Riflessione e sentimento. L’io e l’altro nella poesia di Gaetano Trainito

Gaetano Trainito (Gela, 1928) è uno tra i poeti italiani viventi più rappresentativi di questa nostra età. A voler fare una sintesi della sua poesia, diciamo che si rivela poeta a partire dalla silloge Le mani degli angeli (1994). Sebbene non avesse pubblicato altro no ad allora, da sempre era rimasto vicino alla poesia attraverso letture ed esercizi che plasmeranno la sua sensibilità e lo apriranno alla parola poetica, come lo stesso poeta afferma in una breve nota ancora inedita: «Mi piace fare un’altra considerazione: io le poesie le ho scritte sempre, sin da quando sedevo sui banchi del Liceo Classico “Eschilo” di Gela. Nei momenti nei quali i sentimenti tracima- vano e gli interrogativi non trovavano risposte, la maniera primaria di esprimermi era il linguaggio poetico fatto di parole autentiche come l’acqua di roccia mai cercata e ricercata».
Nella raccolta Le mani degli angeli abbiamo già il poeta che ritroviamo nelle altre sillogi successive, da Il viaggio, del 1996, e sempre nello stesso anno, a Filo spinato, libro che raccoglie i primi due. Seguiranno Stelle di gesso (2000) e Lontani approdi (2003), più controllati, anche se mantengono forti i legami con i precedenti (da Il viaggio, ad esempio, sono prese la lirica omonima, con qualche piccola variante, e riproposta in Lontani approdi, e “A Cinzia”, ripubblicata in Stelle di gesso). Lo si nota in questi versi:
Ho visto il sole e tutte le comete. Già vecchio e stanco,
io non ho più sete
di colori e di spazi.
Sono versi che compongono la lirica “Il viaggio”, ripubblicata – abbiamo scritto – in Lontani approdi. Ha elimi- nato i primi due versi («Il mio volo / l’ho fatto» e abbinato il terzo e il quarto che formano il primo, un endecasillabo, apportando qualche ritocco ai tre che seguono. Piccoli accorgimenti, ep- pure dicono il lavoro di lima di Trainito che mira all’essenziale. Ciò che gli preme non è tanto l’effetto da raggiungere, quanto la pregnanza di significato per dire quel che ha dentro e comu- nicarlo, per gridare forte lo scontento e lo stato d’animo, lui che, giunto ad una certa età, non ha niente da sperare («io non ho più sete / di colori e di spazi.»), perché non ha più un futuro davanti a sé e il tempo presente non gli prospetta alcuna aspettative; sente solo il biso- gno di dire sul “visto” e il fatto. Perciò, ora che non si aspetta altro, guarda con occhi sereni la vita e il mondo che lo circonda, riflette e partecipa sentita- mente a sè e agli altri situazioni e coseche la musa ispiratrice gli detta dentro. La poesia di Gaetano Trainito si svolge tutta per ritorni interni o, me- glio, per moti circolari, che coinvolgo- no e delimitano l’io individuale e, al tempo stesso, allargano i punti di vi- sta, sviluppando i temi di sempre con un’ottica diversa, più raccolta, meglio interiorizzata. Moti circolari e ritorni, fatti di chiari cazioni e di sempli ca- zioni, dovute a tagli – come abbiamo notato – volti ad eliminare impurità, a dare maggiore pregnanza alla parola. E questa è il suo punto di partenza, enunciato in “Poetiche”, a cui sin da Le
mani degli angeli tiene fede.
Non ho intrecciato endecasillabi
in strofe arcaiche né ho cantato
con ritmo ilota
i miei lamenti.
Ho solo sofferto nelle brevi sillabe del mio linguaggio il vissuto1.
Trainito ha le idee chiare. Ciò che conta non è tanto la struttura del verso, la rima, o l’effetto che ne può deriva- re, ma ciò che il poeta sa estrinsecare e cogliere dalla parola che si carica di signi cato e di musica, per esprimere l’intimo, la vita, più che nell’essere, nell’essenza, senza esternazioni passi- ve, proprie di chi subisce.
Il poeta virilmente non si ferma in supercie, esprime il sofferto attraverso «brevi sillabe», scava e ri ette sull’umano operare e nella concisione dice tanto; e la parola arriva al cuore dell’uomo senza tanti intermediari, per immagini e riflessioni che acquistano una forte carica e la comunicano.
C’è alla base di questa poesia il vissuto, continua acquisizione di sofferenza, che è la molla di ogni ispirazione e, in particolare, della poesia. Lo ha bene notato Mariella Vigliano che, da attenta lettrice qual è, scrive in un suo saggio che «di là di ogni generi- ca enunciazione, è evidenziato il tema di fondo di questa poesia: il dolore. Senza fronzoli, è la de nizione di una poetica, ma di quella che esclude i ru- mori chiassosi per darsi all’ascolto e per essere vera poesia2». Ed è quanto lo stesso poeta asserisce in “Povertà”: «Con limpida povertà / rivesto i miei pensieri / di parole. / Non ho gemme / né piume di pavone…3». La sua è una poesia asciutta, ma ricca di signi cato e profonda, capace di suscitare emo- zioni e riconoscersi in essa. E, ancora, quasi a chiarimento, scrive nella lirica “La parola”:
È come il cieco
– che vede troppo con l’anima
e trema –
la parola
caduta
sola
sulla carta bianca4.
L’immagine del cieco, cara alla poesia classica (Omero cieco va trascinando a stento i suoi passi in terra greca per interrogare i morti eroi; la stessa immagine è ripresa dal Foscolo per dare risalto alla poesia eternatrice), serve al Nostro, greco anche lui, per caricare di denso significato la parola che ”vede troppo / con l’anima” e che, quasi “caduta” per caso sul foglio, è capace di andare oltre e di fare intrave- dere la realtà foriera spesso di tensioni e di forti contrasti. Questo perché non i rumori e né i suoni lo interessano. Gli è cara la parole atta a tradurre i suoi pensieri, frutto di puntuali osservazioni, di riflessioni profonde e di nobili
sentimenti che interessano tutti, indi- stintamente l’io e l’altro.
La “limpida povertà”, di cui parla il poeta, è una libera scelta, è il preferire la parola autentica, “sola / sulla carta bianca”, alle costruzioni ef mere che dicono per non dire, come l’accostarsi all’acqua di roccia che disseta piutto- sto che alle tante altre che riempiono e lasciano l’arsura. Ed è un grande pregio, questo di Trainito (a buon ragione, Giuliano Manacorda5 parla di “bella virtù”), specie nella nostra età, in cui fattucchieri della parola s’improvvisa- no sperimentatori e vogliono farsi ac- clamare poeti.
Il fondo ri essivo, come l’acqua di roccia, caratterizza la poesia di Traini- to, rivestendo di una patina di saggezza uomini e cose, ricordi puri cati dalle scorie e volti di donne fossilizzati dal tempo. Si nota anche in “Lontani approdi” che dà il titolo alla silloge ci- tata, ma anche nella lirica “Silenzio”, ripubblicata in Filo spinato:
Quando
di pallide ombre
si empie la notte
e canti di cicale
attendono l’alba
il cuore di tutte le cose si ferma. Nell’ora della verità
c’è solo silenzio6.
Nell’ora in cui tutto sembra dormire è il momento propizio per ascoltare se stessi; solo nel silenzio si può sentire viva la verità che è in noi. Trainito lo afferma senza mezzi termini. C’è qui una punta di gnomicità che non gua- sta, anzi apre al dialogo e al confronto. Così è in “Beatitudini” o, ancora, in “Naufragio” («… Confuso / nei colori e nello spazio / in un naufragio / che non ha con ni…»), in cui è evidente l’aspetto metafisico della vita e il bisogno di trovare scampo o di gettare un’àncora di salvezza che possa alleviare il dolore e mettere freno alle difficoltà di ogni giorno.
Trainito, che pure ama la vita e, a modo suo, da poeta la partecipa, pur constatando lo sconforto e le amarezze del vivere, non si chiude in sé, tanto meno si rassegna, perché sa che nessuno ne rimane indenne. Il dolore, come categoria della vita, è il lievito che spinge verso gli altri, e il poeta, novello Prometeo, si fa portatore di umana solidarietà, aprendo alla speranza, che è consapevolezza, accettazione virile, coraggio nell’andare sino in fondo e vivere con dignità.
Elemosinare la vita ed ottenerla
non è prodigio. Miracolo
è
salvare la speranza7.
Questa speranza, miracolo salvavita, è uno dei motivi che, insieme con il dolore, è presente in tutta la produzione poetica del Nostro. In “Homo”, oltre alla sofferenza e alla solitudine («Ferito dalle catene / tra tto il costato / … / e aspetta l’amore»), c’è la speranza nell’amore che tutto fa dimenticare. L’uomo d’oggi che sopporta il male esistenziale aspetta una parola, un gesto, perché possa aprirsi al sorriso e attutire il dolore nel nome dell’umana fratellanza e della solidarietà.
In “Solitudine Pasquale” c’è una cosciente accettazione del dolore, senza lamenti, senza invocazioni di aiuto.
Non ho una madonna che pianga né un calvario
dove tutti possano vedere
il mio dolore.
…Nudo,
solo
ma vero 8 ritorno alla terra in silenzio .
Nel dolore e nella solitudine l’uomo, «oscuro martire di in niti calvari», vede consumare piano piano l’esistenza: la vita va a nire e dà spazio alla morte. Eppure, al dolore sono collegati la vita e la morte. Nella brevissima liri- ca “Nagasaki”, egli, in bilico tra la vita e la morte, non si rende conto di anda- re incontro ad un’immane catastrofe, qualora continui a sganciare bombe nell’indifferenza, quasi a non dare peso all’in nità di morti e alle conseguenze delle irradiazioni, segni dif cilmente cancellabili e portatori, essi stessi, di morte. Continuare a giocare con l’ato- mica, l’essere tra la vita e la morte, signi ca incoscienza, non valutare un pericolo così devastante e annullatore («L’angelo di pietra / di Nagasaki / ha pianto. / Nessuno l’ha visto»). Il poeta, che è un veggente, con un pizzico di ironia, ma con bonomia, sembra qua- si tirare le orecchie a quanti auspicano il ritorno al nucleare, per aprire ad un tema attuale che tiene in allarme, ora più discusso, specie dopo l’avvenuto terremoto/maremoto del Giappone che ha sensibilizzato fortemente l’opinione pubblica mondiale.
Trainito sente il contrasto vita/morte, lo fa suo e lo sviluppa nella maniera più consona ed originale. Si leggano le liriche “Ai miei sogni” («Quando / mi si fermerà il cuore / nessuno / ruberà nuvole / ai miei sogni»), “Correranno cavalli” o, ancora, “In orbita”, tanto per citarne alcune, in cui, di là dell’evento che segna una cesura con il mondo, l’uomo s’immagina talmente libero dai condizionamenti, sicuro di poter vedere le cose nella loro luce più vera e bella, in un candido stupore infantile, come nella lirica “L’idealista”:
Morì bambino
da vecchio seguendo
tra ciuf di nuvole un sogno9.
Questa di Trainito è la presa di coscienza dell’ultima tappa, a cui siamo destinati, motivo portante di Lontani approdi, ma egli è sempre per la vita che prorompe da ogni dove («Agavi sulla mia strada / e profumo di zagara. / Fatemi vedere Dio», – grida -), e si manifesta attraverso le grandi piccole cose che la inghirlandano, per cui, an- che se si snoda tra un caleidoscopico vortice di spine e profumi, rifugge il dolore per aprirsi alla conoscenza e al mistero («Voglio annegare / in una ca- scata di luce / per conoscere Dio»10), per veri care il miracolo, di cui è dono, a costo di pagarla cara, come è in «Meduse», dove il gioco tra la vita e la morte è palesemente scoperto, e vale la pena farlo.
Sul lembo della spiaggia bagnata dal mare
a tempo di culla,
le lievi meduse
sospinte dall’onde, anemoni d’acqua
– fra sassi –
si sono dischiuse .
Le meduse sono metafora della vita; «anemoni d’acqua», pur sapendo di morire, s’aprono alla bellezza, così come l’uomo alla vita. Pochi versi, eppure carichi di signi cato, profondi. Di qui il bisogno del poeta di darsi all’amore e agli affetti, spesso recuperati nel ricordo (“A mio padre”), oppure semplici presenze e numi tutelari, come in “Torno all’antica casa”:
Come ulivi cresciuti
nello stesso pozzo di terra
11
– coi rami e le radici
confuse in sostegno d’amore – m’attendono il padre e la madre12.
L’amore liare, il senso dell’unità della famiglia, sono ben compendiati nella similitudine degli ulivi che allude alla solida resistenza al tempo, oltre che alla pace, mentre l’immagine dei rami e delle radici costituisce un tutt’uno «in sostegno d’amore», l’amore verso i propri cari e la terra che lo lega a sé.
Il poeta coglie in sintesi ampie tema- tiche o problemi, di cui tanto ci sareb- be da dire, perché, da buon quali ca- tore (secondo la lologia sperimentale di Davide Nardoni, poeta è chi quali – ca), anche indirettamente, non rinuncia all’impegno, fatto di denuncia per il degrado ambientale e il disagio socia- le. Si legga “Gela 1960”, dove il poeta grida la sua amarezza per lo scempio della città («L’immensa nube del pe- trolio / ha sciolto già / no all’orizzon- te / il rosso del tramonto. / Mi hanno ucciso la patria»), o “Spiagge del sud” in cui, nel persistere dell’amarezza, scrive: «sono rimasto solo»:
Hanno ucciso
le lepri che fuggivano

