persona adulta. […] Tutti gli adulti sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)… »

La dedica a Léon Werth, che in sintesi preannuncia la dicotomia presente nel libro (il mondo dell’infanzia e quello degli adulti, evidenziando cosí due livelli di lettura), riflette lo stato d’animo del suo autore che nei momenti più tristi soleva rivedersi bambino, ricreando i fantasmi buoni di quell’età.
Il piccolo Principe maturò nel clima della comprensione e nella calma del silenzio e del deserto, piano piano, come il bocciolo della rosa, in un momento particolare della vita dell’uomo e del poeta, che viveva in prima persona un’esperienza di guerra atroce e fratricida, pronta a svuotare di ogni nobile sentimento l’uomo e farlo belva per rendere vano il tentativo di quanti volevano fermarla. Di qui la tristezza del piccolo Principe, ragazzino biondo, capelli sciolti al vento, pensoso più di quanto non lo sono gli adulti, capace di agire e di giudicare, perché lontano dai loro interessi e pregiudizi. Eppure, ponendo la sua attenzione sugli uomini, li commisera per la loro stoltezza, ma li ama per il fondo buono che tutti accomuna.
Incontri indimendicabili sono quelli che il ragazzino fa con la volpe e con la rosa. La volpe è guardinga, perché agisce per spirito di conservazione, ma è fondamentalmente buona e si fa addomesticare.

«Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. […] – Gli uomini hanno dimenticato questa verità,, – disse la volpe. Ma tu non devi dimenticarla. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile per sempre della tua rosa…»

Antoine de Saint-Exupéry ricorre ad aforismi, come questi, molto citati, segno che colgono nel vivo lo stato d’animo dell’uomo che ha già in sé i mezzi sufficienti per gestire il suo destino. Ma il racconto è una trasposizione del vissuto, e l’affabulazione si serve dei dati oggettivi dell’esperienza: il volo, il guasto, la presunzione che è negli adulti e il bisogno di ridimensionamento, per renderlo più ingentilito e più buono nei rapporti umani, perché lo scopo dell’Autore è di riportare l’uomo nella condizione di appropriarsi ciò che gli appartiene, ma vuole anche sia bandito il male che si manifesta con il vizio o dando troppa importanza alla materialità che rende succubi dell’effimero e del vano.

 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 30-32.




Rosa Barbieri, Il volto delle Madri, Foggia, Bastogi, 1992.

Un viaggio dell’anima

Non a caso la nuova silloge poetica di Rosa barbieri, dal titolo emblematico Il volto delle Madri è dedicato ad Andrea, il nipotino adolescente incompreso, a tutti i fanciulli che soffrono, poiché la genesi ispirativa ed esistenziale di questo canto risale a questa remota pena nel salvifico dono della poesia.. La raccolta si allinea su 70 composizioni liriche (suddivise in tre segmenti: Adolescenza, Il viaggio delle madri, Iside cantare), senza titolo, quasi stazioni di un “viaggio” dell’anima, tenero e struggente, nelle contrade della memoria, ognuna, autonoma e singolare ma, in realtà, legate tra loro da un filo di luce, in progressione dialettica, per delineare un diorama, estetico e ideologico, dell’eterno rapporto madre-figlio, donna-bambino, che si dilata, da una testimonianza vissuta e sofferta, agli orizzonti della società e del mondo.

Un atto d’amore, trafitto dall’infelicità e dal dolore, tramite un lirismo intenso e vibratile, si trasforma un atto d’accusa verso la disintegrazione di giovani vite avviate a un domani senza bussola e senza ideali. La poesia di Rosa Barbieri raffigura, così, un elemento di rottura, una scheggia di polemica pungente contro le aporìe della incivile civiltà contemporanea, balenante di violenza, di odio, di droga, di scientismo, di egoismi, di razzismo, che minacciano di travolgere le nuove generazioni. Il verso si fa ora grido di protesta, ora sussurro di preghiera, ora rabbiosa disperazione, ora mistico incantesimo,ora consolante messaggio. Le problematiche, a sfondo etico-pedagogico, sono come fiori di montagna sospesi su baratri di luce o madrepore sprofondate negli abissi memoriali o di frammenti di cristallo custoditi nel segreto dell’inconscio. La tessitura semantica degli stilemi, a volte si fa affannosa e franta, quasi imbrigliata nei viluppi criptici del pensiero che rischia di soffocare il sentimento e i sogni. Ma il linguaggio è, tuttavia, coerente nell’architettura dell’impeto che governa i moduli ispirativi, i ritmi musicali, mai banali, raramente patetici o retorici, spesso doviziosi di colpi d’ala e di dissolvenze pindariche, con opportuni richiami mitologici, riferimenti biblici o evangelici, frutto di una robusta cognizione umanistica e filosofica, di autori classici e moderni. L’Autrice, infatti, ha coltivato con lungo studio letture di filosofi e di poeti, e si è dedicata con passione alla pittura e alla musica. Il talento naturale di Rosa Barbieri, incanalato verso le arti, ha trovato, nel rapporto con le cose, con la vita, con la visione del mondo, il suo sbocco spirituale nella fede cristiana che l’ha sorretta nelle ore crudeli che hanno ferito il suo sensibile cuore di donna e di madre.. E potrebbe dire con Maritain: «…solo chi è accesa può accendere, solo chi è convinto, può convincere, solo chi è stato scosso può scuotere, solo chi è entusiasta può entusiasmare, solo chi ha pianto, può commuovere…»

In questo libro, Barbieri ha toccato le cuspidi più alte del suo itinerario artistico, perché, con uno stile perentorio, icastico, articolato, elitario e, nello stesso tempo, umorale, cattivante, e umano, ha saputo trascendere i confini del suo dolore per parlare a tutti i figli di mamma, di oggi e di sempre, esaltando, con appassionata esaltazione polifonica, la miracolosa vigilia dei “bambini di luce” nell’amorosa visione delle piccole madonne terragne che recano, con dolore nel loro grembo i destini della storia. Non c’è tesoro più prezioso, non esiste bene più grande che il candore e l’innocenza di un fanciullo che dorme o che sogna; non c’è bellezza più bella di una madre che veglia la sua creatura che gioca; non c’è preghiera più alta di una nenia su una culla che dondola nell’ombra. Sono gocce d’azzurro le lagrime e le sofferenze di una donna che, con gioia senza confini, consegna alla luce del mondo il frutto del suo amore. Ma, spesso, l’umanità, la sorte, la vita lacera e distrugge questa dolce poesia del sangue e dell’anima e, allora, dinanzi a un “figlio crocifisso”, il volto delle madri “indossa il cappuccio dei monatti”. E il pianto di una madre umiliata e offesa, diventa il pianto del Cielo, il pianto della Madre celeste, il pianto degli angeli. Unico rifugio alle sovrumane tragedie dei tanti figli che cadono sotto la croce dell’infamia, la pietà di Cristo, la voce dell’Eternità, il sorriso delle Mnemosine che raccolga il grido delle donne smarrite nelle ceneri della solitudine e dell’abbandono, le lucciole della poesia, le perle di ogni nuova poesia, come allodole innocenti verso il sole, dischiudono, allora, paesaggi ancora inesplorati, dove, unica sorella del dolore, è la speranza.

Franco Calabrese

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 59-60.