hanno fermato
le sirene
che venivano a notte
sottola luna tremula
in mille voci di conchiglia… ed io
sono rimasto solo13.
Non resta che constatare la triste miseria in cui il Sud è stato ridotto da una miope classe politica che permet- te ogni abuso. Il poeta rimane solo e inascoltato; nessuno fa niente per salvare il salvabile. Cosa gli resta, allora, se non ripiegarsi su se stesso e darsi al ricordo?
Chi non conobbe
Gela contadina

mai ne conoscerà
l’anima oscura
nascosta dentro un ciuffo di cotone, …14
L’uomo, ormai spaesato, non trova gli agganci nella realtà e con il ricor- do si ricrea la Gela d’una volta, fatta di miseria, seppure sopportata con dignità, ma vera.
Le immagini sono appena abbozzate, ma la luce che le irradia, anche se al tramonto, è luminosa, tale da farle rimbalzare e presentarle nella loro essenza, velate da una dignitosa nostalgia, non rimpianto, perché il poeta sa che a niente vale, e la vita, nonostante tutto, continua.
La nostalgia, il dolore del ritorno alla vita e alle cose d’un tempo, alla natura a misura d’uomo, lontana dalla plastica e da ogni forma d’inquinamento («fatta di sole, mare, / e di tuguri»), questa sì, è sentita e riproposta con accenti di liale attaccamento, perché è la terra dei padri. E la parola, ancora una volta, caduta purificata sul foglio, riesce a far trasalire e trascina, accompagnati da un sottofondo di chopiniana musicalità, reso bene dal verso breve che caratterizza la lirica trainitiana.
Non credo che nel panorama della poesia contemporanea ci siano poeti che, come il Nostro, sappiano coglie- re con tanta abilità gli stati d’animo, le trepidazioni proprie d’un sentimento, qualsiasi esso sia, tali da coinvolgere e lasciare indelebile traccia. Il lettore è portato a calarsi nel suo intimo e solo in quella sfera è spinto a riconsiderare la sua umanità, il suo io proteso verso gli altri e la vita, la sua limitatezza e l’aspirazione all’in nito. Per tutto ciò, il fondo ri essivo di questa poesia non
Saggi 12
ha riscontri, e non ha senso richiamarsi a questo o quel poeta. Senza dubbio, possono esserci luoghi comuni, ed è normale che ci siano, anche se i veri poeti non li presentano mai allo stesso modo, e ciò fa parte dell’originalità che in Trainito sta nell’attenzione che rivolge a tutto ciò che attiene all’esistenza e al modo di esprimerla, fatta di essenzialità, di equilibrio, di senti- mento, e di adeguato uso delle gure retoriche (la similitudine, l’anafora, l’analogia, l’anastrofe, ecc.) che mol- to danno ad una poesia siffatta, tutta rivolta all’economia della parola ed a raggiungere il massimo effetto. Va detto pure che questa poesia non va confusa con il frammentismo, né, altresì, con l’astrattismo, perché essa parla un linguaggio aperto alla sensibilità del lettore, assuefatto e coinvolto in un’avventura dello spirito.
Ritornando ai temi di questa poesia, dal motivo degli affetti familiari a quello dell’attaccamento alla terra d’origine, dall’amore a quello della natura, il passo è breve. È stato già fatto notare, ma piccole sfumature li presentano nella loro luce diversificata che si riflette sull’uomo. La natura ora è deturpata, come in “Gela 1960” o “Spiagge del sud”, ora è umanizzata dal lavoro dell’uomo (“Rose”), e appare solare e bella, incontaminata, come in “Villa Massimiano”, in cui « ori di cactus / aprono isole di sole / e sui cocci di pomice / la lucertola fugge / verso il verde», e desiderata (“Floppy”, «Fatemi fare / – senza inginocchiarmi – / quattro passi, / su una terra reale /…», per il semplice bisogno di vivere, magari per un po’, in diretto contatto con la natura reale, di là di ogni travisamento informatico. Il poeta preferisce rifugiarsi in essa e sentirne i palpiti,
anche le negatività che possono esserci. Sono parte integrante della vita con tutta la consapevolezza della sofferenza a cui va incontro.
L’amore è il sentimento forte che fa sprofondare il poeta in un piacevole baratro:
Affondo in te
per amarti
e gli occhi tuoi socchiusi s’aggrappano al buio
per soffrire.
Un baratro
mi si apre nel petto
e sprofondo15
.
Sono i versi di “Per amarti”. Si noti l’analogia, “un baratro”, che dà un senso di smisuratezza a quest’amore, e l’immagine della donna nella sua dolce sofferenza. Nel giro di otto brevi versi, Gaetano Trainito esprime tutta la gioia di vivere, che è anche un eterno morire, per continuare e tramandare l’umana esistenza. Così è in “Luce degli occhi” o in “Soffrire d’amore”, dove, al solo sentore di rimanere solo, dichiara la sua tristezza.
Il più delle volte, però, la donna vive nel ricordo, e l’amore allora non è che intima sofferenza (“Spaventapasseri”, “Incontro”), se si considera che con lei è passato il tempo più bello, ormai, come in «Ore», considerato «… lago d’amore / coperto di nebbia», mentre «le ore / tessute in silenzio / si strappa- no / sotto le mani»16. Di qui l’abbando- narsi nel ricordo, ma la donna è ormai lontana ed allora il poeta è portato a ripiegarsi su se stesso e a illudersi. Si leggano i versi di “Le cose che ama- vo”, o de “Le donne vestite di nero”, in cui, insieme con le donne, egli grida: «ed io sono rimasto bambino17», mentre, quasi in proiezione, si pro la l’immagine della Sicilia cara a Trainito, che ricorda per comunanza di sentire il greco siracusano Teocrito.
O dolce canto nenia
lamento d’amore sospirato
sul metallico fruscio del pizzicato scacciator di pensieri18.
È la lirica “L’aratro”, dove il ricor- do va a ripescare uomini e cose che rivivono in una luce diafana e vera. La poesia si fa canto aperto e musica ammaliante.
Stelle di gesso e Lontani approdi sono le ultime sillogi, in ordine di tempo, che, pur tenendo fede alla poetica che ha caratterizzato finora la poesia del Nostro, presentano qualche novità dovuta ad una particolare disposizione dell’animo che privilegia il vissuto come ricordo in un più insistente piegarsi su di sé, dando più spazio alla nativa propensione alla riflessione. Il poeta rivolge il suo sguardo bona- rio verso le cose della vita che insieme con essa sfumano e dicono addio, senza che questo comporti rinuncia, perché rimane ancorato alla realtà e la vive, nonostante l’inesorabile volgere del tempo e l’enigma del futuro. C’è in queste liriche un più manifesto bisogno di scrutare l’umana esistenza, di voler comprendere il noumeno, il tendere meta sico che è in noi, vivo e pressante, anche se spesso non è oggetto di dovuta attenzione.
Stelle di gesso
sulla lavagna cancellate
con lo straccio. Suona la campana. La lezione è nita19.
La lirica è Stelle di gesso, che dà il
titolo al libro citato. A volercela spiegare, diciamo che la vita, fatta di illusioni, sogni, aspettative, è, per il poeta, nita, ed ora entra nella fase in cui vol- ge al tramonto, nella vecchiezza, dove tutto è visto con distacco e come se le cose non gli appartenessero più. Il poeta è più contemplativo, tende maggiormente alla poesia occasionale (“Cappelle votive”, “Sicilia”) e al ricordo. La donna è ancora presente, ma la sua ormai è una presenza/assenza, come in “Marsala”, “A Cinzia” o in “Foschie”:
Ci siamo persi
in questo cielo grigio tra l’umide foschie …
Addio fantasma, ombra
del recente passato. Eppure
– no a ieri –
io t’ho amato20.
Il verso andante e sicuro richiama da vicino un certo modo di versi ca- re di Cardarelli, ma è una condizione propria della lirica moderna. A ciò è di aiuto l’aggettivazione, che in Trainito è scarna, per la verità, e che qui («sul stanco e lento», «Vago il pensiero / povero e svogliato») concorre parec- chio a ricreare un’atmosfera di sereno abbandono, una calma che altre volte non si addirebbe. Il poeta è portato a rivivere nella donna la bellezza, la stitica bellezza che nel ricordo gli è di conforto.
Rosa (“Rosa”, “A Rosa”) è una dol- ce creatura odorosa di alghe che, come Beate, gli dà sollievo e linfa.
Io
te cerco

– con la bianca schiuma – i miei pensieri
come del ni
a parlarti d’amore21.
Saggi 14
Questa lirica non ha niente da in- vidiare a tanta altra. Nel tono e nelle immagini, nella struttura compositiva, il poeta di Gela ssa in versi limpidissimi una bellezza che gli è lontana, eppure è vivida e presente, ricreata dalla poesia e, ad onta del tempo, continuerà ad essere ammirata.
La silloge Lontani approdi, rispetto a quella precedente, è più scarni cata, risente del tempo e delle cose che furono, e il poeta rivive tutto nel ricordo con distacco ma sempre con l’attenzione che gli ha riservato nelle altre rac- colte. È come se soppesasse di più la parola che, denudata da ogni elemento decorativo, esprime l’essenziale, toccando da vicino l’uomo nel cuore e nella mente.
Il poeta osserva e lascia spazio al silenzio: nella consapevolezza non c’è bisogno di parole, più bene co è l’ascolto. Si legga “Solo con Te” («Solo con Te, / Signore, / reciterò la preghiera / senza parole22») che è una preghiera composta, dove non viene meno la ducia, sostenuta dall’attesa. Ma tutte le liriche di questa raccolta danno spazio all’io che, come in una confessione, si apre per dare libera uscita ai ricordi che affollano l’esi- stenza e sono motivo di ri essione che spesso offre spunti gnomici, frutto dell’esperienza e degli anni.
I desideri e le sofferenze dei primi passi riaf orano
nel sopore della vecchiaia in nebulose parvenze23.
Altrove i ricordi, queste “parvenze” che sono le tracce del passato, diventa- no più sfumati, come in “Dissolvenze”, dove il poeta metaforicamente ricorre all’immagine dell’isola «di volti e di parole / sempre più vuota» e mantiene
la calma per quella consapevolezza di cui abbiamo scritto e che in “Senilità” è molto palese.
Un passato
– nero di grafiti –
in un futuro spento. Un lento trascinarsi tra le pietre e le ombre fuori dell’ore24.
È un guardare in faccia la realtà, senza chiudersi in sé e la canta. Nell’approssimarsi del tramonto, a niente vale illudersi, ed è meglio chiamare le cose col proprio nome. La parola è levigata, come i sassi dal tempo (“Gli inutili soli”), e l’effetto è ammirevole, come il ritmo che è gradito all’orecchio e al cuore. Segno della vitalità di questa poesia, che è capace di fare accettare e non si chiude in sé e le canta le umane avversità e di s dare il tempo.

Salvatore Vecchio

1 1 G. Trainito, Le mani degli angeli, Ragusa, Ci. Di. Bi ed., 1994, pag. 59; poi in Filo spinato, Torino, SEI, pag. 141.
2 M. Vigliano, La poesia di Gaetano Trainito, in “Spiragli”, Anno IX, 1-2, 1997, pag. 29.
3 G. Trainito, Stelle di gesso, Padova, Il Poligrafo, 2000, pag. 71.
4 Ivi, pag. 70.
5 G. Manacorda, “Testimonianze critiche”, in Stelle di Gesso, cit., pag. 90.
6 G. Trainito, Filo spinato, cit., pag. 87.
7 Ivi, pag. 131.
8 Ivi, pagg. 63-64.
9 Ivi, pag. 111.
10 Ivi, pagg. 59 e 61.
11 Ivi, pag. 163.
12 Ivi, pag. 5.
13 Ivi, pagg. 3-4 e 21-22.
14 Ivi, pag. 103.
15 Ivi, pag. 17.
16 Ivi, pag. 49.
17 Ivi, pagg. 11 e 73.
18 Ivi, pag, 119.
19 G. Trainito, Stelle di gesso, cit. pag. 19.
20 Ivi, pag. 60.
21 Ivi, pag. 38.
22 G. Trainito, Lontani approdi, Padova, Il Poligrafo, 2003, pag. 48.
23 Ivi, pag. 58.
24 Ivi, pag. 35. 

 

 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 7-14.




Ionesco e la critica

 Ionesco e la critica 

Ionesco, agli inizi della sua carriera di drammaturgo, era rimasto disorientato e abbastanza risentito per un certo modo di fare critica. Non aveva tutti i torti, perché spesso tutt’altro si fa che criticare un’opera o, nell’insieme, un autore. Criticare, checché ne dicano i professori, è sapere ascoltare con umiltà e mettersi nelle condizioni di sentire ciò che l’autore dice attraverso la sua opera. Così facendo, se si troverà dinanzi a un vero interlocutore, il critico – io direi il lettore – ne sarà affascinato e ne gusterà l’arte, perché quello gli parlerà direttamente al cuore e lo esalterà nell’anima e nel corpo. Al contrario, si troverà come dinanzi a un muto, mancherà ogni tipo di allusione e vano sarà il tentativo di stabilire un qualsiasi dialogo. 

L’autore, capace di tenere vincolato a sé il fruitore, e di esaltarlo, è quello che diciamo vero artista, che – a sua volta – opera nella piena libertà, lavorando la materia grezza della sua fantasia e dei suoi sogni, avendo cura soltanto del suo lavoro. Il vero artista non è affatto come i politici che, già fin dall’inizio, devono essere inquadrati in questo o in quel partito e in quella corrente; egli è veramente libero e opera incurante di ogni movimento o 

corrente, lasciando, appunto, che siano i critici a interessarsene e a perdersi poi in un labirinto di parole vuote. Venditori di fumo, piuttosto che mediatori d’arte tra l’autore e il suo pubblico. 

Ciò che è capitato inizialmente a Ionesco è stata un’incomprensione tale da far gridare allo scandalo. I critici, più disorientati che mai, pensarono all’arrivo di una nuova barbarie, e netto fu il loro rifiuto nei confronti di quello che poi verrà detto «nuovo teatro». E gliene dissero di tutti i colori. Lo presero per un provocatore (in senso negativo – s’intende -, perché positivamente a tutt’altro porta l’opera di Ionesco), per un dilettante e un imbroglione. Ma non mancarono quelli che lo apprezzarono e lo incoraggiarono fin dalla prima rappresentazione di La cantatrice chauve, riconoscendolo come drammaturgo. E André Breton, per fare un nome, andava dicendo e scrivendo che questo tipo di teatro era proprio quello che mancava al surrealismo che già aveva avuto una poesia e una pittura surrealiste, ma non un teatro (1). 

Noi non percorreremo tutta la bibliografia critica, ché sarebbe troppo lungo: ci limiteremo a citare alcuni saMi che riteniamo abbiano contribuito enormemente a far conoscere e a far comprendere l’uomo e l’artista Ionesco. 

Già nel 1954 Jacques Lemarchand. nella sua prefazione al l° volume del Thédtre d’Eugene Ionesco. dopo essere stato dei primi più accaniti sostenitori della Cantatrice chauve. dice di essere attratto da questo genere di teatro che diverte “perché i suoi personaggi assomigliano a noi indistintamente, agli uomini importanti e a me, – di profilo, – ed è proprio il nostro profilo che egli lancia con brio in queste avventure impreviste, imprevedibili in apparenza. e che spesso riconosciamo addirittura più vere di tutte quelle che ci sono potute capitare». E, avvicinandosi alla conclusione, scrive: «Il teatro di Eugenio Ionesco è sicuramente il più strano e il più spontaneo che ci abbia rivelato il nostro dopoguerra… Esso rifiuta la leziosità drammatica. e con tanta naturalezza che non c’è nemmeno verso di scorgere una “provocazione” – ciò che accomoderebbe tutto – in questo rifiuto». 

Lemarchand individua fin dalle prime opere di Ionesco qual è la motivazione profonda del suo teatro, la quale non è certo quella di fare arte per arte, o di rimpiazzare col suo un certo modo di fare teatro. E quello che meravigliò, e stordì i primi spettatori e i critici, fu proprio la mancanza di un riferimento concreto al reale, mentre, a guardarci bene, era la realtà umana nella sua essenza che veniva loro imposta. Lemarchand intuì lo sforzo di Ionesco di voler cogliere nelle sue sfaccettature l’uomo, presentandolo così come egli è, e non nelle sue apparenze fittizie. 

Ionesco porta sulle scene i mali della società di cui l’uomo è lo specchio fedele (la rozza banalità dilagante, il conformismo, la solitudine, la violenza) e in cui si dibatte per trovare una sua identità e tutelarla dalle quotidiane oppressioni della vita e dalle invadenze della materialità che tende a uniformarlo e a renderlo un oggetto. 

È un discorso nuovo, e come tale, ci vorrà tempo prima che venga accettato. Ora, magari, siamo abituati a questo genere di teatro, ma negli anni Cinquanta fu considerato strano, perché diverso in ogni aspetto dai precedenti, e persino dissacrante di una consuetudine teatrale universalmente accettata. Dalla messa in scena dei Sei personaggi in cerca d’autore a quella della Cantatrice chauve erano passati trent’anni e molte cose erano cambiate. Se dal punto di vista prettamente scenico Pirandello aveva trovato soluzioni che verranno attuate e fatte proprie dal «nuovo teatro», e da quello della rappresentazione aveva dato risalto ai personaggi con tutte le loro problematiche. Ionesco opera sul linguaggio, disarticolandolo, e dà grande rilievo agli oggetti. facendo tutto procedere in maniera illogica e priva di un significato apparente. Da qui l’imbarazzo e la difficoltà di capire il testo, da qui anche la taccia di assurdo che questo teatro inizialmente dovette meritarsi. 

Il teatro di Ionesco non solo rompe i ponti con la tradizione, ma pretende che la disposizione dello spettatore sia di uno che rinunci al divertimento fine a se stesso. Insomma, il teatro non è più un posto ove si sciorinano soltanto i panni altrui e la partecipazione è disinteressata, come se non si fosse minimamente toccati dal dramma proposto: esso è divenuto ormai lo specchio della nostra esistenza che costringe a vedere quello che non si vorrebbe, visto che si stenta a riconoscersi in quello che realmente si è. Ma questo ha comportato il non volerlo accettare e ha fatto sì che venisse considerato come assurdo, mentre assurdo non è, se si tiene conto della precarietà della vita odierna. Certo, può sembrare contraddittorio, come lo stesso titolo della Cantatrice chauve, non notando sulla scena una cantante, e tantomeno calva. Lo stesso potremmo dire dell’uomo di oggi che è nella solitudine più nera, nonostante sia più che mai a contatto col suo prossimo e abbia una vita abbastanza frenetica. Egli vive di apparenze e si mostra quello che non è: finge e s’immedesima bene nella sua finzione che a lungo andare lo tradisce, e scoperto, si difende a spada tratta e insiste nella sua testardaggine. Come non si accetta nella vita. non si riconosce nelle rappresentazioni del «nuovo teatro» che, rifuggendo da ogni tipo di sofisticheria drammatica, ce lo presenta nella sua misera nudità. 

Jacques Lemarchand, senza niente indulgere all’amico, riconosce la grande validità della sua opera, e questo suo giudizio troverà – come avremo modo di constatare – riscontro in tutto il teatro ioneschiano. 

Gabriel Marcel è tra quelli che criticheranno negativamente le pièces di Ionesco, specialmente le prime. In un suo saggio apparso nel 1958, La crise du thédtTe et le crepuscule de l’humanisme, considerato che i nuovi drammaturghi 

sono stranieri trapiantati in Francia, parla di « sradicati di cui si potrebbe dire che il pensiero si muove in una specie di terra di nessuno. Un Bechett, un Adamov, un Ionesco, in realtà, vivono ai margini della vita nazionale, quale essa sia, e questo fenomeno di non appartenenza è legato a certi caratteri distintivi della loro opera. Sono dei nuovi arrivati, e con ciò bisogna intendere, non diciamo solamente quello che potrebbe risultare ingannevole, dei diseredati, ma degli uomini che rifiutano ogni eredità… Le opere di questa avanguardia sono in linea di massima espressioni rivelatrici di quella che chiamo qualche volta la coscienza sogghignante». 

L’impressione che si ha a leggere il saggio di G. Marcel è quella di uno che non solo è insofferente a ogni novità, chiuso com’è nell’orto tradizionale, ma che non riconosce all’arte una patente internazionale, facendo differenza e valutando le opere in rapporto al luogo di origine dei singoli autori. Questo è grave in una Francia che predicò la cultura come mezzo di elevazione dei popoli. Vero è che, negli anni a cui ci riferiamo, il nazionalismo era più che mai acceso (lo è tuttora, forse un po’ meno), ma nessuno poteva pensare che si sarebbe arrivati al punto di discriminare autori validissimi che stavano in quel periodo vivificando il teatro. sforzandosi di trovare vie nuove e una nuova credibilità, solo perché stranieri d’origine. 

Gli autori nuovi stavano portando avanti un discorso di rottura con la tradizione, e in questo solo trovavano il loro punto in comune, perché ognuno di essi poi avrebbe sviluppato tematiche proprie; ciò non deve essere considerato motivo di debolezza. bensì pregio e segno di vitalità. 

L’avanguardia degli anni Cinquanta non fu una moda, ma una scelta che in maniera diversa fu portata sino in fondo. Le mode non durano e nel giro di una o due stagioni diventano sorpassate. Le scelte, se sono valide, trovano conferma e si consolidano nel tempo, com’è avvenuto col teatro di Bechett e di altri, Ionesco compreso. i quali – ciascuno a suo modo s’adopereranno a portare sulle scene l’uomo nella sua realtà più profonda, più vera e niente affatto assurda. dando così il via non al “crepuscolo” ma al consolidarsi di un nuovo umanesimo. 

Ionesco non deride l’uomo, ciò che a primo acchito potrebbe sembrare, anche se lo presenta dimesso, trasandato, e apparentemente fuori della normalità, e non fa ironia; se presenta così l’uomo, è perché vuole riportarlo entro i confini dell’umano, da cui si è allontanato. Nuovo don Chisciotte contro i mulini a vento? Forse; intanto, il teatro di Ionesco, dalla prima all’ultima pièce, testimonia la volontà del suo autore di superare l’angusta realtà con una ricerca. condotta in prima persona, tesa a ridare un valore alla vita, tormentata com’è dai mali che s’accompagnano al progresso. 

G. Marcel difende a spada tratta il teatro tradizionale. «Vediamo qui verificarsi il ritorno a una specie di stato bruto. […] uno stato decaduto. […] Il teatro di cui si parla è un prodotto di disassimilazione». E, per dare credito alla sua affermazione, cita un saggio di Ionesco, Espérience du théatre, pubblicato nel febbraio del 1958, dove il drammaturgo, nel vivo della polemica, si lascia prendere la mano da una critica altrettanto pungente contro il teatro tradizionale, non risparmiando nessuno, tenendo conto solo dell’idea che si era fatta. secondo cui, «il teatro non è il linguaggio delle idee», e la sua riuscita consiste nel dare grande risalto agli effetti: «Spingere il teatro al di là di questa zona intermediaria che non è né teatro né letteratura, è restituirlo alla sua funzione, ai suoi confini naturali». E fa il nome di autori più o meno lontani nel tempo. Noi vorremmo solo ricordare che ogni autore vive e risente dello spirito della sua età, per cui, chi viene dopo è sempre avvantaggiato dalla ricerca altrui. A Pirandello (a parte che apporti positivi sono anche negli altri autori), pur accusato di essere troppo discorsivo, possiamo negare il merito di aver rivoluzionato l’arte teatrale? La stessa avanguardia. il «théàtre nouveau» in genere, Ionesco, non gli devono veramente molto? Pirandello, con la prima dei Sei personaggi in cerca d’autore, ebbe la stessa delusione che subirà trent’anni dopo Ionesco con La cantatrice chauve. Poche le presenze, moltissime le reazioni del pubblico e della critica. 

Il nuovo incontra difficoltà a essere accolto; è oggetto di incomprensioni e di tante riserve. come quelle di G. Marcel, che è portato a chiedersi, a un certo punto, perché sta accordando tanto spazio a questo teatro: non si spiega perché tanti spettatori cominciano a seguirlo. E trova la spiegazione nella stanchezza e nella loro capacità di sopportazione, così come avviene in certe riunioni che si protraggono fino a notte inoltrata: «In realtà, non si ha più niente da dire, non se ne può più, ma non si ha neanche il coraggio di separarsi, di fare lo sforzo necessario per uscire, per andare a coricarsi, e allora, si comincia a fare e a dire stupidaggini». Un modo come un altro per uscire da una rigida presa di posizione come questa, in cui il critico si ostina a non volere riconoscere una pur minima validità a un teatro che, nuovo in ogni suo aspetto, ha tutte le qualità che ci vogliono per imporsi e per farsi amare. 

Il teatro di Ionesco, che non ha niente di drammatico, si ascrive nell’ambito della farsa dove il comico più che muovere al riso disorienta perché non si riesce a capire bene l’obiettivo che l’autore vuole raggiungere. Tutto questo fa sì che lo spettatore rimanga fino all’ultimo come sospeso tra la realtà e il sogno, e solo quando tutta la matassa creativa si dipanerà dinanzi ai suoi occhi, allora vi riconoscerà la cruda realtà, spoglia da ogni conformismo, e avrà maggiore consapevolezza del suo io, quell’io che viene meglio preso in considerazione, e non ridicolizzato, come sembra a Marcel, come se Ionesco, lui tanto amante della vita, avesse fatto propria la filosofia del non-essere. 

Tra il giugno e il luglio dello stesso 1958, l’ “Observer” ospitò un acceso dibattito sull’opera di Ionesco. Il punto di partenza di questo dibattito (Ionesco interverrà con due scritti che avremo modo di ricordare più avanti) fu dato da un articolo di Kenneth Tynan dal titolo: «Ionesco: uomo del destino?», dettato dall’ammirazione per il drammaturgo delle Chaises, che proprio in quei giorni venivano rappresentate al Royal Court Theatre di Londra, e dalla meraviglia che il successo andava oltre le aspettative. Quell’ammirazione, da una parte, e questa meraviglia, dall’altra, spingono la Tynan a chiedersi se non ci si trovi proprio dinanzi a un «messia», e dove voglia arrivare l’autore con la sua «evasione dal realismo». 

L’incomunicabilità che è ne Les chaises può non essere condivisa («Questo mondo non è il mio, ma riconosco si tratti di una visione completamente legittima, presentata con molto equilibrio immaginativo e audacia verbale»), ma – sempre secondo K. Tynan – «il pericolo comincia quando lo si presenta come esemplare, come il solo accesso possibile verso il teatro dell’avvenire, – questo lugubre mondo da dove saranno escluse per sempre le eresie umaniste della fede nella logica e della fede nell’uomo». 

Il teatro di Ionesco, allora, più che ora, non poteva non disorientare, perché in queste prime opere effettivamente non si intravvede alcuno spiraglio; è come se ci venissero presentate delle allucinazioni (tra l’altro poco comprensibili e sul filo di un giuoco verbale molto acceso, che alla Tynan sembrano interessare solo Ionesco), le quali costituiscono la premessa di un lungo straziante itinerario 

destinato a essere ulteriormente proseguito. E ciò che apparentemente sembrava interessare soltanto l’autore, a poco a poco riusciva a coinvolgere quanti gli si accostavano, perché in quel fuori del normale, o del reale, c’era una verità latente e troppo inquietante. 

Fa, comunque, piacere notare che già in quegli anni le pièces di Ionesco varcarono i confini e cominciavano a essere conosciute e rappresentate nei teatri europei. Il 1958 è stata la volta di Londra, ma anche dell’Italia, dove, precisamente a Genova, Paolo Poli rappresentò La cantatrice calva per la regia di Aldo Trionfo, e ad Atene. Ciò significò l’interesse crescente verso quest’autore che, partendo da piccoli teatri parigini, si impose all’attenzione di un pubblico sempre più vasto, conquistando i maggiori teatri del mondo. 

Gilles Sandier, scrivendo di Ionesco nel libro Thédtre et combat, del 1970, a un certo punto, riferendosi alle opere successive del drammaturgo, dà risalto alla retorica e al meccanismo allegorico che le caratterizza e nota una recessione, come se Ionesco, preso dall’idea ossessionante della morte, rinnegasse gli elementi costitutivi dell’antiteatro e, in poche parole, ciò su cui poggiava la sua originalità che consisteva in «una concezione tragica del linguaggio, impotente a esprimere sentimenti e pensieri», e continua: «L’universo favoloso e sinistro che la sua comicità di una volta ci rivelava nel quotidiano ha ceduto il posto a un fantastico di scarso valore e senza pericolo». Ionesco, insomma, stando a quanto afferma Sandier, nella nuova fase del suo teatro dice cose già dette, servendosi, però, di un linguaggio più esplicito, cioè, più letterario e meno poetico. 

Abbiamo scritto che Ionesco disorienta. Così ci troviamo dinanzi a una parte della critica che, dimostratasi indifferente e del tutto ingenerosa verso le opere scritte intorno ai primi anni Cinquanta, cominciò a interessarsi di lui da Rhinocéros in poi, mentre, partendo sempre da quest’opera, un’altra parte di essa (noi abbiamo citato Sandier) ritiene, all’opposto, che Ionesco si sia discostato dal suo modo iniziale di fare teatro, facendo registrare in negativo la perdita della spontaneità che era alla base della sua originalità. A scanso di equivoci, va detto che non c’è stato alcun cedimento da parte di Ionesco. Se è vero che inizialmente Ionesco fu spinto dalla necessità di ridare vigore al teatro, è pure vero che la sua non era soltanto ricerca di nuove formule drammatiche, bensì ricerca spirituale, dibattito aperto soprattutto con se stesso prima che con gli altri: una ricerca che gli permetteva di chiarirsi alcune verità elementari e, al tempo stesso, di servirsi d’un linguaggio più semplice e adeguato a esprimere le conquiste del suo animo. Gli stessi gesti, il moltiplicarsi degli oggetti, le allusioni, saranno ancora presenti e sempre con una funzione di grande importanza per la comprensione; nelle pièces successive, magari, non saranno veri e propri oggetti (come nel Roi se meurt le crepe nelle pareti o le notizie diverse e allarmanti che sopraggiungono dall’inesistente regno, o il proliferarsi delle coma in Rhinicérosl. ma siamo nell’ambito di un equivalente che dice lo stesso il degrado dell’uomo e del mondo odierni. Nonostante questo, a cominciare da Macbett, Ionesco riprenderà il tono parodistico delle prime pièces. 

La tematica è sempre la stessa: l’incomunicabilità, la solitudine, il conformismo, la sete di potere che getta nell’imprevedibile e spinge verso la morte e, ancora, la precarietà della vita e il senso della morte, che annientano ogni illusione; temi che, seguendo uno sviluppo circolare, acquistano via via sfumature diverse. ma che riportano al drammaturgo delle prime opere. Segno di estrema coerenza morale oltre che artistica, grazie a cui Ionesco è, a buon diritto, uno dei massimi esponenti della drammaturgia contemporanea.

Salvatore Vecchio

(1) «Voilà ce que nous aurions voulu faire au théàtre. Nous avons eu une poésie surréaliste, une peinture surréaliste, mais nous n’avons pas eu un théàtre surréaliste, et c’était celui-là qu’il nous fallait».

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 17-24.

 




 Sàito narratore 

Sono passati più di trenta anni da quando lessi per la prima volta e scoprii Nello Sàito narratore. L’occasione mi fu data dall’attribuzione dei premi Viareggio 1970. Quell’anno vennero premiati Pietro Citati per la saggistica, Nelo Risi per la poesia e Nello Sàito per la narrativa. Una triade che apparve fin d’allora ben scelta, accomunata com’era, non tanto dal bisogno di dire quanto di contribuire con la scrittura a migliorare la società. 

Nello Sàito, che con Dentro e fuori era al suo terzo romanzo, aveva già evidenziato questa sua attitudine in Maria e i soldati (1948) e ne Gli avventurosi siciliani (1955), e così continuerà negli scritti che seguirono, nella narrativa, nel teatro e in quelli di letteratura o di altro, perché Sàito è un agguerrito germanista oltre che un giornalista che sa il fatto suo. 

Da buon siciliano qual è (il padre di Licata, in provincia di Agrigento, si era trasferito con la famigliola a Roma per motivi di lavoro), senza niente elemosinare, s’è fatto strada da solo, giorno dopo giorno, fidando nella sua caparbietà e nell’intelligenza, in anni del secondo dopoguerra quando era facile aggrapparsi al primo carrozzone e ottenere vantaggi. Caparbio, Sàito, nella sua coerenza d’uomo e di scrittore, anticonformista che di primo acchito può sembrare reazionario, anarchico, mentre invece è animato da sincere convinzioni e da un bisogno forte di andare contro il malcostume dilagante e le opinioni comuni che fossilizzano e rendono incapaci di agire positivamente e per il bene della collettività. 

È un discorso, questo, che va contro il tornaconto e che dovrebbe caratterizzare spesso l’operato di quanti sono chiamati a venire incontro alla gente ed invece, incuranti dei danni che arrecano, a tutto pensano fuorché a se stessi, eludendo per i più i bisogni elementari che poi sono sacrosanti diritti. Un esempio? Nel momento in cui si parla di ponte sullo Stretto, a che serve un ponte se nell’isola mancano le infrastrutture da garantire un vivere sociale più umano? Mentre tanti rimangono indifferenti, come se la cosa non interessasse, Sàito è una voce ferma nel panorama dell’ intellettuali tà siciliana che da subito si è alzata contro questo progetto mostruoso, fatto cadere come una spada di Dàmocle sulla testa di tutti senza interpellare nessuno, come se il popolo non esistesse e come se tutto fosse rose e fiori, dimentichi della gente che li vive, delle conseguenze che esso può avere sull’ambiente, in un punto geografico da sempre ballerino. 

La Sicilia ha bisogno di ben altro per concretare le sue possibilità, non di un ponte; come nel passato, essa deve ritornare ad essere ponte tra le genti, per la sua produttività, per la cultura, per i suoi uomini migliori che questo vogliono. Essa è già un ponte, così com’ è un centro; abbisogna solo delle condizioni per realizzarsi veramente, e basta con la deleteria pubblicità che la oscura nella sua immagine vera e nell’umanità che è nella sua gente! Ma dove sono i tanti altri a far da coro a questa voce? 

La sicilianità di Nello Sàito non è nel clamore, non nei colpi di testa e, tanto meno, nella Sicilia a cui non pochi scrittori hanno abituato a guardare, piuttosto pronti a cogliere consensi che a darne un’immagine veritiera. Egli ama la Sicilia e se la porta nel cuore con l’orgoglio del siciliano attaccato alla terra che gli è propria. Perciò ne parla col massimo rispetto, nel timore di poterla in qualche 

modo appannare, e ne evidenzia pregi e difetti, come è bene che sia. Sicché, tratti della Sicilia o dei Siciliani, è sempre pronto a cogliere il positivo e a sposare la causa giusta. Perché, a differenza di Sciascia, di Camilleri o dei tanti loro epigoni, Nello Sàito scrittore esalta la vita, gli uomini e i paesaggi, non la mafiosità e il male, dovunque imperanti (non solo in Sicilia) che distolgono dalla realtà e danno un’ immagine negativa. 

Il siciliano di Sàito (si tengano presenti Mauro di Maria e i soldati o Enrico di Una voce, tanto per citarne alcuni) non è mafioso, bensì uomo ricco di sensibilità, capace di agire e di reagire anche bellamente, e di uscire da situazioni incresciose con dignità, quasi col sorriso sulle labbra. Così anche il lettore è portato ad amare la Sicilia e la vuole conoscere per come è, con i problemi che la travagli ano e le caratteristiche proprie della sua gente, in particolare una che, come scrive H. Koenigsberger, tra tutte le è preminente: la sua umanità1. 

Maria e i soldati, pubblicato nel 1948, vincitore del Premio Vendemmia nello stesso anno, venne ripresentato al pubblico dei lettori nel 1970, conservando intatto quel clima di tensioni e di speranze che fu proprio di quanti vissero la guerra e la resistenza. Tanti scrittori riportarono sulla pagina la loro esperienza di uomini e di partigiani, spinti – come rilevava fin da allora Arnoldo Bocelli – «dall’urgere stesso di quella realtà, della sostanza umana e sanguigna di quella cronaca», altri preferirono tradurre quelle tensioni per vederci chiaro e «risalire dalla irrazionalità di un mondo di sensazione alla razionalità del pensiero, della coscienza2». Tra questi ultimi è il romanzo Maria e i soldati, salutato con i migliori auspici dai critici del tempo (Pancrazi, De Robertis, Gallo, Bocelli e tanti altri). Qui il fatto cede il posto allo studio psicologico del momento, incerto e per questo non meno ricco di risvolti che fanno dello scrittore, ancora alla sua prima opera di narrativa, uno tra i più promettenti e validi della nostra letteratura. 

Il pregio del romanzo, la sua originalità, sta proprio qui, nel trascurare volutamente gli accadimenti per dare più importanza ai soggetti (e alle loro reazioni) che quelle esperienze vivono, ciascuno secondo la sua sensibilità. Ormai siamo negli anni in cui il neorealismo cominciava ad uscire da un modo esasperato e soggettivo di intendere la realtà e la vita per dare inizio alla riflessione e passare così da una esteriorità rumorosa ad una consapevolezza che nella coscienza del singolo trova la sua immediata ragione3. 

Maria e i soldati (4), per questo, è un romanzo corale, nel senso che (popolazione, soldati, militi, partigiani) tutti concorrono a creare un’atmosfera di attesa dovuta all’incognita del domani, all’evolversi della situazione che sempre più diventa incandescente, mentre il paese è diviso e combattuto nel fisico e nella morale. E se prima questa situazione era maggiormente sentita tra quanti erano vicini al potere o in esso coinvolti e nei luoghi più direttamente interessati, ora (siamo intorno al 1944) vivono in stato di agitazione anche quelli che si erano ritenuti al sicuro e fuori di ogni pericolo. 

Il racconto è incentrato su un distaccamento di soldati che nei magazzini della Sussistenza di una non ben precisata località del Centro Italia, a pochi chilometri dalla borgata di Santa Fiora, lavora ai forni e fornisce di pane e di viveri la zona militare di sua competenza. Tutto tranquillo, fin quando non si verificarono le prime avvisaglie di incursioni aeree alleate, ma soprattutto fin quando ai magazzini non arrivarono i militi con l’ordine di tenere la situazione sotto controllo. C’era un sottile malessere tra i soldati, specie da quando le azioni dei partigiani cominciarono a coinvolgerli direttamente, e il comandante aveva pensato bene di chiedere rinforzi. Anche perché un giorno o l’altro potevano essere attaccati, cosa che alla fine del romanzo è già decisa e data per scontata. 

Su questo, poca cosa per la verità, ma sufficiente a creare lo stato d’animo particolare che è di guerra, Sàito tesse con sapiente regìa il suo discorso che traduce l’ambiguità, le diffidenze, ma anche la generosità che nonostante tutto ha terreno fertile pure in momenti così tristi, e poi le speranze con i dovuti ripensamenti, la dedizione alla causa. In poche parole, lo scrittore ritrae bene lo stato d’animo delle parti in guerra senza cadere negli eccessi di una retorica che è consueta in opere del genere. 

Tutta la notte Remo stette ad occhi aperti. Cercava una via d’uscita a quella situazione e non la trovava. Egli non credeva ai miracoli: calcolava, non fantasticava più, e se si fosse potuto vedere al buio, in un pezzetto di specchio, quell’ombra infantile che nel momenti di rilassamento affiorava istintiva e trasparente sul suo viso, era stata definitivamente vinta (p. 115). 

La monotonia dei magazzini rotta a poco a poco dalle imboscate ai camion, dall’arrivo dei militi, cede il posto ad un disagio interiore che pesa come una cappa sulla testa di tutti, sui soldati come sulla gente, e ciascuno lo vive a modo suo. Tutti risentono di quel clima di tensione senza sapere bene perché, disorientati, successivamente, solo dopo l’arrivo dei militi, consapevoli di doverli contrastare. La guerra che altrove opera una netta scissione tra nemici, qui è come se non avesse luogo, eppure logora gli animi e rende sospettosi. 

A risentire di questo, Remo è l’ esempio più lampante e più studiato, controfigura di Maria che, a prima vista, può sembrare ambigua, ed invece recita bene la sua parte per legare gli altri alla causa di quanti lottano per uscire dalla guerra. Questa apparente ambiguità si dipanerà alla fine, quando si offre per facilitare l’assalto ai magazzini. Sicché Maria si rivela nella sua luce più vera che va al di là dei sentimenti, e sacrifica tutto, persino se stessa, senza niente chiedere, senza niente dire; sa solo di rendersi utile e per questo aspetta nella dedizione totale il sacrificio. 

Maria è determinata, come Andrea, il capo partigiano, come Bianchetti, il soldato passato con loro insieme a Remo, che, però, non riesce a darsi interamente alla causa, a sentirla con dedizione come gli altri, perché si fa prendere dal sentimento ed è dibattuto dal pensiero di lei che «gli si era infiltrata in corpo lasciandogli come un veleno imprecisabile e vago, che tutti gli avvenimenti posteriori non erano riusciti a spremere dalle sue vene» e dei compagni relegati ai magazzini, dal desiderio di vederli liberi e dal bisogno di amare. Remo è un ostinato, non vuol rendersi conto che in guerra c’è poco posto per i sentimenti. Maria soffre ma non si tradisce, riesce ad essere forte, a far prevalere un’ anima, ed è solo all’ultimo compresa da Remo, quando già le cose precipitano e non c’è tempo per i ripensamenti. 

Maria e i soldati è un romanzo d’amore sofferto, dove l’uomo fatica a vivere la sua umanità con i sentimenti più puri per il trascinarsi di una guerra fratricida che snerva e disorienta, e risulta piacevole sia per i fili sottesi del discorso ‘ narrativo che è pure avvincente, sia per il linguaggio calato nella realtà dei personaggi che non sono nelle condizioni di sfoggiare chissà cosa ma di esporre e di esporsi nella crudezza del momento. Nonostante il disagio che è dovunque, essi sono ben delineati e formano il variegato mondo che vive quel definito periodo. Anche l’aria che essi respirano in quel fazzoletto di terra è la stessa di tante altre parti, e vi prende corpo l’attesa, pur nel precipitare discontinuo di avvenimenti che dicono la gravità delle circostanze: la reazione di Mauro e la sua conseguente uccisione da parte dei militi (e la rabbia rattenuta dei compagni), il malumore e la chiusura della popolazione. E ci sono anche i partigiani che fanno proseliti e incrementano la loro azione di disturbo, il furto della mitragliatrice, la corsa di Bianchetti e il suo incontro con Remo nella casa di Maria … 

Nello Sàito già in questo primo romanzo rivela le sue doti di scrittore inconsueto. Intanto, dimostra di conoscere bene l’uomo e lo sa scrutare senza farsene accorgere, senza far pesare la sua presenza che è pure vigile e sostenuta da una prosa asciutta, senza ricadute o abbellimenti vari, calata nella psicologia dei personaggi, nel loro modo di valutare le cose, nel cercare un perché e nell’agire nel modo più consono . Sicché la scrittura ubbidisce al movimento interno che spesso è concitato, libera espressione del sentire. di tutti. Lo stesso paesaggio è assorbito nella vicenda che i protagonisti vivono, e le descrizioni sono riferite più all’ ambiente che ad altro, un ambiente dove uomini e cose risentono di uno stato di pesantezza e quasi di depressione. 

Arrivarono alla borgata. Remo non era mai stato a Santa Fiora: quattro case strette intorno a una chiesetta dal campanile aguzzo e giallastro. Dalla parte opposta a quella da cui erano entrati, una strada di campagna, ridiscendendo con larghi giri, conduceva nell’inteno della pianura. Sebbene fossero le prime ore del pomeriggio, non c’era quasi nessuno fuori delle case. 

Da una stalla uscì un contadino con una treggia, tirata da due buoi, piena di paglia mista a concime naturale. I buoi, dalle cui narici fumavano nuvole di alito caldo, si guardarono lentamente intorno: e a un grido dell’uomo si fermarono . di mala voglia, in attesa che quello aggiustasse con un forcone la paglia e il concime che minacciavano di cadere fuori della treggia (5). 

Eppure non mancano momenti. di grande tensione. Si veda la pagina che descrive Mauro nell’osteria con i militi e, quella di Bianchetti e Remo che recuperano la mitragliatrice e vanno defilati alla casa di Andrea. E poi Remo che incontra per la prima volta Andrea e il tumulto che quell’incontro gli suscita. Remo osserva, valuta ma a modo suo, con gli occhi del cuore, e non potrà mai rendersi conto, anche se partecipa, della determinazione di quegli uomini, a partire da Giovannino che nel suo silenzio decide ed è ubbidito e, inoltre, non riuscirà a motivare e tanto meno a giustificare l’uccisione di Antonio o di quella del milite. 

Lo scrittore plasma i suoi personaggi come l’artista la materia grezza, e non è facile dimenticarli perché in ciascuno di essi è la vita con le sue luci e le ombre su cui, vuoi o no, siamo chiamati a riflettere. 

Il secondo romanzo, Gli avventurosi siciliani, fu pubblicato nei «Gettoni» Einaudi, diretti da Vittorini, nel 1954, in un momento in cui il realismo cerca nuova linfa per rendere più incisivo l’apporto della letteratura nella società. Sàito, al di là delle tendenze, continua la sua ricerca iniziata con Maria e i soldati nel segno della razionalità che vede l’uomo più orientato ad affermare la sua lindura morale piuttosto che a cadere nelle maglie di un malcostume rapace. Studiato nella struttura, che è già molto, perché l’autore fin dall’inizio sa dove vuole arrivare, il romanzo si svolge, pur nella sua coerenza logico-narrativa, in due momenti (se non in tre, se si considera a sé la sosta palermitana) collegati tra loro, e il tutto in una prosa ormai padrona e libera, in cui persino il paesaggio ha la funzione di contrappunto, partecipando dell’aria che tira e della disposizione 

d’animo dei protagonisti. Al centro di tutto la Sicilia, con l’ amore e l’odio propri di chi vorrebbe che la sua solari età non contrasti con la triste realtà della gente. 

Fulvia, giovane milanese di sangue siciliano, viene mandata dalla madre in Sicilia con la scusa che lo zio Rosario sta male e la vuole vedere, ma con lo scopo di darla in sposa al di lui figlio Ninl, frivolo e vanesio. La prima parte del romanzo è dedicata al viaggio della ragazza da Milano fino a Napoli in treno, e di qui per mare fino a Palermo, dove Fulvia farà una sosta con amici casuali (l’avvocato Pennisi e l’esportatore Petralia) che già dalla partenza l’avevano adocchiata per spirito d’avventura. Si vede subito in opera, in treno come sulla nave o nella sosta a Palermo, l’estrosità dei due, che rasenta la comicità, ed è tutto un tocco di colore che mette in risalto alcuni aspetti dell’ essere siciliani, riconoscendo loro la generosità e la genialità delle trovate, il senso dell’ amicizia e anche la loro cocciutaggine. 

Se fin qui tutto si svolge nel segno di un’esaltante euforia dei protagonisti, l’arrivo a Trapani, da parte di Fulvia e di Petralia che la volle accompagnare, segna il cambio di registro che qui diviene drammatico con punte alte che sfiorano il tragico. Fulvia arriva in un momento particolare per don Rosario Barrancu, lo zio, che è ricco ma è anche uno sfruttatore e abusa dei salinari che lavorano nelle sue saline, grandi come un regno. Basta la morte di uno di loro per scatenare una rivolta e per far capire anche che è un mondo da fuggire, materialmente e soprattutto moralmente. 

Al primo apparire de Gli avventurosi siciliani alcuni critici notarono una minor coerenza alla tematica. G. De Robertis e N. Gallo che avevano salutato positivamente e con i migliori auspici Maria e i soldati, ora rilevano un contrasto tra prima («rumoroso, eccedente») e seconda parte («essenziale»)6, ora la caduta nella «raffigurazione, tra il simbolo e la favola, di una mentalità e di un paese7». 

Com’ è strutturato il romanzo, è facile giungere a siffatte conclusioni, e Sàito lo sapeva bene sin dall’inizio, dal momento in cui si prefisse di trattare della Sicilia da due angolazioni diametralmente opposte: una dall’esterno, ed è la solita retorica campanilistica di chi da lontano, con nostalgia, reclama la sua terra, dando sfogo al sentimento e risolvendo tutto nel mito (i discorsi che l’avvocato Pennisi e l’imprenditore Petralia fanno sul treno, il dirsi e sentirsi siciliani, il loro agire), nel parodistico e nel comico, senza avvedersene. E quando l’avvocato Pennisi afferma: «la Sicilia è un paese avventuroso», dice la verità, perché non ha potuto essere altro, ed è stata sempre bistrattata terra di conquista (basta dire che lo è tuttora), e non si è potuta mai realizzare come avrebbe potuto e dovuto. E la realtà è che la Sicilia è sfuggita di mano ai Siciliani, per cui non resta loro che darsi all’ avventura. 

Sàito, che è nella mente e nel cuore siciliano, ha sperimentato a spese sue questo, e ne soffre, perché sa che a niente valgono i tentativi dei singoli, se non c’è la volontà di cambiare una volta per tutte le cose. Questa intima sofferenza è nella pagina e, al di là delle apparenze, s’intravede in filigrana, grazie ad una scrittura ben dosata e ad una vigile presenza, eppure discreta e mai invasiva. L’altra angolazione riprende la Sicilia dall’interno. Qui non c’è posto per la retorica, tanto meno per i sentimenti, perché tutto è abbrutito dalla misera quotidianità del vivere che non dà scampo alla povera gente costretta a vendersi più che a lavorare dignitosamente. Ed è la Sicilia del sopruso, dove i prepotenti o detengono il potere o fanno lega con quanti lo esercitano. Firdusi, l’uomo di fiducia di don Rosario Barrancu è l’esempio lampante di questa categoria di persone fautrice dello schiavismo moderno. 

Alcuni uomini lavoravano nella prima salina, erano a circa trenta metri da noi. Correvano come animali neri, une dietro l’altro, in su e giù, coi cesti pieni di sale sulle spalle. Salivano sull’argine opposto, scaricavano in fretta il cesto e poi tornavano. [ … ] In basso c’era un uomo con una grande paglia in testa; era seduto sull’argine e ogni tanto gridava perché qualcuno dei salinai rallentava8. 

E c’è Barrancu che dalla sua parte ha la ricchezza ed è tutelato da quella stessa legge che dovrebbe essere garante di giustizia. A che vale la rivolta se viene soffocata dalla consorteria dei poteri? Non resta che evadere. Fulvia, liberatasi dalle grinfie dei Barrancu, prima va ad assistere con i suoi amici ad uno spettacolo dei pupi (che è realizzare con la fantasia ciò che è difficile nella realtà), poi fugge insieme con gli altri per non essere compromessa, per essere libera dai condizionamenti. 

E magari dicevano a tutti Sicilia Sicilia ma in fondo erano contenti di esserne fuggiti; e magari dicevano Palermo […] ma poi fuggivano perché essi non volevano tradire, non volevano essere complici di quell’ambiente dove tutti erano con la loro omertà complici9. 

Si potrebbe a questo punto pensare ad un senso di sfiducia, di delusione diffusa, ma in Nello Sàito non viene mai meno la speranza. C’è più che altro una forte denuncia contro lo Stato latitante che, una volta per tutte, deve mettersi dalla parte della gente e rendere giustizia delle inconc1udenze e dei tanti problemi ultrasecolari irrisolti. 

Dopo una lunga parentesi di anni, Nello Sàito ritorna alla narrativa nel 1970 con Dentro e fuori, pubblicato da Rizzoli. Si nota subito che Sàito narratore punti sulla qualità più che sulla quantità, se consideriamo che al suo primo apparire il romanzo viene salutato con molto entusiasmo dalla critica e dai lettori, è finalista al Premio Strega e, sempre nello stesso anno 1970, vincitore del Premio Viareggio. Lo stacco temporale, comunque, non comporta un affievolirsi dell’ impegno o un allontanamento dalla tematica; essi risultano convalidati, e la stessa scrittura ne esce arricchita, sicura, corroborata da un raziocinio che scava nella realtà del momento, e denuncia un immobilismo cronico, asfittico dei Siciliani, pronti ad accogliere mai a rifiutare, vittime non protagonisti della storia, di quella di ieri e anche di quella di oggi, ma lascia pure intravedere una speranza che è quella di non cadere nella tentazione di mollare tutto ed andare come tanti fanno. 

I migliori non hanno trovato di meglio che fuggire da qui. A me verrebbe invece la voglia di non tornare più su, comprarmi un pezzo di terra e inchiodarmi qui non per isolarmi sdegnosamente come il professore di filosofia o trincerarmi nel pessimismo totale di Guardione: ma per cominciare qualcosa proprio da qui, per risalire la corrente, non per me, io sono ormai morto dentro, ma per gli 

altri 10. 

È l’io narrante che pensa, ma è anche il nerbo del pensiero di Sàito che in questo come in altri suoi scritti spinge alla consapevolezza che vuoI dire fare storia, non subirla, bensì cercare di combattere per uscire dai condizionamenti ultrasecolari che oscurano la Sicilia e non la fanno apprezzare. 

Il titolo la dice lunga: Dentro e fuori, in Sicilia e fuori di essa, guardare dentro ma anche fuori, a confronto continuo con gli altri, sentirsi parte viva di un tutto e non chiudersi nel sordo settarismo, come fanno i professori di cui si parla, innalzando muri di incomprensioni e di chiusura. Allora il romanzo si connota come la continuazione ideale de Gli avventurosi siciliani. In entrambi l’io narrante espone lo stato d’animo di chi non vuole accettare, anzi non può accettare situazioni di compromesso e vuole essere se stesso, preferendo piuttosto fuggire o resistere rimanendo e portando avanti coerentemente la propria idea. 

Un professore universitario, nominato presidente di Commissione, da Roma viene in Sicilia per gli esami di Stato, e dovrà imporsi per ottenere un risultato più consono alle aspettative degli studenti piuttosto che un responso distaccato, freddo, dei professori, sempre in combutta e pronti a rintuzzare qualsiasi cosa, ma uniti quando si tratta di difendere il loro operato e il ruolo di cui sono investiti, come se si trattasse di una casta da difendere ad ogni costo. Nelle riunioni e durante gli esami il clima è teso; c’è tanta chiusura mentale ed è inutile affermare che la scuola deve essere viva, se vuole suscitare interesse e continuare la sua opera educativa; perciò, deve cambiare crescendo dentro, ma anche fuori, visto che ormai le informazioni vengono da tante parti. Ma di questo poco si curano i professori, presi come sono da interessi privati, a tutto pensano che ai giovani studenti considerati numeri più che persone. Alla fine, dietro le prese di posizioni del presidente, viene salvato il salvabile con buona pace di tutti. 

Il presidente, sin dal primo giorno va a stabilirsi a Portopalo, sul mare, in provincia di Siracusa, e preferirà viaggiare, pur di tutelare la sua libertà e la integrità morale. Così, al clima pesante degli esami alterna altri momenti che pure fanno scuola, vissuti con gli amici, a stretto contatto con l’ambiente paesano e il mare che gli danno il vero senso dell’ isola e lo mettono in posizione di privilegio, perché gli consentono di guardare dal di fuori dentro, la Sicilia e l’Italia, la scuola come si svolge in un’aula e come è nella vita. Terminati gli esami, il presidente rimane a Portopalo, anche perché col passare di agosto sarà impegnato con la seconda sessione. È la scuola della vita che lo affascina ed è l’amicizia di pescatori come Nunzio, o di Lorenzo e Michele, che lo legano ancor più alla Sicilia. 

Di qui l’idea di volersi stabilire definitivamente a Portopalo, la ricerca di un pezzo di terra e gli ostacoli che, almeno per il momento, non gli consentono di acquistarla. 

A parte gli incontri e le discussioni, la visita a Pantàlica, il riproporsi del contrasto fra passato e presente, più frequenti e vive sono qui, meglio che nella prima parte, le presenze immaginarie del padre e di Fosca che permettono al narratore di fare il punto su temi già anticipati (politica, antifascismo, Nord e Sud) che danno misura della molteplicità di interessi e spingono ad un confronto più aperto e sereno. Per la Sicilia che è musica, ora dolce ora triste, che invade tutto, come acqua del mare, punto fermo di tutto il romanzo. 

Nello Sàito è una voce sicura della nostra letteratura, che affida alla parola scritta ciò che si porta dentro e alla parola s’affida, auspicandosi una società più umana e più consapevole. 

Questo è il suo sentire, questo bisogno gli urge dentro, ed è un discorso di cultura più che di politica. Ed è magistrale ed esemplare insieme il modo come tutto questo è detto. L’autore ha nel sangue il teatro, e la Sicilia è un aperto scenario dove viene rappresentata la storia di tutto un popolo che ha sete di giustizia, che stenta ancora a farsi protagonista e rivendica a sé ciò che da sempre le viene imposto. 

I colloqui col padre lontano e con Fosca sono un efficace espediente con cui Sàito tesse il romanzo e lo arricchisce di pezze d’appoggio solide che gli conferiscono una forte valenza didattica, e gli danno anche materia per la narrazione, scavando in profondità nel tentativo di capire e, di conseguenza, agire. 

«Ma che vai a fare in Sicilia?» 
«Sono venuto proprio per questo, per capire», volevo dirti. «Ti ho disobbedito, lo so.» 
«Ma perché?» 
«Perché non ho mai condiviso questo tuo astio verso la Sicilia che ormai dura da quasi cinquant’anni, mi pare un astio irrazionale; ed io almeno non ne conosco le ragioni. Sei tu piuttosto che devi risponderrni, che non hai mai risposto alla mia domanda: perché sei venuto via di qui? Me lo dici perché?11» 

Vicinanza e distacco, riconoscenza e disobbedienza, portano non tanto a disconoscere l’operato dei padri, ma a verificarlo e perciò a continuarlo, a riconoscerlo. 

C’è anche la visita a Pantàlica. Per il presidente è una nuova esperienza, un tuffo nel passato che non deve coinvolgere più di tanto, perché è il presente che va preso in considerazione. Di qui la sfuriata con Turicchio e contro quanti si chiudono in un immobilismo che è rinuncia ed anche accettazione. Bella, a proposito, l’immagine del contadino che corre dietro al suo mulo che scappa sotto un sole cocente in una terra che è un deserto, ma è altrettanto bella l’immagine del presidente che inveisce ora contro Turicchio ora contro i professori, perché si ribella a questa staticità, lui scheletrico ma deciso ad andare avanti per dare una lezione di coraggio e di grande umanità. 

Dentro e fuori credo sia uno tra i libri più belli scritti in quello scorcio di secolo; a parte il fatto che non cede agli indirizzi di moda, esso non si stacca dalla realtà e ubbidisce al cuore e alla fantasia del suo autore. Di certo, comunque, è il romanzo più interessante, utile, tuttora attuale, che descrive una Sicilia sofferente e meravigliosa al tempo stesso.  

Quattro guitti all’ Università viene pubblicato a Roma, presso Bulzoni, nel 1994. È ancora il tema della scuola, allargato all’Università, che viene ripreso e affrontato in modo aperto, critico e certamente di accusa degli altari della cultura o, meglio, di tanta pseudocultura. Se ne I cattedratici (1969) e in Dentro e fuori Nello Sàito mette a nudo le sfasature, il tornaconto, il solipsismo e l’arrivismo che condizionano spesso i professori, tutti presi da ben altro piuttosto che dal lavoro di competenza, dal di dentro, perché conosce bene l’Università, essendo lui stesso un professore, in questo romanzo denuncia la grettezza e l’ignoranza che li porta a chiudersi in sé, presi dall’orgoglio e da una smania di potere che li mette l’uno contro l’altro. Di quale potere? viene subito da chiedersi, come anche fa il protagonista, e, in ogni caso, ne vale la pena, se a farne la spesa è sempre l’uomo? 

Quattro guitti (Bakunin, Anguilla, Marta e Cipolla) vivono di teatro e non ne possono fare a meno, perché il teatro è la loro vita, in quanto, in uno spazio pur ristretto, la verità prende corpo ed è la dominatrice della scena. Ma le cose non vanno bene. Proprio perché questi guitti dicono il vero, viene loro tolto il teatro di Mola di Bari e vengono a trovarsi in mezzo alla strada con pochi soldi e un camion che fa loro da mezzo di trasporto e da casa, visto che una casa non l’hanno. A Bakunin, un ex studente universitario, viene in mente il teatro dell’Università di Roma, e i quattro, dopo un viaggio movimentato, nottetempo, si presentano nella capitale, sperando nel professor Colapietro che proprio quella notte muore, e con lui la speranza di essere presentati al rettore: dovranno fare da sé, magari servendosi di Francesca, la giovane moglie del morto che niente potrà fare. Sarà Francesca a dire che il marito non andava d’accordo con i colleghi, e un diario trovato sul tavolo di Colapietro darà a Bakunin la dimensione di quel contrasto. 

Il teatro verrà negato, e la reazione è sempre imprevedibile e il più delle volte scatena violenza che si colora di rosso sangue quando i quattro guitti, usciti dalla casa della Colapietro, penetreranno nell’Università e s’impossesseranno del teatro. 

Questa è la trama che però è intessuta da acute notazioni che danno movimento all’ azione. È come se i protagonisti recitassero in un grande palco, ed è il teatro della vita che si apre loro davanti, tra realtà e sogno, anche se a dominare è la realtà che fustiga e tarpa le ali a chi avrebbe e potrebbe dire e fare qualcosa per la collettività. 

Avevamo un piccolo teatro a Mola di Bari, grazioso, ottocentesco, una gemma. Eravamo riusciti a raccogliere dopo due anni di fatiche intorno a noi alcuni giovani, poi adulti: insomma un pubblico, cui volevamo appunto dal teatro aprire gli occhi. Non ce l’avevamo con nessuno, semmai contro il mondo che continuava a camminare ad occhi chiusi e secondo cui siamo noi i sonnambuli. Per essere veri. O se volete finti ma di modello agli altri che secondo noi si sono dimenticati di essere uomini12. 

La tematica è di grande attualità: il teatro e la cultura che non vengono valorizzati come dovrebbero, i professori che s’allontanano sempre più dalla didattica e a tutt’altro pensano che al proprio insegnamento, la violenza che dilaga, il venir meno dei buoni sentimenti e, ancora, il divario Nord-Sud. Eppure il teatro e la cultura che aiutano ad aprire gli occhi non interessano più di tanto ai detentori del potere. Ne è che i finanziamenti sono sempre meno e, nel romanzo, ai quattro guitti non verrà ceduto il teatro e i professori, come Colapietro, che vorrebbero fare bene il loro lavoro sono emarginati. 

L’autore, con una scrittura agile e più che mai essenziale, ha saputo ancora una volta mettere il dito su una piaga che travaglia la nostra società, ed ha parole dure contro i responsabili di questo stato di cose, non per puro gusto di mettersi dall’altra parte, bensì per evidenziare i lati oscuri e aiutare a correggerli. 

Uno dei fili conduttori di tutta la produzione di Nello Sàito è il senso della vita, la moralità e, quindi, l’impegno che ognuno deve fare suo, perché il mondo diventi più umano. Può sembrare un’utopia, eppure alla luce di quanto avviene giorno dopo giorno bisogna puntare su questo, se si vuole evitare il peggio. Dire le cose, gridarle, uscire dal conformismo, è il modo migliore per essere prima di tutto se stessi e poi per ritrovare l’umanità che è in noi e negli altri. 

Con il suo nuovo romanzo Una voce, Sàito si serve di una voce che a poco a poco prende corpo e si manifesta perché predomini il bene e se ne tragga vantaggio, e l’uomo s’avvicini all’uomo per creare insieme condizioni di vita più consone, lontani il frastuono e la materialità. Tanti scrittori, pensatori d’ogni tempo (viene di pensare, a proposito, ad Antoine de Saint-Exupéry), attraverso le loro opere, cercano l’uomo; la stessa cosa è in Sàito particolarmente in quest’opera, dove la piena consapevolezza del modo come gira il mondo fa presagire l’andare incontro all’irreversibile. 

Come in tutti i suoi romanzi, la trama sembra appena abbozzata, eppure è ricca di immagini e contenuti profondi, e la penna è quasi una matita leggera che lascia un segno indelebile e connota persone e cose nella loro luce più vera, perché l’autore vuole arrivare al cuore e alla mente dei suoi lettori, convincere per farli ragionare. E come negli altri, anche in questo romanzo c’è molto autobiografismo, un recupero della giovinezza, la vita in famiglia, un richiamo della Sicilia che si fa sempre sentire, specie nei suoi figli migliori costretti ad andar fuori per realizzare la loro vita. 

Enrico, un giovane professore di storia e filosofia, stanco della stagnazione e del conformismo di provincia, dopo la morte dei suoi lascia la Sicilia insieme con il fratello Tommaso e va a Roma, dove si trasferisce per dare un senso alla vita, a quella sua e del fratello. Il contrasto fra la vita di città e quella del paese è enorme già al primo impatto: è un passaggio dalla noiosa staticità all’assordante caos, da un posto dove ognuno conosce ed è conosciuto fin nei particolari ad un altro dove si è nessuno e si passa inosservati tra una folla senza nome. In attesa di prendere servizio, Enrico e Tommaso vanno in giro per Roma, visitano la basilica di San Pietro e la trovano fredda, con poche persone e per lo più preti che si muovono nella piazza semi vuota come «tanti scarabei neri». Qui è la prima avvisaglia della voce che rimprovera il fasto, mentre altrove come a Gerusalemme è miseria; voce che si fa ancor più insistente all’inizio della partita di calcio cui i due fratelli avrebbero dovuto assistere. Difatti la partita non ci sarà perché essa punirà l’idolatria dei tanti scalmanati e succederà un putiferio: attacchi della polizia, scontri fra tifosi. Tommaso, mentre escono dallo stadio, viene scaraventato a terra, la gamba spezzata. La corsa al Policlinico, il ricovero, tra l’indifferenza dei medici e le proteste dei malati. Anche qui la voce minaccia e punisce l’arroganza di chi cura solo il suo tornaconto. 

Enrico deve per forza di cose ridimensionare le sue attese. La nuova scuola che si rivela conservatrice, il caos e il disagio sociale di Roma, la tracotanza e l’interesse che hanno sede laddove non dovrebbero aver luogo (nel Parlamento come al Policlinico), lo stordiscono talmente che la «voce» che si porta dentro si materializza e diventa più esplicita. A lui e a Carla non resta che fuggire, e da lontano, dall’alto del Gianicolo potranno guardare Roma. Enrico, provato, immagina la distruzione. 

Sàito con questo nuovo romanzo conferma le scelte e i temi altre volte affrontati ed enunciati. Il lettore può leggere Una voce a suo piacere, limitandosi alla narrazione, che è piacevole e fuori degli schemi comuni, soffermandosi magari su qualche particolare che più lo attrae. Ma per quel che mi riguarda, ritengo più utile soffermarmi sugli approcci che l’autore combina, perché egli fa parte di quella schiera molto ristretta di scrittori che insieme ‘ con il piacere della buona lettura regala spunti di riflessioni che non è facile dimenticare. Piacere della mente, ma anche dello spirito che ha pure bisogno di respirare aria nuova e di confrontarsi. Specie in un momento in cui i condizionamenti fanno capire quanto siamo soli e in che stato ci troviamo. 

Altro motivo in più per apprezzare i libri di Sàito, e non mi stancherò di ripeterlo, è che espone con distacco inconsueto la materia trattata e l’immagine che ne viene fuori, sia della Sicilia, dei Siciliani o di altro, rispecchia la realtà e, inoltre, non la esagera e deforma come spesso avviene. Questione di stile ma anche di onestà professionale che spinge lo scrittore ad essere obiettivo e coerente con sé e con gli altri. Va detto anche che le argomentazioni sono attualissime e se pure riferite il più delle volte alla sua terra, hanno un valore che vanno al di là dell’isola e interessano l’uomo ovunque si trovi. La fuga, il viaggio, il conformismo, il rapporto Nord-Sud, quello tra padri e figli, la scuola e i giovani, non sono temi cosmopoliti? 

Una voce è un romanzo loico-riflessivo che condanna la materialità e il conformismo, malattie della modernità, pericolo che ottenebra la quotidianità e rende infelici, lontani dai sentimenti puri. Narratori e filosofi del secolo scorso, drammaturghi (basti pensare a Camus e a Ionesco), hanno affrontato questi temi nella loro cruda drammaticità e hanno prospettato la rivolta, ma l’uomo s’è trovato spesso solo o non è riuscito nel suo scopo o si è chiuso in sé stesso. Il protagonista Enrico reagisce, dà voce alla sua coscienza e senso alla vita. Lui e Carla si salvano perché ascoltano e non sono attaccati ad alcunché, e si rendono uomini. Essi, ed anche Tommaso, sono personaggi ben delineati, e positivi. Miracolo dell’anticonformismo e dell’ anarchismo di Enrico-Sàito! 

Anarchismo? Da professore di filosofia ero abituato a ragionare, a non prendere per principio posizione contro nulla. L’anarchia dell’ 800 era stata utopia, ansia di libertà e per meglio dire di liberazione. Gesù, se era vero che era la sua voce, non era stato il primo anarchico, il primo ribelle contro l’ingiustizia? Che egli all’ ingiustizia contrapponesse l’amore, bene, ma non dimenticava nemmeno, citando spesso l’Antico Testamento, che il problema principale era quello dell’ingiustizia prima dell’amore. E me, siciliano, nonostante ogni critica sulla Sicilia ma per l’umanità, mi trovava particolarmente sensibile. Tornava il giovanile interesse per l’universalismo di me cittadino del mondo? E anche Bruno e Gesù non erano prima di tutto cittadini del mondo? Ribelli l’uno, lui ebreo contro la cultura ebraica del suo tempo e l’altro contro il conformismo, la struttura, la visione non certo italiana dell’inquisizione. Interesse per l’umanità non per se stessi, era questo che mi affascinava13. 

Il lettore sin dalle prime pagine noterà bene la serietà e la compostezza di questa ispirazione che mette in risalto l’invadente amoralità del nostro tempo, ed anche il disagio in cui sono costretti a vivere quanti vogliono starne fuori, come se fossero anormali, mentre sono i portatori sani di un malessere generale che rifiutano e combattono. 

Il mondo saitiano è fatto di documento umano, ma anche è ricco di tanta invenzione, di intreccio, di entrate e uscite di scena con freschezza e disinvoltura, dovuta, credo, alla frequentazione del teatro, anzi, alla professione di drammaturgo dell’autore, ai cui effetti deve anche la sua originalità. E questo perché Sàito non segue la moda, bensì quello che sente e come lo sente, pronto a far macerare la materia destinata a prendere forma. 

A popolare questo mondo sono personaggi comuni ma di alta levatura morale, che si chiedono il perché delle cose per aggiustare il tiro, mai per denigrare o adeguarsi passivamente alla realtà. È gente che si ribella per essere se stessa e dare prova di umanità, e si serve della dialettica dell’anticonformismo, coadiuvata però da motivazioni sempre fondate, calate nella realtà e perciò molto attuali. Più sfumati risultano i ritratti femminili. Tranne Fulvia de Gli avventurosi siciliani, essi sono abbozzati, eppure veri e vivi nella loro misurata presenza. Fulvia è tra le meglio disegnate, esplode vita dai pori e sa il fatto suo e in un modo o nell’altro sa farsi valere. Maria del primo romanzo si staglia e delinea in quel clima di guerra che giustifica la sua equivocità e la fa eroina. Ma tutte sono positive, come Carla di Una voce o la stessa Marta o Fosca degli altri romanzi, tutte ricche di una profondità d’animo che dà loro tono e le risalta. 

Personaggi vivi che a poco a poco prendono corpo e si delineano nella loro luce più vera. Come’ nel conterraneo Pirandello, in Nello Sàito vogliono evidenziare la loro presenza per essere emulati nella realtà. Che è forse la cosa più importante e bella per uno scrittore, e anche per il lettore che nella pagina scritta si riconosce. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

1. H. e D. Koenigsberger, Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquantanni), Terzo Millennio, Caltanissetta, 2002, pag. 13. 
2. A. Bocelli, Maria e i soldati, «II Mondo », 26.3. 1949. Dello stesso anno sono i contributi di P. Pancrazio «Corriere della Sera», 15.3. 1949 e G. De Robertis, «Tempo», 29. 5. 1949. 
3. Si legga, a proposito, G. Manacorda, «L’età del neorealismo», in Storia della letteratura italiana contemporanea / 1940-1965), Editori Riuniti, Roma, 1972,2″ rist., pagg. 27-49. 
4. N. Sàito, Maria e i soldati, Garzanti, Milano, 1970. 
5. Ivi, pag. 29. 
6. G. De Robertis, Gli avventurosi siciliani, «Tempo rivista». 
7. N. Gallo, Siciliani di Sàito. 
8. N. Sàito, Gli avventurosi siciliani, Garzanti, Milano, 1973, pagg. 141-142. 
9. Ivi, pagg. 176-177. 
10. N. Sàito, Dentro e fuori, Garzanti, Milano, 1973, pag. 131. 
11. Ivi, pag. 22. 
12. N. Sàito, Quattro guitti all’Università, Bulzoni, Roma, 1994, pagg. 8-9. 
13 N. Sàito, Una voce, Terzo Millennio, Caltanissetta, 2001, pagg. 95-96.

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 9-23.




Manfredo Bertazzoni, La terra è un luna park (uss’ fà accsé par scòrrar – si fa per dire -) Bologna, Girardi ed., 2007.

 “Si fa per dire” o, meglio, temi e problemi della vita di tutti i giorni
L’Autore, romagnolo, nato a Faenza, porta nel cuore i colori, gli odori, i sapori e, persino, gli umori e i rumori della sua terra e della gente che vi abita. È veramente un fiume in piena che minaccia di straripare ma si contiene, trascinando verso il mare ciò che gli capita lungo il tragitto. Questa è l’impressione che dà a primo acchito, la lettura del libro La terra è un luna park (uss’fà accsé par scòrar – si fa per dire -), un caleidoscopio di discorsi che abbraccia tutto, filosofia e storia, società e costume, divagazioni varie e, poi, argomentazioni rientranti tutte nell’attualità Anche quelle che apparentemente sembrano molto lontane, per l’arco di tempo a cui si riferiscono, esse fanno da ponte per risalire a riflessioni che toccano da vicino l’uomo. 

Il libro, più che un saggio, è una raccolta di scritti che rotea attorno al luna park che effettivamente è la terra. Azzeccato nel titolo, esso consiste nell’«organizzare una serie di pensieri in maniera un poco organica – scrive Manfredo Bertazzoni – o un po’ meno casuale, ha costanti riferimenti alla cronaca spicciola, alla politica e alle istituzioni, all’uomo con i suoi pregi e difetti, tutti riflessi sull’attuale, e per lo più letti in scenari a noi vicini, Bologna e la Romagna». Evidentemente, per cognizione di causa, si riferisce a Bologna e alla Romagna che è la sua terra, così come uno di Palermo può riferirsi alla Sicilia. Non c’è campanilismo, perché il discorso verte sull’uomo e come potrebbe cambiare in meglio la società in cui vive. In questo Bertazzoni ha fiducia; esamina la realtà con le difficoltà che presenta, ma non trascura le potenzialità che possono aiutare al cambiamento e al miglioramento. 

Già nel sottotitolo c’è l’argomentare che costituisce l’ossatura del libro, ed è l’argomentare della gente che nei vari momenti del giorno affronta i temi e i problemi della vita di tutti i giorni con semplicità e tanta spontaneità senza pretese, ma con quella sapienza propria di chi la vita la conosce e la pratica. Perciò non c’è da parte del suo autore, un voler prevenire; egli scrive come parla, a ruota libera, così come i tanti altri anonimi che capita di veder parlare o sentire e che ricorrono spesso al “si fa per dire”. Che, poi, è un modo rilassante di fare e di vedere le cose e il mondo, con un distacco che aiuta ad affrontare la vita e ad avvicinarci alla verità. 

Il libro, composto di sei sezioni (“Gente”, “Storie”, “Bologna”, “Costume”, “Società”, “Prospettive”) che sono ampiamente sviluppate, affronta temi vari che sono sotto gli occhi di tutti, dove l’Autore espone aspetti e punti di vista molto condivisibili per la gran parte, oggetto di discussioni e di approfondimenti per tanti altri. Tanto per fare un esempio, il capitoletto dell’inizio, ha una verità di fondo, ben visibile e palpabile; cioè la microstoria ha un peso fondamentale nella storia vera e propria, anzi è quella che la determina, senza darlo a vedere, perché non ha altri scopi ed è per questo, obiettiva; mentre quella che di solito è conosciuta, spesso è orientata da interessi di parte che la condizionano. Ma più avanti, quando parla di Bologna e della Romagna in genere, il pensiero va all’Impero d’Occidente che in questa terra ebbe il suo fulcro centrale e che qui lasciò tracce indelebili. 

È normale che dietro tutto c’è l’amore per la propria terra, e valorizzarla più di quanto si fa significherebbe darle il dovuto lustro che la storia le ha riservato. Scrive Bertazzoni: «Bologna utilizza poco il suo motore per se stessa e per gli estranei, fatto di piccole scoperte che appaiono ad ogni angolo a chi presta un poco di attenzione; occasioni che avrebbero il dono di vivacizzare un patrimonio disperso ed ignorato. […] Una piccola città come Bologna avrebbe bisogno di maggior contributo partecipativo, senza la trappola inutile del “fare per poi disfare” dove a rimetterci è sempre il vanagloriato e poco applicato concetto del “ciò che è di tutti». Un’osservazione che richiama all’uso che si dovrebbe fare del bene pubblico, spesso in balì e depredato dai cattivi amministratori che sono spesso i nostri politici di turno. 

Discutibili – dicevamo – sono, invece, altre considerazioni e affermazioni, come, per esempio, quelle a proposito di Oriana Fallaci e delle posizioni assunte nei confronti dell’Islam e del fondamentalismo. Questo è il volto bello della democrazia, quella vera, che dà a ciascuno l’opportunitàdi dire e di esprimere le sue idee e convinzioni per un aperto dialogo con gli altri che possono condividere o rigettare, ma in ogni caso è sempre un momento di confronto e di crescita nel rispetto di tutti, frutto di quella che i Greci chiamavano “politèa”, di cui lo Stato e la popolazione si facevano forti. Proprio quel sistema politico a cui Manfredo Bertazzoni guarda fiducioso, perché possibile, solo se l’uomo riacquisti la capacità di pensare con la propria testa e di agire con la forza della razionalità. È questo il filo conduttore del libro che ha una forte valenza umana e culturale che il lettore non può non rilevare e apprezzare. 

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 53-54.